Era fatta. Diedi un grande banchetto in onore di Agga, e lo rimandai a Kish con quello che era rimasto del suo esercito.
Ma, prima che se ne andasse, mi diede delle tristi notizie: mia moglie Ama-sukkul, sua figlia, era morta, ed erano morti anche i due figli che aveva generato con me. Queste notizie mi trafissero come lame. Morte, non c’è luogo dove nascondersi da te!
Pensai a quando l’avevo abbracciata l’ultima volta e le avevo carezzato amorevolmente il ventre gonfio. Il bambino che doveva nascere aveva significato la morte di mia moglie, sebbene anche lui fosse morto con lei. Poi il nostro primogenito si era ammalato per la mancanza di sua madre e se n’era andato in fretta dal mondo dei vivi. Senza dubbio, gli Dei non avevano voluto che io piantassi il mio seme a Kish. Avevo avuto altri figli in seguito, ne avevo avuti molti, ma spesso mi chiedevo come sarebbero stati quei primi due, se fossero diventati adulti. E la dolce, piccola Ama-sukkul: era una persona gentile e una delle mie mogli più amate.
Al momento della partenza di Agga, insistei e giurargli fedeltà ancora una volta. Lo feci di mia libera iniziativa, come tutti ebbero modo di vedere. Un simile giuramento, fatto liberamente, non è un segno di sottomissione, ma di forza: è un dono, è una splendida offerta, che libera più che legare. Fu la mia maniera di riconoscere quello che Agga aveva fatto per me nel passato, quando mi aveva aiutato a salire sul trono dopo la morte di Dumuzi, e mi liberò per sempre da ogni vero giuramento di vassallaggio. Finalmente ero Re di diritto, grazie al mio valore in battaglia e alla mia grandezza d’animo. Non sarebbe sbagliato dire che il vero inizio del mio regno risale all’epoca della guerra con Kish.
Ma se fu veramente l’inizio del mio regno, fu anche la fine di quello di Agga, benché egli vivesse ancora per qualche tempo dopo la battaglia. Si ritirò entro le mura di Kish e non se ne sentì più parlare all’esterno. Quando morì, fu la fine della dinastia di Kish dopo migliaia d’anni, perché Mesannepadda, Re di Ur, marciò verso nord, e prese la città. Ben presto avemmo notizia che Mesannepadda aveva condannato a morte l’ultimo figlio di Agga e si era nominato egli stesso Re. In seguito, si fece chiamare Re di Kish invece che Re di Ur. Non intervenni nella faccenda perché ero impegnato in altri problemi a quell’epoca, come dirò a tempo debito; ma poi regolai i conti con il Re di Ur e Kish.
La prima cosa che feci, quando l’eccitazione della guerra si fu attenuata, fu ricostruire le mura di Uruk. In verità non le ricostruii, ma le rifeci dalle fondamenta, perché le vecchie mura di Uruk non erano affatto mura, se confrontate con quelle che costruii per la città. Forse le vecchie difese erano sufficienti all’epoca di Enmerkar, ma io avevo visto le mura di Kish. Sapevo come debbono essere le mura di una città.
Una muraglia deve essere alta, in modo che il nemico non possa scalarla con le scale. Deve essere spessa, in modo che non sia facile aprirvi brecce. Deve avere fondamenta profonde e dalla base ampia, in modo che non possa essere indebolita da sotto e non si possano scavare gallerie.
Tutto quello che ho detto è un fatto evidente, ma le mura di Uruk erano a malapena adeguate sotto i vari aspetti citati. Avevamo anche bisogno di altre torri da cui osservare chi si avvicinava alla città, e di un ampio parapetto, lungo le mura, dove i difensori potessero prendere posizione e mirare sulla testa degli invasori. In particolare, dovevano esserci torri di guardia e parapetti a fiancheggiare le porte della città, dal momento che le porte sono il punto debole di ogni muraglia.
Tutto il resto dell’estate, ad Uruk non si fece nient’altro che fabbricare mattoni e costruire le mura che io credo saranno chiamate fino alla fine dei giorni le Mura di Gilgamesh. Come per la riparazione dei canali, lavoravo insieme ai comuni artigiani, e penso che nessuno lavorasse quanto me: costruii quelle mura con le mie mani, ed è la pura verità. Non c’era nessun operaio più abile di me nel mettere i mattoni, poggiandoli uno sull’altro in file precise, ogni fila messa in direzione opposta a quella sottostante: questo è il solo vero modo di costruire.
Abbattemmo il vecchio muro di Enmerkar e la città restò nuda. Poi, il più in fretta possibile, costruimmo il nuovo muro, o, meglio, le nuove mura, perché sono due. I Sette Saggi in persona non avrebbero potuto fare di meglio. Usai solo mattoni cotti perché, a che scopo costruire con il fango, quando bisogna rifare tutto cinque anni dopo? Ed erano i mattoni migliori. Il muro esterno scintilla di rame, e il muro interno, di un bianco abbacinante, non ha eguali. Il terrapieno delle fondamenta è, credo, il più possente che sia mai stato costruito. Le mura di Uruk sono famose in tutto il mondo. Dureranno dodicimila anni, o io non sono il figlio di Lugalbanda.
Non vorrei farvi credere che finimmo tutte le mura in una sola estate. In realtà, non c’è stato un solo anno del mio regno in cui non abbiamo continuato a lavorarvi, a rafforzarle, ad accrescerle in altezza, ad aggiungervi nuovi parapetti e nuove torri di guardia. Ma in quella prima estate ne costruimmo la maggior parte, sufficiente a difenderci contro ogni nemico.
In quei primi mesi, arrivai al pieno fulgore del mio regno. Ero colmo di felicità. Non avevo nemmeno il tempo di dormire. Eseguivo tutti i giorni i compiti propri di un Re, e facevo lavorare il mio popolo con lo stesso zelo. Penso che li facessi lavorare troppo; in verità, li portai all’esaurimento fisico, e tutti cominciarono a chiamarmi tiranno dietro le spalle.
Ma io non lo capii. Le mie energie erano immense, e non capivo che le loro non lo erano. Quando le loro fatiche giornaliere erano terminate, non desideravano altro che dormire, mentre io banchettavo ogni sera con la mia Corte, e passavo la notte con le donne. Forse ero eccessivo, con le donne, sebbene allora non lo pensassi. Il mio desiderio per loro era simile alla fame incessante degli Dei per il cibo e le bevande. Avevo le mie concubine, le Sacerdotesse, e le donne della città, ma non mi bastavano. Non dovete mai dimenticare infatti che sono in parte un Dio, per la mia discendenza da Lugalbanda, e anche da Enmerkar che si fece chiamare il Figlio del Sole; e la forza di un Dio divampa in me. Come potrei negare quella forza? Come potrei soffocarla? La presenza divina pulsava dentro di me come il rullare di un tamburo, e io marciavo al suo ritmo.
Dietro la mia gioia e il mio vigore, però, si nascondeva la malinconia. Tutta Uruk mi serviva, eppure non riuscivo a dimenticare di essere un uomo solo, una persona altera e isolata. Forse è così per tutti: non lo so. Ma mi sembra che gli altri abbiano stretti legami con le mogli, i figli, gli amici, i compagni. Io, che non avevo mai avuto un fratello, che avevo a malapena conosciuto mio padre, che ero stato isolato per dimensioni e per forza dai miei compagni di gioco, ero diventato un Re tagliato fuori dal flusso normale dei rapporti umani. Non c’era nessuno intorno a me che non mi temesse, non mi invidiasse e in qualche modo non si allontanasse da me. E non vedevo il modo di cambiare questa situazione: lavorare tutto il giorno, banchettare ogni sera, stare con le donne ogni notte, erano le uniche consolazioni alla pena del mio isolamento. Soprattutto le donne.
Il ciambellano delle concubine regali si affaticava molto per soddisfare i miei bisogni. Quando le tribù nomadi del deserto arrivavano ad Uruk per il mercato, egli comprava le ragazze per me, ragazze abbronzate dalle lunghe gambe, con ombre scure intorno agli occhi, e grandi bocche dalle labbra sottili. Quando venivano firmati i contratti di nozze nella città, le spose venivano date a me prima che ai loro mariti, in modo che io facessi scendere sulle donne la grazia divina. Se la moglie di uno dei miei cortigiani mi piaceva, questi l’avrebbe mandata al palazzo la notte senza protestare, se gliel’avessi chiesta.
Nessuno si ribellava a me. Nessuno avrebbe voluto, nessuno avrebbe potuto farlo: io ero il Re, la mia forza era la forza delle schiere celesti. Non vedevo nulla di male in quello che facevo. Non erano miei privilegi, in quanto Re, in quanto Dio, in quanto pastore del popolo? Era possibile lasciarmi insoddisfatto, quando i miei appetiti infuriavano con tanta violenza?
Ah, il vino, la birra, la musica, le canzoni di quelle notti E le donne, le donne, le loro labbra dolci, le loro cosce lisce, i loro seni morbidi! Non riposavo mai. Non mi fermavo mai. Il rullare del tamburo era implacabile. Di giorno guidavo gli uomini nella costruzione delle mura o nei giochi di guerra, finché non avevano gli occhi annebbiati dalla fatica, e di notte mi facevo strada tra le loro donne, come un fuoco che divampi tra l’erba secca d’estate.
Non ero mai stanco. Uruk si stava stancando di me, ma io non lo sapevo ancora.
Poi arrivò la stagione dell’anno nuovo, e tornò il giorno del Matrimonio Sacro. Ero Re di Uruk da un anno e qualche mese. Quella notte la Dea sarebbe stata mia per la seconda volta. Eseguii i riti di purificazione, meditati nel buio e nel silenzio della casa di Dumuzi, e quando arrivò la sera, mi portarono nel modo tradizionale — in barca — da Inanna.
Quando sbarcai sul molo dove avevo distrutto l’esercito di Agga e entrai nella città attraverso una delle porte che si aprivano nel muro costruito da me, sentii un’ondata di orgoglio per tutto quello che avevo conquistato. Mi sentii veramente un Dio: non qualcuno che ha qualche goccia di sangue divino nelle vene, ma un vero Dio, uno dei portatori della corona con le corna, che camminano nello splendore del cielo. Avevo torto a sentirmi così orgoglioso? Ero tornato dall’esilio per salire sul trono, avevo riparato i canali, avevo schiacciato i nemici più potenti, avevo costruito le mura di Uruk, e avevo fatto tutto questo prima di compire il mio ventesimo anno di età. Non era divino averlo fatto? Non avevo ragione di essere orgoglioso?
Quella notte la Dea mi aspettava.
In quei mesi avevo avuto poche occasioni di vederla: solo ai soliti sacrifici e rituali che esigevano la presenza di entrambi. Non ci eravamo mai visti in altre occasioni. A volte sarei potuto andare da lei a chiedere il suo consiglio o la sua benedizione, e non l’avevo fatto. A volte sarebbe potuta venirmi a cercare lei, ma non l’aveva fatto. Penso che capissi anche allora perché ci tenessimo a quella prudente distanza. Ad Uruk eravamo come Re rivali: lei aveva la sua zona di potere, io avevo la mia fede. Ma io stavo già allargando la mia zona: non lo facevo con l’intento di provocare la sua inimicizia, ma solo perché non conoscevo nessun altro modo di essere Re se non quello di esercitare pienamente il potere.
Quando avevo combattuto contro Agga, non avevo chiesto il suo consenso: mi sembrava troppo rischioso, dal momento che avevo già incontrato l’opposizione della Casa degli anziani. La guerra doveva essere combattuta, e con Inanna contro di me, non sarei riuscito ad arruolare tutti gli uomini di cui avevo bisogno: per questo motivo non avevo consultato Inanna. Temevo l’interferenza che poteva creare il suo potere. Mi preoccupavo ancora di pormi aldilà della portata di quel potere. E lei, vista la forza crescente della mia autorità, si era ritirata, incerta delle mie intenzioni, contraria a sfidarmi prima di capire completamente i miei scopi.
Ma durante la notte del Matrimonio Sacro, tutte queste tristi considerazioni sulla ragion di stato vengono messe da parte. Andai da lei nella grande camera del Tempio e la trovai scintillante nei suoi olii e nei suoi ornamenti. La salutai e le dissi che era la mia gemma sacra, e lei mi chiamò il suo regale marito, la sua fontana di vita. Eseguimmo il rito della presentazione e, quando fu compiuto, entrammo nella camera dei giunchi verdi dal dolce odore, e le ancelle della Dea le tolsero le sfoglie di alabastro e d’oro lasciandola nuda per me.
Quando restammo soli, le poggiai le mani sulle spalle, guardai profondamente nel mistero scintillante dei suoi occhi, e lei mi sorrise come mi aveva sorriso quella prima volta quando eravamo bambini, un sorriso che in parte era caldo e affettuoso, in parte orgoglioso, intenso, di sfida.
Sapevo che mi avrebbe divorato se avesse potuto, ma quella notte era mia. Era diventata ancora più bella nei dodici mesi che erano trascorsi: il suo seno era alto, la vita stretta, i fianchi larghi, le unghie erano lunghe come daghe, ed erano dipinte del color della luna durante le eclissi. Mi invitò a letto con un unico piccolo cenno della mano.
Ci lasciammo cadere sui cuscini e ci abbracciammo. La sua pelle sembrava la stoffa che si intessé nel cielo. Il mio corpo coprì il suo, e il suo dorso si inarcò sotto di me. Le sue dita si conficcarono tra i tendini e i muscoli delle mie spalle: tirò le ginocchia contro il petto e le rivolse verso l’esterno, socchiuse la bocca, la lingua guizzò tra i denti, il suo respiro divenne un pesante sibilo. Tenne sempre gli occhi aperti, come le donne fanno raramente. Me ne accorsi, perché anch’io tenni gli occhi aperti, in ogni attimo di quella notte.
All’alba sentii arrivare la prima pioggia dell’anno nuovo, un lieve tamburellare sugli antichi mattoni bianchi del Tempio. Scesi dal letto e mi girai in cerca della tunica, in modo da andarmene. Lei stava distesa e mi guardava. Mi guardava nello stesso modo in cui i serpenti guardano la preda.
«Resta ancora,» disse sottovoce. «La notte non è ancora finita.»
«Il tamburo rulla. Devo andare via.»
«Tutta la città dorme. I tuoi amici sognano ancora i loro sogni da ubriachi. Che cosa puoi fare da solo a quest’ora?» Fece le fusa: diffido dei serpenti che fanno le fusa. «Torna a letto, Gilgamesh. La notte non è ancora finita, ascoltami.»
Con un sorriso, dissi: «Tu non hai ancora finito, vuoi dire.»
«E tu hai finito, allora?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Abbiamo compiuto il rito. E lo abbiamo compiuto abbondantemente, direi.»
«E così l’insaziabile è sazio per il momento? Oppure ti sei stancato di me, e sei pronto a cercare la prossima donna della giornata?»
«Sei crudele, Inanna.»
«Ma ho ragione: è vero, Gilgamesh? Non ne hai mai abbastanza. Mai abbastanza di donne, mai abbastanza di vino, mai abbastanza di lavorare, mai abbastanza di combattere. Infuri per Uruk come un torrente, spazzando tutto davanti a te. Sei un fardello sotto il quale tutta la città geme. Il popolo chiede misericordia, tanto tu li opprimi.»
Mi sentii punto sul vivo. Spalancai gli occhi per la sorpresa.
«Io, un oppressore? Io sono un Re giusto e saggio, Inanna!»
«Forse lo sei. Senza dubbio, credi di esserlo. Ma opprimi e schiacci il tuo popolo. Fai marciare i giovani su e giù, su e giù lungo i campi di addestramento, finché non cade loro un velo nero davanti agli occhi e non si buttano a terra esausti, ma anche allora tu non hai pietà di loro. E le donne! Nessuno ha mai consumato le donne come fai tu. Le usi come se fossero giocattoli: cinque, sei, dieci a notte. Mi è stato raccontato.»
«Non dieci a notte,» dissi. «Né sei, né cinque.»
Lei sorrise.
«È così che si dice. Si dice che nessuna ti soddisfa, che sembri un toro selvaggio. La gente mi guarda e dice, “Solo una Dea può soddisfarlo.” Ebbene, c’è una Dea in me, e tu ed io abbiamo passato questa notte insieme. Sei soddisfatto, una volta tanto? È per questo che ora sei così ansioso di andartene?»
Ero ansioso di andarmene perché non avevo nessuna difesa contro quel suo attacco violento. Ma non l’avrei mai ammesso davanti a lei. In tono secco, dissi: «Vorrei camminare da solo sotto la pioggia.»
«Va’, allora, e poi torna,» Gli occhi le scintillarono. Aveva dentro di sé la forza di una frusta sferzante. Raccolsi da terra la mia tunica, esitai, la lasciai ricadere e restai nudo davanti a lei. Si sentiva l’odore muschiato della nostra notte d’amore. Gli ultimi resti di incenso scoppiettavano nel vaso. Le sue labbra erano tirate, le narici erano dilatate. A voce bassa e rauca chiese: «Tornerai? Per te ci sono dieci donne ogni notte, Gilgamesh. Per me ci sei solo tu, una notte all’anno.»
Ad un tratto ebbi meno paura di lei, quando mi accorsi che cercava di allettarmi facendo leva sulla pietà.
«Ah, è così, Inanna? Nessun’altro per tutto il resto dell’anno?»
«Chi altri oltre il Dio può toccare la Dea, secondo te?»
Mi feci audace. Osai stuzzicarla.
«Nemmeno in segreto?», le chiesi in tono scherzoso. «Qualche bello schiavo, convocato nel Tempio nel pieno della notte…»
Fu presa dall’ira. Si tirò le mani al seno. Le dita si strinsero e sembrarono artigli. «Dici una cosa simile nel Tempio? Vergogna, Gilgamesh, vergogna!» Poi si addolcì. Si stese come un gattino, fece di nuovo le fusa, alzò un ginocchio e fece scivolare il piede lungo il polpaccio dell’altra gamba. In tono più gentile disse: «Ci sei solo tu, per una sola notte all’anno. Lo giuro, anche se giurarlo mi ripugna. Ci sei solo tu. Non voglio ancora che tu mi lasci. Resterai? Resterai solo un’altro po’? È l’unica notte che ho, questa notte.»
«Voglio prima purificarmi sotto la pioggia,» dissi.
Restai per qualche minuto fuori del Tempio, nell’aria pura di quella pioggia e di quell’alba. Poi ritornai da lei. Gatto o serpente, Sacerdotessa o Dea, non potevo rifiutarmi, se era l’unica notte dell’anno in cui poteva conoscere un abbraccio.
E la pioggia mi liberò di ogni stanchezza, ridestò la mia forza e il mio desiderio. Non mi sarei rifiutato. La desideravo. Andai da lei e ricominciammo la nostra notte.