Non le volli dare nemmeno la carcassa del toro da seppellire nel terreno del Tempio: avevo intenzione di negarle ogni cosa. Chiamai i macellai, feci tagliare le carne in pezzi e li feci distribuire ai cani della città, per mostrare il mio disprezzo per Inanna e il suo toro. Ma le corna le tenni per me. Le consegnai agli artigiani e agli armieri, che furono meravigliati dalla loro lunghezza e dal loro spessore. Ordinai loro di rivestirle con uno strato di lapislazzuli spesso due dita, poiché volevo appenderle alle mura del palazzo. Erano così grandi che avrebbero potuto contenere sei misure di olio: le riempii con gli unguenti più pregiati, che versai davanti al santuario di Lugalbanda, in onore del Dio mio padre, che mi aveva concesso questo trionfo.
Quando tutto fu finito, ci lavammo le mani nelle acque del fiume e cavalcammo insieme per le strade di Uruk, verso il palazzo. I cittadini uscirono cautamente, uno a uno, dalle proprie case per vederci e, dopo che i primi furono usciti, gli altri presero coraggio, finché una grande moltitudine si schierò lungo il nostro cammino.
C’erano Eroi e guerrieri di Uruk, ragazze che suonavano la lira, e molti altri. Mi inorgoglii e gridai: «Chi è l’Eroe più glorioso? Chi è l’uomo più grande?» Risposero: «Gilgamesh, è l’eroe più glorioso! Gilgamesh è l’uomo più grande!» Perché non avrei dovuto inorgoglirmi? Inanna aveva liberato il Toro del Cielo, e io l’avevo ucciso: Enkidu e io. Non avevo forse il diritto di inorgoglirmi?
Quella notte a palazzo ci fu un banchetto per celebrare la vittoria. Cantammo e bevemmo finché non fummo sazi, poi andammo a letto. Quella notte il vento iniziò a soffiare e l’aria divenne fresca e umida. Prima del mattino, aveva cominciato a cadere su Uruk la prima pioggia dell’inverno.
Quel giorno fu l’apice della mia gloria, il culmine del mio trionfo. Pensavo di non avere più nulla a cui aspirare. Avevo aumentato la ricchezza della mia città e l’avevo resa più importante del paese, avevo ucciso Huwawa, avevo ucciso il Toro del Cielo, avevo portato la pioggia su Uruk, ero stato un buon pastore per il mio popolo. Ciononostante, da quel giorno in poi conobbi poca gioia e molta tristezza. Credo che questo fosse il destino che gli Dei mi avevano assegnato mentre mi concedevano quei momenti di trionfo. Così va la vita: c’è la bellezza e c’è il dolore, e noi impariamo presto che il buio segue la luce, che lo vogliamo o no.
Il mattino Enkidu venne da me; aveva un aspetto triste e stanco, come se durante il sonno avesse conosciuto un grande dolore. Chiesi: «Perché sei così afflitto, fratello, quando il toro è morto e la pioggia cade su Uruk?»
Lui si sedette accanto al mio letto, sospirò e disse: «Amico mio, perché gli Dei sono in consiglio?» Io non capii, ma lui aggiunse: «Ho fatto un sogno che mi opprime, fratello. Vuoi che te lo racconti?»
Aveva sognato che gli Dei erano riuniti nella loro camera di consiglio; c’erano An, Enlil, il Celestiale Utu, e il Saggio Enki. Il Padre del Cielo An disse a Enlil: «Hanno ucciso il Toro del Cielo, ed hanno ucciso anche Huwawa. Perciò uno dei due deve morire: sarà quello che ha sradicato il cedro dalle montagne.»
Allora Enlil intervenne.
«No, Gilgamesh non può morire, perché è il Re. È Enkidu che deve morire.»
Al che Utu alzò la voce e dichiarò: «Hanno chiesto la mia protezione quando sono andati a uccidere Huwawa, e gliel’ho concessa. Quando hanno ucciso il Toro, mi hanno offerto il suo cuore. Non hanno fatto nessun errore. Enkidu è innocente: perché dovrebbe morire?»
Sentendo questo, Enlil si arrabbiò, si rivolse al Celeste Utu e disse: «Parli di loro come se fossero tuoi amici! Ma sono stati commessi dei peccati e Enkidu deve morire.» E la discussione infuriò finché Enkidu non si svegliò. Quando ebbe finito, restai in silenzio per un po’, e la mia espressione rimase immutata. Che sogno tremendo! Mi riempì di paura, ma non volevo che se ne accorgesse. Io stesso non volevo affrontare quella paura. La paura dà ai sogni un potere che altrimenti non avrebbero. Decisi di non dare potere a questo sogno, di buttarlo via come si butta via una canna secca.
Alla fine dissi: «Penso che non dovresti prenderlo troppo a cuore, fratello. Spesso il vero significato di un sogno è meno ovvio di quanto sembri.»
Enkidu abbassò lo sguardo con espressione disperata.
«Un sogno che preannuncia la morte è un sogno che preannuncia la morte,» disse cupo. «Tutti i saggi concorderebbero. Sono già un uomo morto, Gilgamesh.»
Pensai che fosse un’assurdità, e glielo dissi. Dissi che non era morto fintantoché era vivo, e mi sembrava pieno di vita. Dissi anche che è stupido prendere un sogno così alla lettera da permettergli di influenzare la vita reale. Non voglio fingere che ci credessi veramente, pur dicendolo: so come chiunque che i sogni ci vengono sussurrati dagli Dei e che spesso comunicano messaggi degni di attenzione. Ma in quel sogno non trovai nulla che Enkidu avrebbe fatto bene ad ascoltare, e molte cose su cui sarebbe stato dannoso riflettere. Perciò lo spinsi a mettere da parte tutti i pensieri tristi e a occuparsi dei suoi affari, come se nel suo sogno avesse sentito solo cinguettii di uccelli, o mormorii di venti.
Le mie parole parvero rincuorarlo. A poco a poco la faccia gli si illuminò, fece un cenno di assenso e disse: «Sì, forse prendo questo sogno troppo sul serio.»
«Fin troppo sul serio, Enkidu.»
«Sì. Sì. È un mio grande difetto. Ma tu mi fai sempre vedere le cose nel modo giusto, vecchio amico.» Sorrise e mi strinse il braccio. Poi si alzò, si lasciò cadere sul tappeto per la lotta e mi fece un cenno di invito. «Vieni: che ne diresti di un po’ di sport per distrarci?»
«Buon’idea!», risposi. Risi nel vederlo meno afflitto. Lottammo per un’ora, poi facemmo il bagno. Quindi arrivò l’ora di partecipare alla riunione dell’assemblea. A mezzogiorno avevo ormai dimenticato il sogno di Enkidu, e credo che anche per lui fosse lo stesso: per un attimo aveva oscurato la nostra vita, ma era passato come un’ombra sulla terra. Almeno, così credevo.
Pochi giorni dopo,- al fine di rendere grazie per l’uccisione del Toro del Cielo, decretai che avremmo compiuto il rito di purificazione chiamato la Chiusura della Porta. Era un rito che non si compiva a Uruk da tanti anni che nemmeno i Sacerdoti più vecchi ne ricordavano i particolari esatti. Ordinai a sei studiosi di ricercare per tre giorni nella biblioteca del Tempio di An un resoconto del rito. L’unica cosa che riuscirono a trovare fu una tavoletta scritta in maniera così antiquata che ne interpretarono a malapena gli ideogrammi.
«Non preoccupatevi,» disse. «Chiederò a Lugalbanda di guidarci. Sarà lui a mostrarmi che cosa si deve fare.»
Avevo intenzione di assicurarmi che il tunnel che da Uruk scende negli Inferi fosse chiuso, visto che Inanna aveva minacciato di aprirlo. Nella sua ira avrebbe potuto veramente danneggiare la porta, cosicché gli spiriti malvagi o forse i fantasmi dei morti sarebbero riusciti ad entrare nella città. Devo assicurarmi che il cancello sia chiuso, pensai, e escogitai un rito destinato allo scopo.
Dedussi il procedimento dai vaghi ricordi degli antichi Sacerdoti» dall’antica tavoletta e dalla mia idea di che cosa sarebbe stato opportuno. Era un rito appropriato. Ma, se dovessi rifarlo, lascerei la porta dell’inferno aperta per mille anni piuttosto che provocare quello che mi accadde quel giorno.
Quella porta è una delle più antiche di Uruk, alcuni dicono che sia più antica della Piattaforma Bianca e che, naturalmente, fosse stata costruita dagli Dei stessi. La porta si trova a centoventi passi ad est della Piattaforma Bianca. Non è nient’altro che un anello di mattoni di terracotta, rovinati dalle intemperie, di una forma molto antiquata, che circondano una robusta porta rotonda, di rame arrugginito e squamoso che è infissa nel terreno come una botola. Un anello è posto al centro, foggiato in un metallo nero che nessuno riesce a identificare. Due o tre uomini forti, tirando quell’anello con tutta la loro forza riescono a sollevare la porta da terra.
Quando la porta è alzata, rivela un buco buio che è l’imboccatura di un tunnel, poco più ampio delle spalle di un uomo robusto, che scende sottoterra. Se lo si percorre, dopo pochi passi, su arriva ad una seconda parte che consiste solo in qualche sbarra di metallo montata dal pavimento al soffitto del tunnel, simile alla grata di una gabbia.
Oltre la seconda porta, la pendenza del tunnel diventa più ripida e, se si fosse abbastanza folli da proseguire, alla fine si arriverebbe alla prima delle Sette Mura degli Inferi. Ognuna di quelle mura ha la sua porta. Il Demone Neti, Guardiano degli Inferi, le custodisce. Aldilà del settimo muro, c’è la dimora di Ereshkigal, Regina dell’Inferno, sorella di Inanna.
Fino a quel giorno infausto in cui decisi di compiere il rito della Chiusura della Porta, nessuno l’aveva attraversata per migliaia di anni. L’ultimo a farlo, per quanto ne sappia, era stata la Dea Inanna, quando aveva compiuto la sua infelice discesa nell’Inferno per sfidare il potere di Ereshkigal. Da allora in poi nessuno era entrato in quello spaventoso tunnel. Sebbene alziamo la porta dal terreno una volta ogni dodici anni per il rito che si chiama Apertura della Porta, durante il quale versiamo libagioni nel tunnel per propiziarci Ereshkigal e le sue orde di demoni, nessuno sano di mente farebbe più di un passo oltre la soglia.
Cominciammo la Chiusura della Porta, a mezzogiorno preciso, quando negli Inferi è mezzanotte. Pensavo che la maggior parte dei Demoni a quell’ora dormisse. La giornata era tiepida e luminosa, sebbene avesse piovuto nelle ore della notte. Enkidu era al mio fianco, e mia madre alle mie spalle: in circolo a me c’erano i sacerdoti di tutti i Templi della città e gli alti esponenti della Corte Reale.
L’unico grande personaggio di Uruk a non partecipare era Inanna. Era restata a rimuginare dietro le mura del Tempio che avevo costruito per lei. Aldilà del circolo dei dignitari, c’erano i Sacerdoti minori e centinaia di musici pronti a suonare fragorosamente i tamburi, i pifferi e le trombe, se gli spiriti avessero cominciato ad uscire dalla porta non appena l’avessimo aperta. E dietro di loro c’erano tutti i comuni cittadini di Uruk.
Feci un cenno di assenso a Enkidu. Il mio amico mise la mano sinistra sull’anello della porta, io misi la destra, e la sollevammo. Sebbene si dicesse che fosse un compito gravoso aprire quella porta, noi la tirammo via dal terreno con la stessa facilità con cui avremmo sollevato una piuma. Dal buco uscì l’odore acre e stantio dell’aria vecchia. Avevo le mani fredde, la faccia tesa e indurita. Avvertivo il freddo della morte arrivare dagli Inferi. Guardai nel buco, ma non vidi nient’altro che buio dopo i primi passi.
Mi tenevo sotto stretto controllo. Ci sono luoghi che destano una tale paura che non osiamo pensare al pericolo. Agiamo senza pensare, perché pensare significa perdersi. Fu così che agii allora: diedi il segnale, e cominciammo la cerimonia.
Il rito che avevo ideato cominciava con un’offerta di semi di orzo aromatico, che lanciai io stesso nell’apertura. Se nel tunnel fossero stati in agguato degli esseri oscuri, forse si sarebbero accapigliati per l’orzo e non sarebbero usciti dalla porta aperta. Poi i Sacerdoti di An, Enlil, Utu e Enki, si fecero avanti e offrirono miele, latte, birra, vino e olio. Queste libagioni ci avrebbero assicurato la protezione degli Dei Maggiori. Una bambina, la figlia di un Sacerdote, arrivò con una pecora bianca. Io sacrificai l’animale con un rapido colpo della spada sull’altare sacrificale che Enkidu aveva eretto al bordo del tunnel. Ne sgorgò sangue di una lucentezza stupefacente, che corse lungo la tenera gola della creaturina. La pecora sussultò, sospirò, mi guardò tristemente e morì. Era un dono destinato al Guardiano Neti, affinché impedisse agli spiriti e ai Demoni di emergere nel nostro mondo. Col sangue mi tracciai una striscia rossa sulla fronte e un’altra lungo la guancia sinistra, per proteggere la mia persona.
Quando questi atti furono compiuti, i Sacerdoti e io ci inginocchiammo al bordo del tunnel e cantammo incantesimi di chiusura per intessere una rete di magia sull’apertura, come ultima linea difensiva. Sapevo che né la porta inferiore né la botola avrebbero avuto un effetto reale su uno spirito determinato a uscire. La porta e la botola erano utili solo a impedire che i vivi si perdessero negli Inferi, ma era solo con gli incantesimi che era possibile far restare gli abitanti del sottosuolo nel luogo cui appartenevano.
Ero spaventato. Quale uomo non lo sarebbe stato, nonostante mostrasse al mondo un’apparenza di coraggio? Gli Inferi mi stavano aperti davanti. Udivo le acque nere dei nascosti fiumi sotterranei lambire le invisibili rive. Il fumo acre e pungente dei vapori mortali si alzò e si avvolse in avide spire intorno a me. Eppure, per quanto fossi spaventato, ero anche eccitato, e colmo di audacia e determinazione. Ero Gilgamesh, che aveva detto quando ero ancora bambino: Morte, ti sconfiggerò! Morte, non ti sono da meno!
«Vi maledico! Maledico tutti voi che ci volete far del male, chiunque siate, voi il cui cuore concepisce la nostra disgrazia, la cui lingua pronuncia la nostra condanna, le cui labbra ci avvelenano, nei cui passi si cela la morte,» gridai. «Maledico la vostra bocca, maledico la vostra lingua, maledico i vostri occhi scintillanti, maledico i vostri piedi veloci, maledico le vostre ginocchia che si affaticano, maledico le vostre mani cariche. Con questi scongiuri vi lego le mani dietro alla schiena. Vi ordino di restare sottoterra, sia che siate fantasmi non sepolti, fantasmi di cui nessuno si cura, fantasmi per cui nessuno offre libagioni, sia che siate fantasmi senza discendenti, qualunque sia la causa che vi spinge a vagare. Nel nome di Ereshkigal e di Gugalanna, nel nome di Nergal e Namtaru, vi ordino di non oltrepassare mai quella porta. Per il potere di Enlil che è in me, per An e Utu, per Enki e Ninazu, per Allatu, per Irkalla, per Belit-seri, per Apsu, Tiamat, Lahmu, Lahamu…»
Questo fu il canto che salmodiai. Legai gli esseri del sottosuolo con tutti i Nomi Sacri, tranne uno, il nome di Inanna. Sebbene Inanna fosse la Dea patrona della città, non li legai nel suo nome. Sapevo che un simile legame non sarebbe servito a niente finché la Sacerdotessa di Inanna mi fosse stata nemica.
E poiché non li avevo legati nel nome di Inanna, non ero certo che i miei incantesimi avessero valore. Perciò avevo portato con me alla cerimonia il mio tamburo sacro, quello che l’artigiano Ur-nangar aveva costruito per me con il legno dell’albero di huluppu.
Avevo intenzione di suonarlo nella mia maniera particolare per cadere in trance davanti a tutto il popolo di Uruk, una cosa questa che non avevo mai fatto prima. In questo modo, avrei mandato il mio spirito nel tunnel, e mi sarei avventurato fino alle porte degli Inferi, perché quando ero in trance non c’erano barriere ai miei vagabondaggi. Così sarei riuscito a vedere con i miei occhi se i nostri incantesimi avessero veramente chiuso il passaggio alle terribili creature fatte di fumo e di vapore umido.
Dissi a Enkidu: «Dovrebbero aver luogo festeggiamenti e danze mentre sarò in trance. Da’ l’ordine: che i musici inizino a suonare.».
Quasi immediatamente, il suono delle trombe e dei pifferi riempì l’aria. Mi chinai sul tamburo e cominciai il battito lento e tranquillo che conoscevo così bene. Mi sentivo alla presenza del grande mistero dei misteri: la vita aldilà della vita che solo gli Dei conoscono.
Persi la coscienza del solito mondo circostante. C’erano solo il mio tamburo e la bacchetta, e il costante ritmo sottile del mio battito. Prese possesso della mia anima. Mi catturò, mi sollevò. Vidi un’aura uscire dal tunnel, alzarsi come una fiamma, fredda e blu. Nelle orecchie sentivo un ronzio, un cigolio. Avvertivo qualcosa muovermisi dentro, come se una creatura selvaggia si agitasse nel mio corpo. Il respiro mi si accelerò, la vista si oscurò. Traboccava, un mare si alzava dentro di me, usciva fuori e mi ingoiava.
Ma proprio mentre l’estasi stava per impossessarsi di me e mi preparavo a uscire dal corpo, si alzò un urlo alle mie spalle che mi tagliò l’anima come un’ascia taglia il legno, e mi strappò dalla trance. Era un grido acuto, rauco, penetrante e selvaggio, che si ripeteva senza sosta.
«Utu! Utu! Utu!»
Per tutti gli Dei, che grido! Quel suono ultraterreno mi fece sobbalzare, mi scosse e mi stordì. Caddi a capofitto in avanti, come se fossi stato colpito alle spalle. Enkidu mi afferrò e mi trattenne, altrimenti sarei precipitato nel tunnel. Ma il tamburo e la bacchetta mi caddero dalle mani paralizzate. Le vidi con orrore sparire nella buia imboccatura del mondo del sottosuolo.
Immediatamente, senza pensarci, cominciai a strisciare nel tunnel. Ma Enkidu, che ancora mi tratteneva per le spalle, mi tirò indietro con violenza e mi buttò da una parte come fossi un sacco di orzo.
«Non tu!», gridò adirato. «Tu non devi andare in quel luogo, Gilgamesh!»
E, prima ancora che riuscissi a dire o a fare qualcosa, Enkidu corse lungo gli scalini che portavano sottoterra, e scomparve in quel pozzo buio.
Sbalordito, guardai il punto in cui era scomparso. Non riuscivo a parlare. Tutt’intorno c’era un silenzio soffocante: i musici erano immobili, i danzatori erano fermi. In quel silenzio si alzò un unico suono, un singhiozzare soffocato o un gemere che proveniva da una bambina di otto o dieci anni che si contorceva a terra, trattenuta da uno dei Sacerdoti.
Era lei che aveva urlato in quella maniera terribile e aveva interrotto la mia trance. Compresi che il ritmo del mio tamburo doveva aver agito sulla sua anima come sulla mia, ma con potenza maggiore. Il suono del tamburo non le aveva provocato l’estasi, ma un terribile accesso convulso, per la cui violenza la sua mente aveva ceduto. Le convulsioni della bambina continuavano. Erano spaventose da guardare.
E Enkidu? Dov’era Enkidu? Tremante, guardai nel tunnel, e vidi solo buio. Ritrovai la voce e gridai il suo nome, o piuttosto lo gracchiai, ma non udii niente. Chiamai di nuovo, a voce più alta. Silenzio. «Enkidu!» gridai, e fu un lamento di dolore e di perdita. Ero certo che fosse stato catturato dai servi di Ereshkigal: forse l’avevano già portato negli Inferi. «Aspetta!», strillai. «Ti raggiungo!»
«Non devi,» disse mia madre con durezza, e subito tre o quattro uomini mi presero per le braccia, pronti a tirarmi indietro. Se avessero cercato di trattenermi, li avrei lanciati nel fiume, oltre le mura della città. Ma non ce ne fu bisogno perché, proprio in quel momento, sentii dei colpi di tosse soffocati provenire dal tunnel, e Enkidu risalì lentamente il pendio. Teneva fra le mani il mio tamburo e la bacchetta.
Aveva un aspetto spettrale. Sembrava che fosse tornato dal mondo dei morti. La pelle aveva perso ogni colore: la faccia sembrava sbiancata con la calce, tanto era pallido. I capelli e la barba erano grigi di polvere, e la tunica bianca era insudiciata. Aveva grandi ragnatele aggrovigliate intorno al corpo, e perfino intorno alla bocca: cercava di scostarle con le spalle mentre usciva alla luce.
Restò per un attimo stordito e abbagliato. Negli occhi aveva un’espressione così selvaggia, così strana, che feci fatica a riconoscere in lui il mio amico. Le persone che mi erano accanto indietreggiarono. Io stesso sentii l’impulso di allontanarmi da lui.
«Ti ho riportato il tamburo e la bacchetta, Gilgamesh,» disse con una voce che faceva pensare alle ceneri. «Erano caduti lontano: erano oltre la seconda porta. Ma ho camminato carponi finché non li ho toccati nel buio.»
Lo guardai, terrorizzato.
«È stata una pazzia. Non saresti dovuto entrare in quel tunnel.»
«Ma tu avevi lasciato cadere il tuo tamburo,» disse, con quello stesso strano bisbiglio. Rabbrividì, si strofinò una spalla contro la faccia, tossì e starnutì per la polvere. «Dovevo cercare di riportartelo. So quanto sia importante per te.»
«Ma i pericoli… le creature malvagie…» Enkidu si strinse nelle spalle.
«Tieni il tuo tamburo, Gilgamesh. Ecco la tua bacchetta.»
Li presi, ma non mi sembrarono gli stessi. Era come se avessero perso undici dodicesimi del loro peso: erano tanto leggeri che pensai mi sarebbero volati via dalle mani. Enkidu annuì.
«Sì,» disse. «Sono diversi ora. Penso che la forza del Dio li abbia abbandonati: è un posto terribile, laggiù.» Rabbrividì ancora. «Non vedevo niente. Ma, mentre strisciavo, sentivo rumore di ossa che si frantumavano sotto il mio peso. Ossa vecchie e secche. C’è un tappeto di ossa in quel tunnel, Gilgamesh: ci sono andate altre persone prima di me. Ma io credo di essere stato il primo ad uscirne.»
Nell’aria c’era qualcosa che ci separava come una tenda. La stranezza che lo aveva colto in quell’altro mondo ora divideva la sua anima dalla mia. Sentivo di non poterlo raggiungere. Mi sembrava di non conoscerlo più. Un senso di perdita irrecuperabile assalì il mio animo: l’Enkidu che avevo conosciuto era scomparso. Era stato in un luogo in cui io non osavo andare ed era tornato con una conoscenza che non ero in grado di comprendere.
«Dimmi che cosa hai visto laggiù. C’erano Demoni?»
«Te l’ho detto: era buio. Non ho visto niente, ma ho avvertito la loro presenza. Li sentivo tutt’intorno a me.» Indicò con un gesto il tunnel che si spalancava. «Dovresti chiudere quel pozzo, fratello, e non riaprirlo mai più. Chiudi la porta, chiudila ancora, e richiudila altre sette volte.»
Pensai che sarei scoppiato di rabbia a vederlo così distrutto solo per aver salvato il mio tamburo. Come potevo tornare indietro? Tenermi stretto al tamburo per non farlo cadere in quel tunnel, o tenermi stretto a Enkidu per non farlo correre dietro al tamburo? Ma tutto quello che era accaduto era inciso per sempre nel libro del tempo. Con amarezza dissi: «La chiuderò, sì. Ma è troppo tardi, Enkidu! Se solo tu non fossi sceso in quel tunnel…»
Sorrise debolmente.
«Lo farei di nuovo per te, se fosse necessario. Ma spero di non doverlo rifare.» Poi mi si avvicinò: sentii il tanfo secco della polvere e delle ragnatele che lo coprivano. Con una voce che faceva pensare ad una candela spenta, disse: «Non ho visto niente mentre ero negli Inferi perché era tutto buio. Ma ho visto una cosa con il cuore e non con gli occhi: ero io, Gilgamesh, il mio corpo, che i vermi divoravano come se fosse stato un vecchio mantello. Erano le mie ossa che ho frantumato in quel tunnel. E ora ho paura, vecchio amico. Ho molta paura.» Mi poggiò le braccia sulle spalle e mi abbracciò, sporcandomi di polvere. Con gentilezza concluse: «Mi dispiace che il tuo tamburo abbia perso la forza del Dio. Avrei voluto riportartelo sano e salvo, se avessi potuto. Lo sai: avrei voluto riportartelo sano e salvo.»