Uscimmo rapidamente dalle calde pianure, lasciando alle spalle i boschetti di palme da datteri e il seno d’oro del deserto, e salimmo verso l’altipiano fresco e verde, che si trova ad oriente. Viaggiammo a marce forzate, dall’alba al tramonto, attraversando sette montagne una dopo l’altra senza mai fermarci, finché alla fine vedemmo davanti a noi le foreste di cedri: innumerevoli legioni di alberi schierati lungo i pendii dell’aspra terra che ci era davanti. Era strano per noi vedere tanti alberi, visto che il Paese ne aveva pochissimi. Rendevano quasi nere le colline frastagliate, e somigliavano ad un’armata ostile che aspettasse con calma il nostro attacco.
Si notava un’altra stranezza su quelle creste zannute e in quelle gole rocciose: le fiamme degli Dei esiliati e dei Demoni che uscivano tra le pietre, e le loro esplosioni dense e nere che rotolavano verso di noi, simili a viscidi serpenti degli Inferi. Stavamo per entrare nella regione che si chiama Terre dei Ribelli, nella quale furono esiliati gli Dei che si opposero a Enlil. In queste terre i guerrieri vittoriosi, Enlil, Ninurta e Ningirsu, esiliarono i propri nemici dopo quella grande battaglia tra Dei avvenuta tanto tempo fa. E in quella regione, gli Dei sconfitti ancora infuriano, rombano, gemono e scuotono la terra. Ancora provocano grandi esplosioni di fumo e fuoco e fanno uscire dalle profondità della terra i loro serpenti neri.
Ad ogni passo, penetravamo sempre di più in quell’oscuro regno, consapevoli che in ogni momento quelle divinità sinistre, dagli occhi rossi e irati, sbuffavano e soffiavano sotto i nostri piedi.
Eppure non ci lasciammo prendere dalla paura. Ci fermammo a tempo debito a compiere i riti dovuti a Utu, An, Enlil, Inanna. Quando ci accampavamo per la notte, scavavamo dei pozzi e facevamo salire in superficie le acque per offrirle agli Dei. Alla fine, prima di dormire, io invocavo Lugalbanda e mi consigliavo con lui, perché da giovane era stato in quelle terre, e aveva sofferto molto per i fumi nocivi e per le esplosioni degli Dei ribelli. La sua presenza mi era di grande conforto.
Enkidu conosceva bene quella zona. Grazie ai ricordi della sua vita selvaggia, ci guidò senza mai sbagliare per sentieri impervi e infiniti. Ci fece aggirare luoghi che erano stati bruciati e anneriti dal fiato bollente di spiriti pericolosi. Ci fece oltrepassare regioni in cui la terra era sprofondata, si era spaccata, e si era alzata. Ci portò oltre laghi neri, profondi e viscidi, che si erano formati nel seno della terra. Ci avvicinavamo sempre di più al cuore della foresta, al dominio del Demone Huwawa.
Poi arrivammo alla prima fila di cedri. Se fossimo arrivati in quella regione solo per la legna, credo che avremmo potuto tagliare venti o sessanta di quegli alberi e ritornare felici ad Uruk, proclamando il nostro trionfo. Ma noi non eravamo arrivati fin lì solo per la legna.
Enkidu disse: «C’è una grande porta nelle vicinanze, che protegge i boschetti sacri. Siamo molto vicini.»
«E Huwawa?», chiesi.
«Sta all’altra parte della porta, non molto lontano.»
Lo guardai con attenzione. La sua voce era forte e ferma, ma non mi sentivo ancora sicuro del suo coraggio. Non avevo alcun desiderio di ferire il suo orgoglio, ma dopo un attimo gli chiesi: «Finora va tutto bene, Enkidu?»
Sorrise e rispose: «Sono pallido, Mi vedi tremare di paura, Gilgamesh?»
«Ad Uruk ti ho sentito parlare con grande rispetto di Huwawa. Hai detto che non c’è modo di sfuggirgli. È mostruoso oltre ogni dire, hai detto. Quando ruggì, pensasti che saresti morto di paura. Sei stato tu a dire queste cose.»
Enkidu si strinse nelle spalle.
«Ho detto queste cose ad Uruk, forse. Nelle città gli uomini diventano molli. Qui sento ritornare le mie forze. Non c’è nulla da temere, amico mio. Seguimi: io so dove sta Huwawa, e so quali sentieri percorre.» Poi mi posò una mano sul braccio stringendomelo, e mi prese sottobraccio.
Il giorno dopo, arrivammo alle mura della foresta e alla grande porta.
Avevo riflettuto sulla questione di quelle mura fin da quando Enkidu me ne aveva parlato la prima volta. La Terra dei Cedri si trova in una zona di confine disabitata che è situata tra il Paese e la terra degli Elamiti. La proprietà di quella regione è in discussione fin dai giorni di Meskiaggasher, il primo Re di Uruk.
Poiché è un territorio che non si può coltivare, non abbiamo mai tentato di prenderne formalmente possesso ma, ogniqualvolta abbiamo bisogno di legno di cedro, ci siamo andati liberamente e ne abbiamo preso quanto ne volevamo. Era una faccenda seria se qualcuno si era messo a costruire mura nella foresta. Una cosa è quando Enlil decide di mettere un terribile demone-fuoco a guardia dei suoi cedri: io non ho nulla da ridire sulle decisioni di Enlil. Ma non potevo tollerare che un Re elamita dalla barba nera costruisse delle mura per attribuire il possesso di tutta la foresta ai suoi sudditi straccioni e sporchi.
Nel momento in cui vidi le mura, capii che erano stati gli Elamiti, e non Huwawa o un altro spirito, a costruirle. Si vedeva che erano state costruite da uomini, e nemmeno da uomini molto abili. Tronchi di cedro, rozzamente tagliati e legati malamente con vimini, erano ammassati alla rinfusa lungo un sentiero, aperto grossolanamente, che si allungava in entrambe le direzioni, fin dove arrivava lo sguardo. L’interno dei tronchi era visibile, come se le assi fossero state scortecciate invece che piallate. Fui preso dalla rabbia alla vista di quella muraglia goffa ed enorme. Rivolsi lo sguardo ai miei uomini e dissi: «Allora, abbattiamo questa cosa ed entriamo nella foresta?»
«Dovresti dare prima un’occhiata alla porta,» disse Enkidu.
La porta si trovava a mezzo lega di distanza, in direzione sud. Prima ancora di arrivarci, rimasi senza fiato per la sorpresa. Si alzava al di sopra delle mura, era più una torre che una porta, ed era superba da ogni punto di vista. Quella porta non avrebbe fatto disonore alle mura di Uruk. Anch’essa era di cedro, tagliato dalla mano di un maestro, ed era montata e collegata con grande abilità. Il perno e l’asta erano meravigliosamente levigati e il grande stipite si adattava in modo superbo.
«Una porta degli Dei!», gridò Bir-hurturre. «Una porta costruita da Enlil!»
«Una porta che nessun Elamita avrebbe potuto fabbricare, ad ogni modo,» dissi io, e mi avvicinai per esaminarla.
Era veramente perfetta. Non solo era costruita senza difetti, ma era anche ornata magnificamente: nel legno stagionato erano scolpiti mostri e serpenti, Dei e Dee, nei tipici disegni elamiti che ricordavo di aver visto sugli scudi dei guerrieri che avevo ucciso durante le campagne per Agga.
Sulla parte superiore della porta erano montate tre corna enormi, molto simili alle corna massicce che gli Elamiti scolpiscono e mettono sulle facciate dei Templi. E lungo i lati, sul muro, erano incise delle iscrizioni nella barbara scrittura elamita, che è una copia goffa della nostra: immagini di animali, vasi, giare, stelle, montagne e molte altre cose, ammucchiate in una dichiarazione che per me era indecifrabile. Le incisioni erano realizzate con grazia, ma sembrava una maniera assurda di scrivere, quell’ammucchiare immagini.
Poi vidi una cosa che mi fece adirare, in basso, sul lato sinistro della porta. Era un’iscrizione nei caratteri cuneiformi del Paese, che, in modo chiaro e preciso, diceva, Utu-ragaba il grande artigiano di Nippur costruì questa porta per Zinuba Re dei Re, Re di Hatamti.
«Ah, il traditore!», esclamai. «Sarebbe stato meglio che fosse rimasto a Nippur piuttosto che venire qui a rendere un servizio così eccellente ad un Signore elamita.» E alzai l’ascia per frantumare la porta.
Ma Enkidu mi afferrò per un braccio e mi fermò. Mi girai a guardarlo, accigliato.
«Che cosa c’è?»
Gli occhi gli fiammeggiavano.
«Questa porta è molto bella, Gilgamesh.»
«Si. Ma hai letto quell’iscrizione? Un uomo della mia nazione l’ha costruita per i nostri nemici.»
«È possibile,» disse con indifferenza Enkidu. «Ciononostante è bella, e non dovrebbe essere distrutta. La bellezza viene dagli Dei, non è vero? Penso che non dovresti distruggere la porta. Fatti da parte, amico mio, la forzerò. Che cosa importa se l’ha costruita un traditore, se il suo lavoro è così perfetto? È chiaro che gli Dei hanno guidato la sua mano. Non lo vedi?»
Mi meravigliò sentirlo ragionare in quel modo, ma capii che le sue parole erano sagge, il che mi umiliò. Cedetti alla sua volontà. Ora vorrei non averlo fatto. Enkidu si fece avanti e spinse il bordo dell’ascia contro il lucchetto, poi spinse con tutta la sua forza, tanto che gli si gonfiarono tendini e muscoli su tutto il corpo. Gemeva per la fatica, ma la porta si aprì davanti a lui. In quell’istante lanciò un grido soffocato, lasciò cadere l’ascia, e con la mano sinistra si colpì il braccio destro, che penzolava inerte, come se fosse appeso ad una fune. Cadde in ginocchio, e intanto gemeva e si strofinava il braccio.
Mi inginocchiai al suo fianco.
«Che cosa è successo, amico mio? Che cosa ti è capitato?»
Con voce soffocata, mormorò: «Ci deve essere un Demone nella porta. Guarda: mi sono fatto male al braccio! È rovinata, è inutile. Su, guarda tu stesso.»
La sua mano era freddissima al tatto, penzolava come una cosa morta, e la pelle aveva strane macchie e chiazze. Tremava come se fosse stato colto da un attacco di febbre. Sentii che i denti gli sbattevano l’uno contro l’altro.
«Vino!», gridai. «Portate del vino per Enkidu!»
Il vino lo scaldò e il tremito cessò. Ma la mano restò floscia, sebbene l’avessimo scaldata e strofinata per ore. Passarono molti giorni prima che cominciasse a riprenderne l’uso, ma non tornò mai più la stessa. Era triste che un Eroe come Enkidu dovesse perdere una parte della sua forza, soprattutto perché gli era accaduto per salvare qualcosa di bello. Il fatto peggiore fu che gli tornò la paura di Huwawa, perché si convinse che il Demone aveva messo una maledizione sulla porta. Non voleva attraversare quella porta che egli stesso aveva aperto per noi.
Mi addolorava che avesse di nuovo paura, e che i nostri compagni dovessero vederlo in uno stato simile. Ma Enkidu non voleva attraversare la porta, e io non l’avrei mai lasciato da solo. Di conseguenza, ci accampammo li e restammo per qualche tempo, finché il mio amico non cessò di contorcersi per il dolore e disse che sentiva ritornare la forza nella mano. Ma anche allora era riluttante ad andare avanti. Si era chiuso in un silenzio disperato e tetro, perso nelle sue meditazioni. La paura lo teneva come uno spaventoso uccello della notte che gli artigliasse le spalle. Allora gli dissi: «Su, è ora di partire.»
Scosse la testa.
«Va’ senza di me, Gilgamesh!»
Risposi in tono brusco: «Mi fa male sentirti parlare come un debole. Siamo arrivati fin qui e abbiamo affrontato tanti pericoli, solo per tornare indietro?»
Con la stessa bruschezza, rispose: «Quando ti ho chiesto di tornare indietro?»
«Non me lo hai chiesto mai.»
«Allora prosegui senza di me!»
«Non lo farò. Ma non tornerò a mani vuote ad Uruk.»
«Se la metti così, non mi lasci nessuna scelta. Devo venire con te, allora? Devo fare tutto quello che vuoi?»
«Io non ti voglio forzare,» dissi, addolorato. «Ma noi siamo fratelli, Enkidu. Dovremmo affrontare tutti i pericoli l’uno a fianco dell’altro.»
Mi lanciò un’occhiata amara e invelenita.
«Dovremmo, dovremmo? E se io non voglio?»
Lo fissai.
«Non è da te.»
«No,» disse con tristezza e con un sospiro. «Non è da me. Ma che cosa posso fare? Che cosa possiamo fare? Quando mi sono fatto male alla mano, mi ha preso un terrore enorme, Gilgamesh. Ho paura. Capisci questa parola? Ho paura, Gilgamesh!» Negli occhi aveva un’espressione che non vi avevo mai visto: terrore, vergogna, senso di colpa, rabbia, mille sentimenti cupi vi si leggevano contemporaneamente. Aveva il volto lucido per il sudore. Si guardò intorno come se temesse che gli altri avessero udito il nostro discorso. A voce bassa, soffocata dall’angoscia, disse: «Che cosa possiamo fare?»
Scossi la testa.
«C’è un sistema. Ecco: sta’ vicino a me, afferrati ad un lembo della mia tunica. La mia forza entrerà in te e la tua debolezza passerà. Il tremito lascerà la tua mano. Allora entreremo insieme nella foresta. Lo farai?»
Esitò. Poi disse: «Pensi che io sia un vigliacco, Gilgamesh?»
«No. Non sei un vigliacco, Enkidu.»
«Hai detto che sono un debole.»
«Ho detto che mi addolorava sentirti parlare come un debole. È proprio perché tu non sei un debole che ciò mi addolora. Hai capito, fratello?»
«Ho capito.»
«Su, allora. Lascia che ti guarisca.»
«Lo puoi fare?»
«Penso di si.»
«Fallo, allora.»
Mi si avvicinò, allungò la mano a prendere un lembo della mia tunica, lo tenne per un momento, poi io lo abbracciai con tanta forza che le braccia mi tremarono. Un attimo dopo, Enkidu mi afferrò con la stessa forza. Non parlammo, ma sentii che la paura lo lasciava. Sentii che il coraggio gli tornava. Era tornato ad essere Enkidu, e capii che sarebbe venuto con me nella foresta.
«Su,» dissi. «Preparati. Huwawa ci aspetta. Il calore del combattimento ti scalderà il sangue e rafforzerà la tua decisione. Penso che nessun demone possa farci del male, se stiamo vicini. Ma, se cadremo in battaglia, ebbene, il nostro nome sarà ricordato per sempre.»
Ascoltò senza replicare. Dopo un po’, annuì, sia alzò e mi tocco una mano: spegnemmo il fuoco dell’accampamento e andammo ad oliare le sue armi. Durante la mattinata, attraversammo la porta ed entrammo nella foresta dei cedri, non in maniera avventata, ma con coraggio e determinazione.
Era un luogo che incuteva timore. Sembrava un Tempio. Tutt’intorno a me sentivo la presenza di divinità, sebbene non sapessi quali fossero. I cedri erano gli alberi più alti che avevo mai visto: si alzavano come lance verso il cielo, con un’ampia radura intorno. Ma le loro chiome erano così folte, che la luce del sole penetrava a stento attraverso la coltre che formavano. Era un mondo verde e silenzioso, fresco, pieno di delizie. Davanti a noi si scorgeva una montagna solitaria, senza dubbio una dimora degli Dei, un trono degno del Dio più potente. Ma si avvertiva anche la presenza di Huwawa: lo sentivamo, e ne scorgevamo le tracce, perché c’erano alcune zone della foresta in cui dal suolo uscivano i gas e le fiamme sotterranee, che erano il segno del demone.
Ma non si vedeva nessuna traccia più immediata. Ci inoltrammo nella foresta, finché il buio non ci fermò. Quando il sole cominciò a scendere, scavai un pozzo e feci l’offerta dell’acqua. Sparsi tre manciate di farina fine davanti alla montagna, e chiesi al Dio della montagna di mandarmi un sogno favorevole. Poi mi stesi accanto ad Enkidu e mi affidai al sonno.
Nel cuore della notte mi svegliai di colpo, e mi alzai a sedere di scatto, completamente sveglio. Alla fioca luce del nostro fuoco vidi gli occhi scintillanti di Enkidu.
«Che cosa ti turba, fratello?»
«Sei stato tu a svegliarmi?»
«Non sono stato io,» disse. «Devi aver sognato.»
«Ho sognato, si.»
«Raccontami il sogno.»
Mi guardai dentro e vidi le nebbie avvolgere la mia mente, simili ad un bianco ammasso di folti fiocchi di lana: ma dietro le nebbie scorsi il mio sogno, o una parte di esso. In quel sogno, Enkidu e io stavamo attraversando un profondo burrone nella montagna dei cedri. Sullo sfondo della massa enorme della montagna, sembravamo non molto più grandi dei moscerini neri che ronzano tra le canne delle paludi, poi la montagna si sollevò come una nave spinta da un’onda e cominciò a cadere. Non ricordavo altro.
Raccontai il sogno a Enkidu, con la speranza che avrebbe saputo interpretarlo, ma egli si strinse nelle spalle, disse che era una visione incompiuta, e mi spinse a dormire. Dubitai che sarei ancora riuscito a dormire quella notte, ma mi sbagliavo perché, non appena chiusi gli occhi, ripresi a sognare.
Era lo stesso sogno: la montagna mi cadeva addosso. Una frana mi fece mancare la terra sotto i piedi, e una luce terribile si accese e arse in maniera intollerabile. Ma poi apparve un uomo, o un Dio, credo, di una grazia e di una bellezza impossibili in questo mondo. Mi tirò da sotto la montagna, mi diede da bere dell’acqua, e io ripresi coraggio. Mi alzò e mi rimise in piedi.
Svegliai Enkidu e gli raccontai il mio secondo sogno. Il mio amico disse subito: «È un sogno favorevole, un sogno eccellente. La montagna che hai sognato, amico mio, è Huwawa. Anche se ci assalirà, noi lo sconfiggeremo capisci? Gli Dei ti sono vicini: domani lo prenderemo. Lo uccideremo, e getteremo il suo corpo sulla pianura.»
«Ne sembri molto sicuro.»
«Ne sono sicuro,» disse. «Ora dormi, fratello. Dormi.»
Ci riaddormentammo. Questa volta la montagna dei cedri mandò un sogno a Enkidu, e non era un sogno favorevole: scrosci di pioggia gelida lo colpivano, e lui si rannicchiava e tremava come l’orzo di montagna in una tempesta invernale. Quando lo sentii gridare, mi svegliai, e lui mi raccontò il sogno. Non cercammo di capirne il significato: a volte è meglio non approfondire troppo il significato di un sogno. Ancora una volta, in quella notte affollata di sogni, appoggiai il mento sulle ginocchia e mi abbandonai al sogno. Ancora una volta sognai, e ancora una volta mi svegliai meravigliato da quel sogno, spaventato, tremante.
«Un altro?», chiese Enkidu.
«Guarda come tremo!», sussurrai. «Che cosa mi ha svegliato? Mi è passato accanto un Dio? Perché il corpo mi formicola?»
«Dimmi, hai sognato di nuovo?»
«Si. Ho fatto un terzo sogno, più spaventoso degli altri.» «Raccontalo.»
«Che cosa abbiamo mangiato che ci provoca simili sogni stanotte?»
«Finché non lo racconterai, ti opprimerà.»
«Sì,» dissi. Ma cercavo ancora di allontanarlo, sebbene le sue immagini orrende mi bruciassero ancora nella mente. Enkidu aveva ragione: si devono raccontare i sogni, si deve portarli alla luce, altrimenti rodono l’anima come vermi.
Qualche attimo dopo, inspirai profondamente e dissi, con voce lenta ed esitante: «Adesso te lo racconto. Il tempo era bello, l’aria era immobile. Poi, all’improvviso, il cielo gridava, la terra ruggiva e rombava, la luce svaniva e scendevano le tenebre. All’orizzonte lampeggiavano fulmini e ardevano fiamme. Le nuvole diventavano pesanti e ne pioveva la morte. Poi i fulmini svanivano, le fiamme si spegnevano, e intorno a noi tutto diventava cenere.
Enkidu tremò.
«Penso che non dovremmo più dormire stanotte,» disse.
«Ma il sogno? Che cosa ne dici di questo sogno?»
«Su, alzati, cammina con me, fratello. Dimentica il sogno.»
«Dimenticarlo? Come?»
«È solo un sogno, Gilgamesh.»
Lo guardai, perplesso, poi sorrisi.
«Se i presagi sono favorevoli, dici che il sogno è eccellente. Se i presagi sono negativi, dici che è solo un sogno. Non capisci…»
«Capisco solo che l’alba è vicina,» disse. «Su, vieni con me nella foresta. Abbiamo un lavoro pesante da fare all’alba.»
Sì — pensai — forse aveva ragione. Forse il sogno non doveva essere analizzato. La mattina ci avrebbe portato grandi pericoli e noi avevamo bisogno di tutto il nostro coraggio.
Alla prima luce del giorno svegliai i miei uomini. Indossammo i pettorali, prendemmo le spade e le asce, e ci avviammo lungo il pendio della vallata che si stendeva davanti alla montagna dei cedri. Era in quel luogo, disse Enkidu, che aveva incontrato Huwawa la prima volta che era stato nella foresta dei cedri. Il Demone si era alzato senza alcun preavviso dalla terra, ma lui aveva avuto la fortuna di scappare.
«Oggi,» disse, «sarà Huwawa ad avere la fortuna di scappare. E, quando l’avremo finita con lui, ci occuperemo di quegli Elamiti che costruiscono mura intorno alle foreste, eh, fratello?»
Scoppiai a ridere: mi sentivo bene all’idea di andare in guerra. Non importava che il nostro nemico fosse un Demone, non importava che il mio secondo sogno e quello di Enkidu fossero pieni di oscuri presagi. C’è felicità che siamo destinati a fare, noi che siamo guerrieri. Voi che restate a casa, nelle città, a diventare grassi, non lo potete capire. Ma la vera guerra non è solo insensata distruzione: significa mettere a posto le cose che devono essere messe a posto, e questo è un compito santo.
Quando avanzammo, sentimmo un rombo provenire dal sottosuolo, lontano ma inconfondibile. Forse era uno degli Dei con la corona di corna che si agitava e camminava avanti e indietro sottoterra. Questo pensiero mi fece riflettere. Posso combattere contro i Demoni a cuor leggero, ma che speranza c’è a combattere contro gli Dei?
Pregai Lugalbanda di essermi sbagliato. Lo pregai che quei lontani tuoni sotterranei non annunciassero la rabbia di Enlil. Che sia solo Huwawa che si stava svegliando, pregai. Che sia solo il Demone, e non il Dio.
Dietro di me sentii i miei uomini mormorare a disagio.
«Com’è questo Demone?», chiese uno, e un altro disse: «Zanne di drago, testa di leone!»
Poi un altro: «Ruggisce come la tromba d’aria,» e ancora un altro: «Piedi con gli artigli, occhi di morte.»
Mi girai a guardarli, risi, e gridai: «Sì, continuate così: spaventatevi! Fatelo diventare un mostro orrendo! Tre teste, dieci braccia!» Unii le mani a coppa, le portai alla bocca e gridai nella foresta avvolta dalla foschia: «Huwawa! Vieni! Vieni, Huwawa!»
La terra tremò di nuovo, questa volta con maggiore violenza.
Balzai in avanti, con Enkidu al fianco e gli altri che ci seguivano da vicino. Davanti a noi c’era un grande cedro solitario che si stagliava come un albero maestro, più alto degli altri alberi, e pensai che fosse il modo di chiamare Huwawa. Allora presi l’ascia che portavo a tracolla, e mi misi all’opera con tutta la mia forza, mentre Enkidu lavorava dall’altra parte del tronco, tagliando la tacca più piccola per guidare l’albero nella caduta.
Sentii arrivare una forte corrente di aria calda, il che era strano, dal momento che erano ancora le ore più fresche della mattina. Qualcosa si stava svegliando, non c’erano dubbi, qualcosa di enorme e di violento, di caldo e furioso. In lontananza vidi muoversi le cime degli alberi, e sentii il rumore dei rami che si spezzavano. Un colpo dopo l’altro incidevano il tronco del grande cedro: era ormai sul punto di cadere.
Poi, con mio grande orrore, mi accorsi del ronzio che mi avvertiva dell’arrivo del Dio. Stavo entrando in quello stato di estasi che mi prendeva quando suonavo il tamburo. Non ora, pregai disperatamente. Non ora! Ma sarebbe stato più facile trattenere gli otto venti. Le vene del collo mi si gonfiarono, e cominciarono a pulsare con violenza. I bulbi oculari mi palpitavano come se volessero uscire dalle orbite, le mani mi formicolavano. Ogni colpo dell’ascia contro il legno mi inviava una corrente di fuoco nelle vene.
«Dai, fratello, dai!», mi incitava Enkidu dall’altra parte del cedro. Non capiva che cosa mi stesse succedendo. «Ce l’abbiamo fatta, ormai. Altri quattro colpi… tre…»
Provavo contemporaneamente estasi e terrore. L’aria era diventata blu e caldissima. Un fiume di acqua nera si stava alzando dalla terra, e un’aura dorata circondava tutto quello che vedevo: Il Dio si stava impossessando della mia mente.
La terra, tremò, si gonfiò e si sollevò. Invocai Lugalbanda per tre volte.
Poi sentii la voce di Enkidu gridare al di sopra della confusione: «Huwawa! Huwawa! Huwawa!»
Il Demone arrivò, ma in quel momento non lo vidi. Le tenebre mi avvolsero, e il Dio mi ingoiò.