22

Quando ripresi i sensi, mi trovai steso a terra con la testa poggiata nel grembo di Enkidu. Il mio amico mi strofinava la fronte e le spalle; era riposante. Avevo dolori dovunque, ma soprattutto sul viso e sul collo. Il grande cedro era stato abbattuto; in effetti, la maggior parte degli alberi che ci circondavano erano caduti, o parzialmente caduti, come se una metà della foresta fosse stata abbattuta da un terremoto. Scure crepe solcavano la terra in molti punti. Di fronte a noi, la terra si era aperta, e un’orrenda colonna di fumo nero, striato di fiamme, eruttava verso il cielo, provocando un rumore che sembrava il muggito del Toro nel cielo l’ultimo giorno del mondo.

«Che cos’è?», chiesi ad Enkidu, indicando la ruggente colonna di fumo.!

«È Huwawa» disse.

«Quello è Huwawa? Huwawa non è nient’altro che fumo e fiamme?»

«Questa è la forma che ha assunto oggi.»

«È un Demone,» spiegò Enkidu, stringendosi nelle spalle. «I Demoni prendono la forma che preferiscono. Ha paura di colpire, perché avverte in te la presenza del Dio. Volteggia sotto forma di colonna di fumo. Questo è il momento di ucciderlo.»

«Aiutami ad alzarmi.»

Mi sollevò come se fossi un bambino, e mi mise in piedi. Mi girava la testa, e ondeggiavo, ma Enkidu mi fermò e quindi le vertigini mi passarono. Piantai i piedi per terra. Il suolo rombava per la violenza con cui Huwawa eruttava dalla sua tana sotterranea, ma per il resto era di nuovo saldo. Qualsiasi fosse stata la creatura che si era agitata sottoterra prima del terremoto, Enlil dalla Corona di Corna o il suo servo Huwawa, ora non scuoteva più i pilastri e le fondamenta che reggono il mondo.

Avanzai e osservai Huwawa.

Era difficile avvicinarsi. L’aria intorno a quella colonna di fumo era fetida e vischiosa, e mi avvolgeva i polmoni di una patina fangosa. La testa mi pulsava, e non solo come conseguenza dell’estasi. Mi rammentai di quanto si raccontava su Lugalbanda, il quale, viaggiando nelle regioni orientali, fu sopraffatto sui pendii del Monte Harum da un Demone-fumo molto simile a quello, e fu creduto morto e abbandonato dai suoi compagni.

«Dobbiamo fare attenzione,» dissi agli altri, «a non far penetrare nelle narici quel Demone-fumo.»

Tagliammo gli orli delle tuniche e ci avvolgemmo delle strisce di stoffa intorno alla faccia. Facemmo poi attenzione a respirare il meno possibile mentre scrutavamo da vicino quel fumo venefico.

Il crepaccio che si era aperto nella terra per far uscire Huwawa non era grande: avrei potuto coprirne la larghezza con le due mani. Dal crepaccio però, il Demone usciva con una forza enorme. Guardai, alla ricerca di faccia e occhi, ma non vidi nient’altro che fumo. Allora gridai: «Ti evoco, Huwawa, fatti vedere nel tuo vero aspetto!» Ma continuai a non vedere nient’altro che fumo.

Enkidu disse: «Come facciamo ad ucciderlo, se è solo fumo?»

«Affogandolo,» replicai, «e soffocandolo.»

Indicai un punto vicino, in cui il terremoto aveva liberato una fonte sotterranea. Un rivoletto scorreva verso il fondo della valle: l’acqua era tiepida, a causa dell’alito del Dio che stava sottoterra, ed esalava vapore.

Ci riunimmo e preparammo un piano. Ordinai a trenta dei miei uomini di scavare un canale per guidare il corso d’acqua verso la bocca attraverso la quale Huwawa infuriava. Agli altri assegnai il compito di tagliare il tronco del grande cedro, di ricavarne un pezzo lungo il doppio di un uomo e di dargli la forma di un palo appuntito. Lavoravamo in fretta, per paura che il Demone assumesse la forma solida e ci attaccasse. Ma la presenza del Dio dentro di me sembrava tenerlo ancora a bada. Per essere sicuro della protezione, ordinai a tre uomini di cantare e di fare segni sacri senza sosta.

Quando fummo pronti, chiamai.

«Huwawa? Senti la mia voce, Demone? È Gilgamesh, Re di Uruk, ad ucciderti!»

Guardai Enkidu e, per un istante, ve lo dico in tutta sincerità, sentii timore e dubbio. Non è poca cosa uccidere un Demone che è al servizio di Enlil. Mi chiesi anche se, dopotutto, ci fosse veramente bisogno di ucciderlo, o se non fosse sufficiente chiudere la sua tana e lasciarlo prigioniero lì dentro. Vi confesserò che il mio cuore si era mosso a compassione per il Demone. Vi sembra strano? Ma questa era la mia sensazione.

Enkidu, che conosceva il mio animo come il suo, mi vide tentennare. Mi disse: «Presto, Gilgamesh! Questo non è il momento di esitare. Il Demone deve morire, fratello, se vuoi avere una speranza di lasciare questo posto. Non c’è da discutere: se lo risparmierai, non farai più ritorno alla tua città e alla madre che ti ha partorito. Bloccherà la strada della montagna. Renderà invalicabili i sentieri.»

Compresi la saggezza delle sue parole. Alzai una mano e diedi il segnale.

In quel momento gli uomini aprirono una breccia nella diga di terra che avevano costruito per bloccare il rivoletto, e ne fecero correre le acque nel nuovo canale che scendeva verso lo sfiatatoio di Huwawa. Guardai la cascata di acqua calda fluire velocemente verso la tana del Demone.

Quando raggiunse il crepaccio e vi precipitò dentro, dall’abisso si alzarono gemiti e ululati. Un getto bianco e caldo si alzò al centro della nuvola nera, e io sentii tuonare e ruggire. Il terreno tremò come se volesse di nuovo gonfiarsi e alzarsi, ma restò fermo. Il crepaccio assorbì il corso d’acqua, e il corso d’acqua continuò ad affluire, fornendogli tutto quello che riusciva a bere. Nella colonna nera le scintille rosse si oscurarono, il fumo fetido vacillò e cominciò ad uscire a getti soffocati.

«Ora,» dissi, e alzammo il palo di cedro.

Io ne portavo il peso maggiore, sebbene Enkidu con la sua sola mano buona avesse più forza di un uomo normale, sano e intero. Sette o otto degli uomini corsero accanto a noi per aiutarci. Trasportammo quel palo enorme ad una velocità folle finché non fummo vicini alla tana fumante, il più vicino possibile, con gli occhi lacrimanti e le facce arrossate per la mancanza di aria. Poi ci alzammo sulla punta dei piedi, gettammo il palo nell’apertura e lo pigiammo ben bene.

Ci allontanammo rapidamente, pensando che la terra eruttasse. Ma no: il Demone era indebolito o annegato dall’acqua, e non ce la faceva a liberarsi del tappo di legno. Vidi spirali di fumo alzarsi dalla terra poco lontano, ma poi scomparvero, e non sentimmo più nulla.

Tutto era mortalmente calmo. La fiamma e la gloria di Huwawa si erano estinte. Non c’era più fumo, non c’era più fuoco, solo un tanfo residuo che infestava l’aria e ci assaliva le narici, ma anche quel fetore cominciò presto a scomparire nell’aria fresca e dolce della foresta dei cedri. Penso che, quando le numerose ripetizioni del racconto cominceranno a trasformarlo, visto che le storie si trasformano sempre con il passare del tempo, si narrerà che io e Enkidu assalimmo Huwawa e gli tagliammo la testa. Gli arpisti dei giorni futuri non capiranno come avessimo potuto uccidere un Demone con null’altro che un rivoletto d’acqua e un palo appuntito. Sia pure, ma fu così che l’uccidemmo, qualsiasi cosa si racconterà quando io non ci sarò a testimoniare la verità.

«È morto,» dissi. «Su, purifichiamo il luogo, e andiamo avanti.»

Tagliammo rami di cedro, li posammo sulla tomba del Demone, facemmo le nostre offerte e recitammo le Parole Sacre. Dopodiché scegliemmo cinquanta bei tronchi di cedro da portare con noi ad Uruk, li privammo delle foghe e li caricammo. Quando il lavoro fu terminato, tornammo alle mura che avevano costruito gli Elamiti e le abbattemmo come se fossero state di canne. Ma, per amore della bellezza, lasciammo intatta la splendida porta che il traditore Uru-ragaba aveva costruito.

Mentre stavamo per andarcene, un centinaio di guerrieri elamiti ci circondarono e ci chiesero nel nome del loro Re perché stessimo violando i loro confini. Al che replicai che non stavamo violando nessun confine, ma eravamo solo andati a raccogliere un po’ di legna per il nostro Tempio. E avevamo anche dovuto uccidere il Demone nella foresta. Trovarono insolente la mia risposta.

«Chi sei?» domandò il loro capo.

«Chi sono?», dissi a Enkidu. «Diglielo.»

«Beh, tu sei Gilgamesh, Re di Uruk, il più grande degli Eroi, il toro selvaggio che conquista tutte le montagne che vuole: Gilgamesh il Re, il Gilgamesh il Dio. E io sono Enkidu tuo fratello.» Si diede una manata sulla pancia, scoppiò a ridere e disse all’Elamita: «Conosci il nome di Gilgamesh?»

Ma gli Elamiti erano già in fuga. Li inseguimmo e ne uccidemmo una metà, ma lasciammo andare gli altri, in modo che riferissero al loro Re che non era prudente costruire mura intorno alla foresta di cedri. Penso che il Re elamita comprendesse la saggezza del messaggio, perché non sentii più parlare né di simili mura né del temibile Huwawa. Da allora in poi, potemmo andare a prendere senza nessun impedimento tutti i cedri che ci servivano.

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