Un certo giorno, uno schiavo con il simbolo di Inanna venne un giorno da me mentre mi esercitavo a lanciare il giavellotto e disse: «Devi recarti subito al Tempio della Dea.»
Mi guidò attraverso corridoi tortuosi che non avevo mai visto, nella profondità del Tempio di mio nonno, o forse anche al di sotto di esso, dentro tunnel che scendevano all’interno della Piattaforma Bianca. Alla luce tremolante delle nostre lampade ad olio, vidi che le sale avevano tutte le volte alte ed erano riccamente adorne di mosaici rossi e gialli, il che era strano in quel luogo di notte eterna. Nell’aria si sentiva l’odore dell’incenso, e un’umidità intensa, come se le mura stesse trasudassero. Era evidente che mi trovavo in un sacrario, forse quello della stessa Inanna. Mi sentii a disagio a quell’idea, come lo ero sempre al cospetto di qualsiasi cosa riguardasse Inanna troppo da vicino.
Udii le corse di animaletti nel buio, e il rumore di respiri rauchi e affrettati. Ogni tanto un corridoio intersecava il nostro, e io scorgevo in lontananza la luce di lampade. Due volte ci imbattemmo in Maghi o esorcisti all’opera nel passaggio, alla luce delle candele, accovacciati sul pavimento di mattonelle a spargere farina d’orzo e rami di tamarici dall’odore pungente, mentre pronunciavano i loro incantesimi. Non ci prestarono alcuna attenzione. Poco dopo, nel guardare un passaggio trasversale, ebbi la fugace visione di tre creature tozze, scure, bipedi, con i petti robusti e villosi e gli zoccoli di capra, trascinarsi lontano da noi. Sono sicuro che le vidi. Non ho dubbi che fossero Demoni. Sapevo che eravamo in un luogo pericoloso, dove un mondo confina con l’altro, e cose che dovrebbero essere invisibili attraversano confini che non dovrebbero essere attraversati.
Restammo sulla nostra strada, scendendo sempre più sotto. Alla fine arrivammo ad una grande porta rivestita di bronzo che girava su una grande pietra nera e rotonda, incassata nel pavimento.
«Entra,» disse lo schiavo.
Entrai in una stanza lunga e stretta, profonda e buia. Le rozze pareti di mattoni erano decorate di schisto nero e calcare rosso conficcati nel bitume. Lampade infilate in quattro candelabri a parete fornivano una fioca luce. Sul pavimento si sovrapponevano due triangoli di metallo bianco che si intrecciavano a formare la sagoma di una stella a sei punte.
Al centro della stella stava in piedi una donna, perfettamente immobile.
Mi aspettavo di trovarmi davanti ad Inanna, ma quella doveva essere una Sacerdotessa minore, più alta, più giovane e più snella. Fui certo di averla già vista durante le cerimonie della Dea, alla destra di Inanna, intenta a svestirla e vestirla, come esigeva il rito: era un’ancella della Dea, del circolo più interno del Tempio.
Per un lungo momento ci fissammo in silenzio. La sua bellezza era straordinaria. Mi afferrò come una grande mano a cui non potevo sfuggire. Sentii il suo potere di prendere e scuotere la mia anima come i venti caldi dell’estate. Era adornata in modo elaborato: le guance erano colorate di giallo ocra, le palpebre superiori erano scurite dal kajahl, le inferiori erano rese verdi dalla malachite, e i folti e lucenti capelli erano rossi per l’henné. Indossava abiti sfarzosi, con il fascio di canne, emblema di Inanna, ricamato sul petto. Una sfera di mirra bruciava in un incensiere che poggiava su un treppiedi d’argento. I suoi occhi, scuri e penetranti, mi guardarono da una spalla all’altra, dalla testa ai piedi: sembrava che stesse prendendo le mie misure.
Alla fine mi salutò per nome, con il mio nome di nascita. Io non conoscevo il suo, perciò non potei rispondere. Mi limitai a guardarla stupidamente a bocca aperta.
Poi lei disse, con superbia: «Ebbene? Ti ricordi di me?»
«Ti ho visto servire Inanna durante le cerimonie.»
I suoi occhi lanciarono un lampo.
«È ovvio che tu mi abbia visto. Tutti mi hanno visto. Ma io e te ci siamo conosciuti. Abbiamo parlato.»
«Abbiamo parlato?»
«Molto tempo fa. Tu eri molto piccolo. Ti deve essere uscito dalla mente.»
Dimmi il tuo nome, e io mi ricorderò se ci siamo conosciuti.»
«Ah, mi hai dimenticata!»
«Dimentico poco. Dimmi il tuo nome,» dissi.
Lei sorrise maliziosamente, e mi disse il suo nome, che non posso scrivere, perché, così come il mio nome di nascita, è stato sostituito da un nome più sacro e deve essere abbandonato per sempre.
Il suono del suo nome aprì le chiuse della mia memoria, e dal magazzino della mia mente uscì un torrente di ricordi: lacci di perle blu, amuleti di madreperla rosa, un corpo nudo e sinuoso di fanciulla, dipinto con motivi a forma di serpente, seno in boccio, un profumo penetrante. Questa donna era quella stessa bambina birichina? Si. Si. Il suo seno era più che un bocciolo, ora, e la faccia si era allargata. La scintilla intelligente dei suoi occhi era oscurata dai cosmetici femminili con cui li aveva dipinti. Ma ero certo di vedere la bambina nascosta nella donna.
«Si, adesso ricordo,» dissi. «Il giorno dell’investitura del nuovo Re, quando mi ero perso nel labirinto del Tempio, e tu venisti in mio aiuto, mi confortasti e mi riportasti nella sala della cerimonia. Ma sei cambiata molto.»
«Non molto, credo. Allora avevo già cominciato ad essere una donna. Avevo già sanguinato tre volte il sangue della Dea. Mi pare che non fossi molto diversa da ora. Ma tu sei molto cambiato. Eri solo un bambino allora.»
«È accaduto sei anni fa, o poco più.»
«Si? Che bambino dolce eri!» Mi lanciò un’occhiata esplicita. «Ma non sei più un bambino. Abisimti mi ha detto che sei un vero uomo.»
Confuso, sgomento, gridai: «Pensavo che le azioni delle Sacerdotesse fossero segreti sacri!»
«Abisimti mi dice tutto. Siamo come sorelle.»
Inquieto, spostai il peso da una gamba all’altra. Come tanti anni prima, provavo rabbia e incertezza, perché non riuscivo a capire se mi prendesse in giro. Ero stranamente indifeso davanti alla sua astuzia. Ero cresciuto, si, ma anche lei; e se io non avevo superato da molto i dodici anni, lei ne aveva almeno sedici, ed era ancora avanti rispetto a me. Aveva una lama affilata, che mi tagliava ogniqualvolta tentavo di afferrarla.
Dissi, un po’ troppo bruscamente: «Perché sono qui?»
«Pensavo che fosse arrivato il momento di rivederci. Ti ho visto la prima volta durante la festa, quando sei andato al Tempio a portare offerte. Il mio sguardo è caduto su di te, mi sono incuriosita e ho chiesto a qualcuno: «Chi è quell’uomo? E mi fu risposto: «Non è un uomo, è solo un ragazzino, è il figlio di Lugalbanda.» Mi meravigliai che tu fossi cresciuto così rapidamente, perché credevo che fossi ancora molto piccolo. Poi, qualche giorno dopo, Abisimti disse che un Principe era andato da lei nel convento e che lei lo aveva iniziato alla virilità. Le chiesi chi fosse il Principe, e lei mi disse che era il figlio di Lugalbanda. Pensai che avrei voluto parlare di nuovo con te, dopo aver udito Abisimti. Le parole di Abisimti mi incuriosirono sul tuo conto.»
Mi infuriò il fatto che ero ancora troppo sempliciotto per leggere i significati tra le righe. Stava dicendo che desiderava lei stessa andare al convento con me? Così sembrava, altrimenti perché mi aveva mandato a chiamare, e perché i suoi sguardi erano così impudichi quando si posavano su di me? Bene, sarei stato felice di soddisfarla, più che felice! La sua bellezza mi faceva impazzire. Ma non ero certo che lei lo desiderava, e non osavo provare, per paura di essere rifiutato. Non si può avere una Sacerdotessa di Inanna con tanta facilità; sono disponibili solo quelle che servono nel monastero, che si sono consacrate come prostitute sacre. È ignominioso avvicinare le altre, che sono riservate al Dio o al Re in cui è incarnato il Dio. Non so a quale categoria appartenesse. Forse era solo un gioco per lei, e io solo il suo giocattolo, un bambolotto cresciuto invece del bambolino di un tempo. Sentii la sua ragnatela avvolgermi, e mi persi tra i suoi fili.
Disse: «Che cosa ti è successo? Che cosa fai? Io non esco mai dal Tempio, non ho notizie della città, tranne le chiacchiere che mi riportano le cameriere.»
«Mia madre è Sacerdotessa di An. Io compio qualche funzione nel suo Tempio. Studio le cose che studiano i ragazzi. Voglio entrare nel pieno della virilità.»
«E poi?»
«Farò quello che gli Dei esigeranno da me.»
«Qualche Dio ti ha già scelto?»
«No,» dissi. «Non ancora.»
«Lo vorresti?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Accadrà quando accadrà.»
«Inanna mi ha scelto quando avevo sette anni.»
«Accadrà quello che accadrà,» dissi.
«Quando lo saprai, verrai da me e mi dirai quale Dio è?»
Mi fissava con intensità. Sembrava vantare un diritto su di me, e non capivo perché. E non mi piaceva. Ma il suo potere era forte. Sentii me stesso rispondere dolcemente: «Si, te lo dirò. Se è quello che vuoi.»
«È quello che voglio,» disse.
Allora il suo atteggiamento si addolcì: perse quella punta maliziosa, e quell’espressione che mi pareva licenziosa. Da un sacchetto appeso al polso prese un amuleto e me lo diede. Era una statuetta di Inanna, con un grande seno e con le cosce gonfie, scolpita in una pietra verde e levigata in un modo che non avevo mai visto. Sembrava risplendere di una fiamma interna.
«Tienilo sempre con te,» disse.
Mi turbò ricevere quell’amuleto da lei. Ebbi l’impressione che il prezzo della statuetta fosse la mia anima.
Dissi: «Non posso accettare un oggetto così prezioso.»
«Non puoi rifiutarlo. Sarebbe un peccato respingere i doni di una Dea.»
«I doni di una Sacerdotessa, sarebbe meglio dire.»
«La Dea parla attraverso la sua Sacerdotessa. Questo è tuo e, finché lo terrai, sarai sotto la protezione del potere della Dea.»
Forse era vero. Ma mi metteva a disagio. Ad Uruk siamo tutti sotto la protezione del potere della Dea, ciononostante Inanna è una Dea pericolosa, che si occupa in modo misterioso dei propri sudditi, ed è imprudente avvicinarsi troppo a lei. Mi padre aveva servito Inanna, come ogni Re di Uruk deve fare ma, ogniqualvolta si era recato privatamente in un Tempio, era sempre stato quello del Padre del Cielo, An. E io stesso mi sentivo più a mio agio con Enlin delle Tempeste che con la Dea. Ma non avevo altra scelta che prendere l’amuleto. Può essere pericoloso adorare Inanna, ma è di gran lunga peggiore provocare la sua ira.
Quando quel giorno me ne andai, mi sentivo strano, come se fossi stato costretto a cedere qualcosa di grande valore. Ma non avevo idea di che cosa si trattasse.
Nei mesi successivi fui invitato molte altre volte nella sala delle udienze che si trovava alla fine di quella galleria di Demoni e di Maghi, nelle viscere del Tempio di Enmerkar.
Ogni volta era lo stesso: una conversazione inconcludente, un corteggiamento minaccioso che non portava a nulla, e l’impressione di essere stato sconfitto in un gioco le cui regole non capivo. Spesso aveva un piccolo dono da darmi ma, quando fui io a portarle un regalo, lei non lo prese. Voleva sapere molte cose: notizie della Corte, dell’assemblea, del Re. Che cosa avevo sentito dire? Che cosa si diceva nel Palazzo? Era insaziabile.
Divenni prudente, le dicevo poco, rispondevo alle sue domande con risposte brevi e vaghe, fin dove mi fosse possibile. Non sapevo che cosa volesse da me. E temevo il potere della sua bellezza, che sapevo era forte abbastanza da portarmi alla rovina. A chiunque altro, per quanto fossi piccolo d’età, avrei detto: «Vieni con me, stiamo un po’ insieme,» ma come avrei potuto dire queste parole a lei? Schermata com’era dall’aura di divinità, sarebbe stata irraggiungibile, finché non avesse dato il suo consenso. Ad una sua sola parola, ad un suo solo cenno, mi sarei inginocchiato ai suoi piedi.
Ma lei non diceva quella parola. Non faceva quel cenno. Pregavo gli Dei di stringerla tra le braccia. Ma, sebbene il calore del suo sorriso dicesse una cosa, la scintilla glaciale dei suoi occhi ne diceva un’altra, e mi teneva lontano da lei come se fossi un eunuco. Sembrava aldilà della mia portata. Eppure non avevo dimenticato le parole che mi aveva detto quand’ero bambino, il giorno dell’incoronazione di Dumuzi: Quando sarai Re, io giacerò tra le tue braccia.