39

A quel tempo, il governatore di Eridu era Shulutula, il figlio di Akurgal. Era un uomo di bassa statura, rotondo, con la pelle scura e un enorme naso tozzo. Eridu non ha Re; la monarchia scomparve da quella città molto tempo fa, prima del Diluvio. Ma, sebbene la sua condizione fosse solo quella di governatore, Shulutula viveva come un Re, in un grande palazzo, composto di due edifici gemelli, circondato da una muraglia immensa e doppia.

Mi ricevette con nervosismo, visto che ero arrivato nella sua città fuori stagione e che era stato preso alla sprovvista. Ma la sua natura era tranquilla e, non appena comprese che non ero andato a deporlo o a chiedergli una parte del suo tesoro, si rilassò notevolmente. Quella sera ordinò un grande banchetto per me, mi coprì di regali, di belle lance e di concubine. Mi regalò anche una statuetta di alabastro, della meravigliosa fattura, lunga quanto il mio braccio, con gli occhi incastonati di lapislazzuli e madreperla.

Parlammo fino a notte tarda. Sapeva che ero mancato da Uruk per qualche tempo, ma non osò chiedere né perché né dove fossi andato. Cercai di avere da lui il resoconto degli avvenimenti recenti della mia città, ma lui non poté o non volle dirmi molto, solo che aveva sentito dire che il raccolto era stato scarso e che c’era stato qualche allagamento lungo i canali durante la stagione dell’acqua alta. Ma l’oggetto delle sue preoccupazioni, chiaramente, non era Uruk ma Ur. Quella potente città, dopotutto, era solo a poche leghe da Eridu, e già Meskiagnunna aveva ingurgitato Kish e Nippur. Quale sarebbe stata la prossima, se non Eridu?

«Come si può dubitarne?», mi chiese Shulutula. «Sta cercando di ottenere il potere supremo su tutto il Paese.»

«Gli Dei non hanno concesso il potere supremo a Ur,» dissi.

Il governatore guardò con espressione cupa la coppa di vino.

«Si può esserne sicuri?»

«Non è possibile.»

«Un tempo il potere supremo era di Eridu, non è vero?», disse Shulutula. «Molti secoli fa, prima del Diluvio. Poi passò a Badtibira, a Larak, a…»

«Sì,» lo interruppi con impazienza. «Risparmiamelo. Conosco gli annali antichi anch’io.»

Sebbene il mio tono brusco lo avesse palesemente irritato, non si fece scoraggiare. Per questo mi piaceva.

«Ti chiedo perdono,» disse, e poi, con sorprendente audacia, continuò imperterrito: «… a Sippar e a Shuruppak. Poi arrivò il Diluvio, e tutto fu distrutto. Dopo il Diluvio, quando il potere regale discese di nuovo nel Paese, il posto in cui andò a risiedere fu Kish, non è vero?»

«D’accordo,» dissi.

«Meskiagnunna si è nominato Signore di Kish: allora non si potrebbe dire che il potere supremo è passato da Kish a Ur?»

Allora capii dove volesse arrivare.

Scossi la testa.

«No,» dissi. «Il potere supremo risiede a Kish, sì. Ma dimentichi qualcosa. Durante il primo anno del mio regno, Agga di Kish attaccò Uruk, fu sconfitto e fatto prigioniero. È chiaro che in quel momento il potere supremo passò da Kish a Uruk. Quando il Re di Ur conquistò Kish, prese solo un guscio vuoto. Il potere supremo non è più a Kish, è passato a Uruk. Dove tuttora risiede.»

«Allora tu sostieni che il Re di Uruk è Signore del Paese?»

«Ne sono più che certo.»

«Ma nei mesi scorsi non c’è stato Re a Uruk!»

«Tra breve ci sarà di nuovo un Re a Uruk, Shulutula,» gli dissi. Mi chinai in avanti fino a toccare con la punta del mio naso la zucca enorme che il governatore aveva al posto del suo naso, e dissi in un tono che non ammetteva incertezze: «Meskiagnunna può avere Kish se la vuole. Ma non gli lascerò tenere Nippur, perché è una Città Santa e deve essere libera. E ti dico anche questo: non avrà mai nemmeno Eridu. Non hai nulla da temere.» Poi mi alzai. Sbadigliai, mi stiracchiai, e riempii l’ultima coppa di vino. «Penso che abbiamo banchettato a sufficienza per stanotte. Il sonno mi chiama. In mattinata visiterò i Templi, poi comincerò il mio viaggio di ritorno a casa. Ti chiedo solo un carro, alcuni asini, e un auriga che conosca la strada per il nord.»

Parve sorpreso.

«Hai intenzione di andare per via di terra?»

Annuii.

«Darà al mio popolo più tempo per preparare la cerimonia di benvenuto.»

«Allora ti fornirò una scorta di cinquecento soldati, e tutto quello che puoi…»

«No,» dissi. «Un solo carro e gli animali per tirarlo. Un solo auriga. Non ho bisogno di altro. Gli Dei mi proteggeranno, Shulutula, come hanno sempre fatto. Andrò da solo.»

Gli fu difficile capire. Non riusciva a comprendere come io non avessi alcun desiderio di entrare in Uruk alla testa di un’armata di soldati stranieri. Volevo entrare nella mia città così come l’avevo lasciata, solo, senza timore. Il mio popolo mi avrebbe accolto perché ero il loro Re, non perché mi ero imposto, con la forza. Quando gli uomini vengono sottomessi con la forza delle armi, non sono sottomessi nell’anima, ma cedono solo perché non hanno scelta. Ma quando gli uomini vengono sottomessi con la forza del carattere, essi cedono con tutto il cuore, e si sottomettono completamente. Tutti i Re saggi lo sanno.

Perciò presi da Shulutula di Eridu solo quello che gli avevo chiesto: un carro e un auriga. Il governatore mi diede qualche provvista e una faretra di ottimi giavellotti, nel caso lungo la strada avessimo incontrato lupi e leoni ma, sebbene continuasse ansiosamente a cercare di persuadermi ad accettare una scorta, non cedetti.

Restai a Eridu altri cinque giorni. Dovevo compiere le purificazioni ai Templi di Enki e di An, e un rito privato in onore di Lugalbanda. Queste faccende mi tennero occupato tre giorni. Il quarto, secondo i Maghi di Shulutula, era un giorno sfortunato, perciò rimandai la partenza al quinto.

All’alba del quinto giorno partii per Uruk. Era il dodicesimo giorno del mese di Du’uzu, quando il pieno caldo dell’estate comincia ad invadere il Paese. L’auriga che mi fu dato era un uomo robusto, di nome Ninurta-mansum, che aveva forse trent’anni, e i primi peli grigi nella barba. Intorno al petto portava il nastro scarlatto con cui annunciava di aver dedicato la sua vita al servizio di Enki. In maniera strana, mi richiamava alla mente la cicatrice rossa che segnava il corpo del vecchio Namhani, l’auriga che aveva guidato il mio carro tanto tempo prima, quando ero un giovane Principe al servizio di Agga di Kish. La mia impressione era curiosamente giusta, perché il solo auriga che eguagliasse l’abilità di Namhani era proprio Ninurta-mansum: erano dello stesso genere. Quando tenevano le redini, era come se tenessero l’anima dei loro animali in mano.

Al momento della partenza, abbracciai Shulutula e gli giurai ancora una volta che avrei difeso la sua città dalle ambizioni del Re di Ur. Il governatore uccise una capra e offrì una libagione di sangue e di miele alla porta principale, per assicurarmi un ritorno tranquillo a casa. Poi partii.

Uscimmo dalla città attraverso la Porta dell’Abisso e oltrepassammo le alte dune e un grande bosco di spinosi alberi kishanu: quasi una foresta. Quando mi girai a guardare, vidi le torri del palazzo e dei Templi di Eridu ergersi, simili a castelli di Principi-Demoni, contro il cielo chiaro dell’alba. Poi attraversammo un’aspra cresta rocciosa e scendemmo nella valle. Ormai la città non si vedeva più.

Ninurta-mansum sapeva molto bene chi fossi e che cosa sarebbe probabilmente accaduto se fossi caduto nelle mani di qualche squadrone di soldati di Ur in pattugliamento. Perciò girò alla larga dalla città e deviò per la landa abbandonata e desolata che si trova ad occidente di Eridu. Era una terra deserta, spazzata da un vento aspro: la sabbia si alzava in vortici e prendeva la forma di tenui fantasmi, i cui occhi malinconici non mi lasciarono per tutto il giorno. Ma non ebbi paura. Non era nient’altro che sabbia che turbinava.

Gli asini sembravano instancabili. Correvano un’ora dopo l’altra e non sembravano conoscere né sete né stanchezza. Avrebbero potuto essere sotto un incantesimo, o forse Demoni stregati, tanto erano instancabili. Quando al tramonto ci fermammo, erano ancora freschi. Mi chiesi che cosa avrebbero bevuto gli animali in quella regione selvaggia, ma Ninurta-mansum cominciò subito a scavare, e poco dopo un zampillo di acqua dolce e fresca cominciò a uscire gorgogliando dalla sabbia. Senza dubbio, quell’uomo era sotto la protezione di Enki.

Quando non corremmo più rischi di incontrare guerrieri di Ur, l’auriga cominciò a guidarci più vicino al fiume. Eravamo sul lato orientale del Buranunu e dovevamo attraversarlo in qualche modo per arrivare a Uruk, ma questo non era un compito difficile per Ninurta-mansun. Conosceva un posto dove a quell’epoca dell’anno il fiume era basso e il fondo era solido e sicuro, e fu lì che ci fece attraversare il fiume. L’unico brutto momento fu quando l’asino di sinistra mise una zampa in fallo e cadde. Pensai che avrebbe rovesciato il carro nella caduta, ma Ninurta-mansum afferrò le tirelle e usò tutta la sua forza per tenerci diritti. Gli altri tre asini restarono saldi. Quello che era caduto si rialzò dall’acqua soffiando e sputando, riprese l’equilibrio, e così arrivammo sani e salvi sulla riva orientale del fiume. Forse nemmeno Namhani ci sarebbe riuscito.

Ci trovavamo nelle terre vassalle di Uruk. La città, però, era ancora a qualche lega di distanza, a nord-est. Non sapevo di chi fosse la terra in cui eravamo entrati, se fosse di Inanna, di An, o di qualche grande proprietario della città. Avrebbe anche potuto essere mia, perché avevo vasti possedimenti in quella regione. Ma, di chiunque fosse, una terra del Tempio o privata, era sempre terra di Uruk.

Dopo la mia lunga assenza, provai una tale gioia nel vedere quei campi fertili e ricchi che sarei saltato giù dal carro e avrei abbracciato la terra. Invece, mi accontentai di una libagione e dei brevi riti del ritorno a casa. L’auriga si inginocchiò al mio fianco, sebbene fosse uno straniero. Era un brav’uomo quell’auriga: più bravo di qualche Sacerdote e Sacerdotessa di mia conoscenza.

Incominciammo a incontrare i contadini. Naturalmente, riconobbero il loro Re, non fosse altro per l’altezza e il portamento. Corsero accanto al carro gridando il mio nome: agitai le mani, sorrisi, feci i Segni degli Dei. Ninurta-mansum frenò gli asini e il carro si mosse ad un trotto lento, in modo che la gente potesse tenerne il passo.

Aumentavano sempre di più, arrivavano dai campi a mano a mano che la voce si diffondeva, finché non furono centinaia. Quella sera, quando ci fermammo, ci portarono le cose migliori che avevano, birra forte e nera, la birra rossa che a loro piace tanto, il vino di datteri e la carne arrostita di vitello e di pecora. Per ore vennero da me uno alla volta, piangendo di gioia, per inginocchiarsi al mio cospetto e rendere grazie perché ero ancora vivo. Mi sono stati dedicati festeggiamenti più sontuosi, ma nessuno, credo, che mi abbia commosso così profondamente.

Naturalmente, la notizia che mi stavo avvicinando alla città mi precedette a Uruk. Era quello che volevo. Ero certo che Inanna avesse usato la mia assenza per prendere tutto il potere nelle sue grinfie. Volevo che quel potere cominciasse a scivolarle dalle mani, un’ora dopo l’altra, mentre i cittadini si sussurravano l’un l’altro che il loro Re stava per tornare.

Poi, finalmente, un giorno in cui il caldo danzava nel cielo come le onde dell’oceano, vidi le mura di Uruk alzarsi in lontananza, luccicanti, splendenti sotto il sole. Esiste in tutto il mondo una visione più bella delle mura di Uruk? Penso di no. Penso che avrei dovuto sentirne parlare, se fosse esistita un’altra meraviglia del genere. Ma non esiste, perché la nostra città è la Città delle Città, la dea tra le città, la città che è il cuore e il centro del mondo.

Quando ci avvicinammo, però, vidi qualcosa di insolito. Sulla pianura che si trova all’esterno della città, sulla distesa di terra nuda e sabbiosa che si stende tra la Porta Alta e la Porta di Nippur, macchie di colori vivaci spuntavano come enormi fiori al di sotto delle mura: sbuffi di scarlatto e di nero, di giallo e di blu. Erano un mistero per me, finché non mi avvicinai: capii allora che erano stati eretti tende e padiglioni. Per celebrare il mio ritorno, pensai, ma mi sbagliavo.

Mi aspettavo che mi venissero incontro i miei guerrieri, Bir-hurturre e Zabardi-bunugga, insieme alle truppe, e che mi scortassero in città. Invece, tre donne di Inanna uscirono a piedi da quei padiglioni. Capii subito che ci sarebbero stati problemi. Non conoscevo i loro nomi, ma le avevo viste durante le cerimonie: erano Alte Sacerdotesse. Indossavano lussuose tuniche scarlatte e portavano l’emblema del serpente in bronzo, avvolto a spirale intorno al braccio sinistro. Quando fui a portata di voce, quella al centro, che era alta e bella, con capelli neri intrecciati fittamente, fece il Segno della Dea e disse a voce alta: «Nel Nome di Inanna, ti ordiniamo di non andare oltre!»

Era troppo impudente perfino per Inanna. Mi irrigidii e trattenni il respiro, mentre un’ondata di rabbia mi montava dentro. Poi mi costrinsi alla calma. Con compostezza dissi:

«Sai chi sono, Sacerdotessa?»

Lei sostenne il mio sguardo con freddezza. Avvertii in lei una grande forza, e un potere spaventoso.

«Sei Gilgamesh, figlio di Lugalbanda,» rispose.

«Esatto. Sono Gilgamesh il Re di Uruk, di ritorno dal mio pellegrinaggio. Oppure vorresti metterlo in dubbio?»

Nello stesso tono misurato, disse, come se non concedesse nulla: «È vero. Sei il Re.»

«Allora, perché le donne della Dea mi ordinano di fermarmi in questo posto, al di fuori delle mura? Io voglio entrare nella mia città. Sono stato lontano per molto tempo. Sono ansioso di rivederla.»

Somigliavamo a due spadaccini che si provassero l’un altro con caute stoccate.

«La Dea mi ha ordinato di dirti quanto sia felice del tuo ritorno,» replicò lei, senza nessuna traccia dì gioia nella voce, «e vuole che ti porti nel luogo di purificazione che abbiamo eretto al di fuori delle mura.»

Spalancai gli occhi.

«Purificazione! Sono diventato impuro, allora?»

In tono blando, continuò:

«In sogno la Dea ha seguito i tuoi vagabondaggi, o Re. Sa che spiriti oscuri hanno invaso la tua anima, e vorrebbe liberarti del loro influsso malefico prima che tu entri nella città. È il suo modo di servire, e questa è la sua funzione: lo sai certamente.»

«La sua gentilezza è troppo grande.»

«Non è questione di gentilezza. È questione della salvezza della tua anima, di quella della città, e dell’ordine e dell’equilibrio altrui, che debbono essere mantenuti. Perciò la Dea ha decretato che si compiano questi riti, grazie alla sua grande misericordia e al suo immenso amore.»

Ah, pensai. La sua grande misericordia e il suo immenso amore! Per poco non scoppiai a ridere! Ma non lo feci: mi trattenni. Beh, mi dissi, giocheremo a questo gioco finché non finirà. Nel più cortese e formale dei modi, risposi: «La misericordia della Dea è sublime. Se la mia anima è in pericolo, deve essere purificata. Portami al luogo di purificazione.»

Quando scesi dal carro, Ninurta-mansun mi lanciò uno sguardo, e lo vidi aggrottare la fronte. Non avrebbe dovuto essere una sua preoccupazione il fatto che cadessi in un tranello: era un uomo di Shulutula, non mio. Eppure stava cercando di avvertirmi. Mi resi conto che sarebbe morto per me, se fosse stato necessario. Gli diedi una pacca sulle spalle per rassicurarlo, poi gli dissi di lasciar pascolare gli asini, ma di non farli allontanare troppo da me. Quindi seguii le tre Sacerdotesse di Inanna verso i padiglioni che erano sotto le mura.

Era evidente che le era occorso molto tempo per progettare tutto. Aveva fatto costruire un vero e proprio Recinto Sacro. C’erano cinque tende, una più grande, con il fascio di canne di Inanna infitto nella sabbia accanto all’ingresso, e quattro più piccole, nelle quali erano stati riposti tutti i tipi di attrezzi sacri: bracieri, incensieri, statue sante, stendardi, e simili…

Quando mi avvicinai, le Sacerdotesse cominciarono a cantare, i musici cominciarono a percuotere i tamburi e a soffiare nei flauti, i danzatori del Tempio mi girarono intorno tenendosi per mano. Guardai la tenda principale: Inanna in persona doveva attendermi al suo interno, pensai, e all’improvviso la gola mi si seccò e le viscere mi si torsero.

Avevo paura? No, non era esattamente paura: avevo l’impressione che il mio destino si stesse compiendo. Da quanto tempo non ci incontravamo faccia a faccia? Quali trasformazioni aveva compiuto alle mie spalle nella città? Certamente, Inanna aveva intenzione di compiere la mia rovina quel giorno, ma come? E come avrei potuto difendermi?

Fin dall’infanzia — quando lei stessa era stata poco più di una bambina — il mio fato era stato legato a quella donna dall’anima oscura. E, mentre mi avvicinavo, ero certo che all’interno di quella grande tenda nera e scarlatta, che si alzava davanti a me sulla pianura di Uruk, sarebbe avvenuto lo scontro finale tra i nostri destini.

Ma mi sbagliavo anche in questo caso. Le tre Sacerdotesse alzarono la cortina della tenda e la mantennero alta, invitandomi a entrare. Entrai, e mi trovai in un ambiente profumato, pieno di lussuose stuoie e bei tendaggi. Al centro della tenda, inginocchiata su una stuoia, mi aspettava una donna dalle forme voluttuose, il cui corpo era nudo tranne che per uno splendente pendaglio d’oro che le pendeva tra i seni e per lo spesso corpo color verde-oliva di un serpente della Dea. Il serpente le era avvolto come una corda intorno alla vita, e si muoveva con pulsazioni lente e scivolose.

Ma quella donna non era Inanna. Era Abisimti la Cortigiana Santa, la donna che mi aveva iniziato ai riti della virilità, la donna che aveva fatto la stessa cosa per Enkidu, quando il mio amico viveva nella steppa. Mi ero preparato a vedere Inanna, e la sorpresa e lo sconvolgimento di trovare qualcun altro al suo posto mi stordirono. Barcollai, indietreggiai, persi la coscienza. Mi sentii sull’orlo di un abisso. Ondeggiai, tremai, mi trattenni dal precipitare con il poco che mi restava della mia forza.

Abisimti mi guardò. I suoi occhi avevano uno strano bagliore. Bruciavano nelle orbite, simili a sfere di scintillante cornalina. Con una voce che sembrava provenire da lontano, da un mondo che non era questo mondo, la donna mi disse: «Salve, o Re! Salve, Gilgamesh!» E mi fece cenno di inginocchiarmi al suo fianco.»

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