Per un attimo ebbi dodici anni di meno e stavo andando con mio zio al convento del Tempio per la mia iniziazione. Mi vidi col gonnellino di morbido lino bianco, con la stretta fascia rossa dell’innocenza abbandonata dipinta sulla spalla, e una ciocca dei miei capelli in mano da’ dare alla Sacerdotessa. E rividi la bella Abisimti sedicenne, della mia adolescenza, i cui seni erano rotondi come melograni, i cui lunghi capelli neri sfioravano le sue guance dipinte d’oro.
Era ancora bella. Chi avrebbe potuto dire quanti uomini aveva abbracciato per amore della Dea prima che io andassi da lei, o quanti uomini avesse abbracciato dopo? Ma il numero di coloro che l’avevano posseduta avrebbe potuto essere grande quanto il numero di granelli di sabbia del deserto, e non le avrebbe tolto nulla della sua bellezza: poteva solo aumentarla. Non era giovane, i suoi seni non erano più tanto rotondi, ma era ancora bella. Mi chiesi, però, perché i suoi occhi avessero una luce così strana, perché la sua voce avesse toni così insoliti. Sembrava drogata. Devono averle dato una pozione, pensai: deve essere così. Ma perché? Perché?
Dissi: «Mi aspettavo di trovare Inanna qui.»
Parlò lentamente, come in sogno.
«Sei dispiaciuto? Inanna non può uscire dal Tempio. Andrai da lei dopo, Gilgamesh.»
Avrei dovuto capire che Inanna non sarebbe uscita fuori dalle mura della città. Ad Abisimti dissi: «Sono altrettanto felice di aver trovato te. Sono rimasto sorpreso, questo è tutto…»
«Su. Levati la tunica. Inginocchiati davanti a me.»
«Ma quale rito dobbiamo compiere?»
«Non devi chiedere. Su, Gilgamesh! Spogliati. Inginocchiati.»
Ero cauto, ma stranamente calmo. Forse sarebbe stato un vero rito, dopotutto. Forse Inanna voleva solo purificarmi di solo Enlil sapeva quali impurità, prima che entrassi nella città. Non potevo credere che la dolce Abisimti avrebbe mai partecipato ad un complotto contro di me. Allora mi liberai della spada, mi tolsi la tunica e mi inginocchiai accanto a lei. Eravamo entrambi nudi, sebbene Abisimti avesse il pendente e il serpente vivo intorno alla vita, e io avessi la perla della pianta Torna-Giovane che mi pendeva sul petto. Mi accorsi che la guardava. Non poteva avere alcuna idea di che cosa si trattasse, ma alzò le sopracciglia per un attimo.
«Dimmi che cosa devo fare,» dissi.
«Questa è la prima cosa,» dissi Abisimti.
Allungò una mano di lato e sollevò con entrambe le mani una coppa di alabastro sottile ed elegante, su cui erano incise le Insegne Sacre della Dea. La tenne per un attimo tra noi: conteneva del vino scuro. Allora avremmo fatto una libagione, pensai, e poi forse avremmo fatto qualche sacrificio — il sacrificio del serpente di Inanna, era possibile? — e dopo, immaginai, avremmo pronunciato qualche formula rituale. Alla fine, lei mi avrebbe fatto stendere sulla stuoia e sarei entrato nel suo corpo. Durante l’accoppiamento, avrei gettato fuori tutte le impurità di cui dovevo liberarmi prima di entrare in Uruk. Immaginai che la faccenda si sarebbe svolta in questo modo.
Ma Abisimti tese la coppa verso di me e disse in un sussurro sognante: «Prendila, Gilgamesh. Bevi fino in fondo.»
Mi mise la coppa tra le mani. La tenni per un attimo, e osservai il vino, prima di portare la coppa alle labbra.
E mi accorsi di una stranezza. Abisimti tremava nel gran calore del giorno. Le tremava tutto il corpo. Aveva le spalle stranamente curve, i suoi seni ondeggiavano come alberi nella tempesta, gli angoli della bocca le si contraevano in modo bizzarro. Vidi la paura dipinta sul suo volto, e qualcosa di simile alla vergogna. Ma i suoi occhi erano ancora più brillanti, e mi pareva che mi fissassero nello stesso modo in cui gli occhi del serpente fissano la preda inerme prima di colpirla. Non saprei dirvi perché mi facesse questa impressione. Mi guardava, aspettava. Che cosa?
Dissi, di nuovo insospettito: «Se dobbiamo partecipare insieme a questo rito, dobbiamo dividere tutto. Tu berrai per prima, e poi berrò io.»
Rovesciò la testa all’indietro con un gesto brusco, come se l’avessi schiaffeggiata.
«Non è possibile!», gridò.
«Perché?»
«Il vino… è per te, Gilgamesh…»
«Te lo offro. Dividilo con me, Abisimti.»
«Non mi è permesso!»
«Io sono il tuo Re. Te lo ordino.»
Strinse le labbra al petto e si rannicchiò. Stava tremando. Il suo sguardo non incontrò più il mio. Disse., così piano che la sentii appena: «No… per favore, no…»
«Bevi un sorso di vino prima che lo beva io.»
«No… ti prego…»
«Perché hai tanta paura, Abisimti? Questo vino è così santo che ti farebbe male?»
«Ti prego… Gilgamesh…»
Tesi la coppa verso di lei, poggiandola sulle sue labbra. Lei girò la faccia, serrò la bocca, per paura che tentassi di forzarla a bere. Allora fui certo del tradimento. Appoggiai a terra, accanto a me, la coppa, e mi tesi in avanti per afferrare Abisimti per un polso. Con calma dissi: «Pensavo che ci fosse amore tra noi, ma vedo che mi sbagliavo. Dimmi Abisimti, perché non vuoi bere il vino con me, e dimmelo sinceramente.»
Non rispose.
«Dimmelo!»
«Mio Signore…»
«Dimmelo!»
Scosse la testa. Poi, con una forza che mi stupì, si liberò della mia stretta e si girò di scatto. Il serpente si allarmò, si sciolse dalla sua vita e scivolò a terra. Un istante dopo, le vidi stringere in una mano un pugnale di rame. L’aveva preso da un cuscino che le stava alle spalle. Pensavo che volesse pugnalarmi, invece lo diresse contro il proprio seno. La afferrai per il polso e le allontanai dalla carne la punta della lama. Mi costò un certo sforzo, perché era in uno stato di frenesia e la sua forza era incredibile.
Lentamente, prevalse La mia forza. Allontanai il pugnale dal suo petto, glielo strappai di mano e lo lanciai dall’altra parte della stanza. Lei si avventò su di me come una leonessa. I nostri corpi si unirono, viscidi per il sudore, in una lotta violenta. Mi graffiò, mi morse. Singhiozzava e strillava e, mentre lottavamo, le sue dita si impigliarono nel laccio a cui era appesa la perla Torna-Giovane. Abisimti tirò. Sentii il laccio tendersi e bruciarmi sul collo come un fuoco. Poi il laccio si spezzò, la perla cadde e rotolò lontana da me.
Quando capii che cosa era accaduto, spinsi da parte Abisimti e inseguii carponi quella preziosissima gemma. Per un attimo non riuscii a vedere dove fosse caduta. Poi scorsi il bagliore della fievole luce riflettersi sulla sua superficie lucida. Era più o meno a un dozzina di passi da me. Ma anche il maledetto serpente di Inanna aveva visto la perla, e — solo gli Dei sanno il perché — stava strisciando lentamente verso la gemma.
«No!» esclamai, e balzai in avanti. Ma era troppo tardi. Prima che io arrivassi al centro della stanza, il serpente aveva raggiunto la perla e l’aveva presa con la bocca, così come una gatta tiene un gattino. Si girò per mostrarmi il bottino. Per un istante i suoi occhi gialli scintillarono dello scherno più maligno che avessi mai visto. Poi il serpente sollevò in alto la testa, aprì le mandibole e la perla gli scivolò nelle fauci. Se avessi potuto prendere quel serpente, l’avrei torto fino a fargli sputare la perla, ma, con mio grande orrore, l’oscena creatura si allontanò astutamente e strisciò verso l’apertura della tenda. Sulle mani e sulle ginocchia l’inseguii di corsa, ma non riuscii a prenderlo.
Era un animale furbissimo. Con delicatezza posò il muso sulla sabbia, si infilò nel terreno e in un attimo scomparve alla vista. Al suo posto restò qualche frammento di pelle macchiettata che aveva perso mentre scappava. Stava già abbandonando il suo vecchio corpo e stava subendo il rinnovamento fisico che era stato destinato a me. Tutta la mia fatica era andata perduta: ero arrivato in terre lontane solo per ottenere una nuova vita per il serpente. Per me non avevo guadagnato nulla.
Restai stordito per qualche attimo. Poi mi girai a guardare Abisimti. Mentre cercavo di riprendere la perla, lei aveva afferrato la coppa di vino e ne aveva bevuto un’ampia sorsata. Le guance le gocciolavano di vino. Si alzò in piedi con violenza, e mi guardò con tanto dolore e amore che mi spezzò il cuore. Ogni muscolo del suo corpo si contorceva ad un ritmo diverso: sembrava una donna posseduta da mille demoni.
«Capisci… non volevo farlo…», disse con voce rauca e bassa.
Poi la coppa le cadde dalle mani inerti e piombò a terra, ai miei piedi.
Pensai che sarei impazzito in quel momento, o che sarei stato preso dai tremiti di una convulsione. Ma ero stranamente calmo, come se la mia anima, tanto provata, si difendesse chiudendosi in se stessa, per rendermi vulnerabile. Abbassai gli occhi e vidi la macchia scura del vino sulla sabbia. Con calma, la coprii con altra sabbia finché non scomparve. Poi mi inginocchiai a chiudere gli occhi di Abisimti, a colei che era stata mandata ad uccidermi e che, invece, aveva dato la sua vita. Non sentivo rabbia nei suoi confronti, solo pietà e rimpianto: era una Sacerdotessa, aveva giurato di obbedire alla volontà della Dea. Ebbene, il suo giuramento a Inanna l’aveva condotta alla Casa della Polvere e delle Tenebre, dove anch’io avrei potuto trovarmi, se non fosse stato per l’espressione di paura e di vergogna che avevo scorto sul viso di Abisimti mentre mi porgeva il vino avvelenato. Ora se n’era andata. E anche la perla della pianta Torna-Giovane se n’era andata, in un attimo. Siduri l’ostessa aveva detto la verità: Non troverai mai la vita eterna di cui sei alla ricerca. Ma non importava. Ero stanco di inseguire un sogno. Lo scherno del serpente mi aveva dato la risposta: non era destinato ad essere, dovevo trovare un’altra strada.
Indossai la tunica, mi legai la spada al fianco e uscii dalla tenda. L’abbagliante luce del sole mi colpì gli occhi come un pugno. Ma dopo un attimo riacquistai la vista. Le tre Sacerdotesse di Inanna mi stavano davanti, senza fiato per la meraviglia: non pensavano di rivedermi vivo.
«Abbiamo compiuto il rito,» dissi in tono tranquillo. «Ora sono purificato di tutte le impurità. Andate dalla Sacerdotessa Abisimti: bisogna pronunciare le parole rituali per lei.»
Una delle Sacerdotesse disse, stupita, «Hai bevuto il Vino Sacro, allora?»
«Ho fatto una libagione alla Dea con il vino,» le dissi. «E ora entrerò nella città, e renderò omaggio alla Dea di persona.»
«Ma… tu…»
«Fatti da parte,» dissi con disinvoltura. Poggiai la mano sull’elsa della spada. «Fammi passare, altrimenti ti squarterò con un’oca arrosto. Fatti da parte, donna. Fatti da parte!»
Mi cedette il passo così come il buio cede il posto al sole del mattino. Si rimpicciolì, e scomparve quasi. La oltrepassai e mi diressi al carro in attesa. Ninurta-mansun venne verso di me, mi poggiò una mano sul polso e me lo strinse con forza. Gli occhi dell’auriga erano pieni di lacrime. Penso che nemmeno lui si aspettasse di rivedermi vivo.
Gli dissi: «Abbiamo finito quello che avevamo da fare qui. Andiamo a Uruk adesso.»
Ninurta-mansun prese le redini. Girammo intorno ai padiglioni dai colori vivaci e ci dirigemmo verso la Porta Alta.
Vidi la gente dietro i parapetti che mi guardava. Quando il carro arrivò al portale, la porta si spalancò e io fui ammesso nella città senza incontrare altri ostacoli. E così doveva essere: perché tutti sapevano che io ero Gilgamesh il Re.
«Vedi quella costruzione lassù?», dissi al mio auriga. «Dove si erge la Piattaforma Bianca, alla fine di questa grande strada? Lì sorge il Tempio di Inanna, il Tempio che ho costruito con le mie mani. Portami lì.»
Migliaia di cittadini di Uruk erano venuti ad assistere al mio ritorno; ma tutti sembravano stranamente spaventati e intimoriti, e pochi gridavano il mio nome al mio passaggio. Mi guardavano, si giravano l’uno verso l’altro a sussurrare, e facevano i Segni Santi, per la grande paura che avevano. Attraversammo una città silenziosa lungo l’ampia strada che portava ai Recinti Sacri del Tempio. Ai margini della Piattaforma Bianca, Ninurta-mansun fermò il carro e io ne discesi. Da solo salii gli alti gradini che conducevano al portico dell’immenso Tempio, quel Tempio che per amore della Dea avevo costruito al posto del Tempio di mio nonno Enmerkar. Alcuni Sacerdoti uscirono e mi bloccarono il cammino verso la porta del Tempio.
Uno di essi chiese con coraggio: «Che cosa ti ha portato qui, Gilgamesh?»
«Voglio vedere Inanna.»
«Il Re non può entrare nel Tempio di Inanna, a meno che non sia stato invitato. È l’usanza. Lo sai.»
«L’usanza è cambiata,» risposi. «Fatti da parte.»
«È vietato! È sconveniente!»
«Fatti da parte,» dissi a voce molto bassa. Fu sufficiente. Si fece da parte.
Le sale del Tempio erano buie e fresche nonostante il calore del giorno, tanto erano spesse le mura. Erano accese le lampade che illuminavano debolmente gli ornamenti colorati che avevo fatto mettere a migliaia sulle pareti. Camminai rapidamente. Era il mio Tempio: l’avevo progettato e conoscevo la strada. Mi aspettavo di trovare Inanna nella grande camera della Dea, e così fu. Era al centro della stanza, completamente vestita e con indosso i pettorali e gli ornamenti migliori, come se si fosse preparata a una cerimonia importante. Indossava un ornamento che non le avevo mai visto prima: una maschera di scintillante oro battuto che le copriva tutta la faccia, tranne labbra e mento, con due piccole feritoie per gli occhi.
«Non dovresti essere qui, Gilgamesh,» disse freddamente.
«No, non dovrei. Dovrei giacere cadavere in una tenda al di fuori delle mura. Non è vero?» Non permisi alla rabbia di permeare la mia voce. «In questo momento le Sacerdotesse stanno pronunciando le parole rituali per Abisimti. Ha bevuto il vino al mio posto. Ha eseguito i tuoi ordini e mi ha offerto la coppa, ma io non ho voluto bere, perciò ha bevuto lei stessa, di propria spontanea volontà.»
Inanna non disse nulla. Le labbra che spuntavano dalla maschera erano serrate e formavano una linea stretta e sottile.
«Quando ero a Eridu mi hanno detto,» dissi, «che durante la mia assenza mi hai dichiarato morto e che hai chiesto l’elezione di un nuovo Re. È vero, Inanna?»
«La città deve avere un Re,» disse.
«La città ne ha uno.»
«Tu sei scappato dalla città. Sei fuggito nelle regioni selvagge come un pazzo. Se anche non eri morto, era come se lo fossi.»
«Sono andato alla ricerca di qualcosa. E ora sono tornato.»
«Hai trovato quello che cercavi?»
«Sì,» dissi. «E no. Non importa. Perché porti quella maschera, Inanna?»
«Non importa.»
«Non ti avevo mai visto indossare una maschera.»
«È una nuova usanza,» rispose.
«Ah. Ci sono molte usanze nuove, a quanto pare.»
«Compresa l’usanza che il Re entri nel Tempio senza essere stato invitato.»
«E,» dissi, «compresa l’usanza di offrire al Re, al suo ritorno da un viaggio, una coppa di vino che uccide.» Mi avvicinai di qualche passo. «Togli quella maschera, Inanna. Fammi rivedere il tuo volto.»
«No,» disse.
«Togliti quella maschera. Ti prego.»
«Lasciami stare. Non toglierò questa maschera.»
Ma non riuscivo a parlare con quella sconosciuta dalla faccia di metallo. Era la donna in carne e ossa che desideravo rivedere, l’infida e bellissima donna che conoscevo da tanto tempo, che avevo amato, a modo mio, come non avevo amato nessuna donna. Volevo rivedere quella donna ancora una volta.
In tono gentile, dissi: «Vorrei rivedere lo splendore del tuo volto. Penso che non esista un viso più bello in tutto il mondo. Lo sai, Inanna? Sai quanto mi sembravi bella?», risposi. «Ricordi le notti in cui ci siamo uniti nel Matrimonio Sacro? Naturalmente. Come potresti dimenticarle? L’anno in cui fui eletto Re, e restai tutta la notte tra le tue braccia, e la mattina arrivò la pioggia. Ricordo. Ricordo quei giorni, quando tu non eri Inanna, e mi invitavi nella camera che era nella profondità del vecchio Tempio. Ero solo un bambino impaurito allora, e non capivo a che gioco giocavi con me. Oppure, la prima volta, durante la cerimonia di incoronazione di Dumuzi, quando mi smarrii nei corridoi del Tempio e tu mi trovasti. Anche tu eri solo una bambina, sebbene avessi già i seni. Ricordi? Ah, Inanna, quando ho capito il gioco a cui giocavi con me! Ma adesso vorrei rivedere il tuo volto. Togliti la maschera!»
«Gilgamesh…»
«Togliti la maschera,» dissi. «Toglila.» E la chiamai con il suo vero nome: non il nome da Sacerdotessa ma l’altro, l’antico nome, il suo nome di nascita che nessuno aveva più pronunciato da quando era diventata Inanna. Con quel nome la scongiurai. Quando lo sentì, restò senza fiato e alzò le mani in un Segno Segreto della Dea, per proteggersi. Non potevo vederle gli occhi dietro la maschera, ma immaginai che fossero fissi su di me, fermi, penetranti, freddi.
«Sei pazzo a chiamarmi con quel nome!», sussurrò.
«Sì? Allora sono pazzo. Vorrei rivedere il tuo volto ancora una volta, un’ultima volta.»
Adesso la sua voce tremava.
«Lasciami stare, Gilgamesh. Non voglio farti del male. Quello che ho fatto, l’ho fatto per amore della città… la città deve avere un Re, e tu te n’eri andato… la Dea mi aveva ordinato…»
«Sì. La Dea ti aveva ordinato di eliminare Dumuzi, e tu lo hai fatto. La Dea ti ha ordinato di eliminare Gilgamesh, e tu lo volevi fare. Ah, Inanna, Inanna: l’hai fatto per amore della città, sì. E per amore della città, ti concedo il mio perdono. Ti perdono tutti i tuoi intrighi. Ti perdono quello che hai fatto nel nome della Dea per nuocermi e indebolire il mio potere. Ti perdono il tuo odio, la tua rabbia, la tua ira. Ti perdono perfino la tua vendetta, perché sei stata tu a mettere gli Dei contro Enkidu che io amavo, e penso che, se non fosse per te, sarebbe ancora vivo. Ma ti perdono. Ti perdono tutto, Inanna. Se non fossimo stati il Re e la Sacerdotessa, penso che ti avrei amato ancora più di quanto amassi lui, più di quanto amassi la vita stessa. Ma ero il Re, tu eri la Sacerdotessa. Ah, Inanna, Inanna…»
Non usai la spada. Presi il pugnale, che avevo al fianco e glielo posai tra il pettorale e i fili di lapislazzuli che portava intorno alla vita. Lo spinsi fino ad incontrare il suo cuore. Le sue labbra emisero un solo flebile suono. Cadde. Penso che morì subito. Espirai lentamente. Ero finalmente libero, ma era stato come tagliare una parte della mia anima.
Mi inginocchiai accanto a lei, sciolsi la maschera e la sollevai dal suo volto.
Vorrei non averlo mai fatto. Era difficile credere a quello che le era accaduto da quando l’avevo vista per l’ultima volta. Né i suoi occhi né le labbra avevano perso nulla della sua bellezza, ma tutto il resto era una rovina. Un morbo devastante le aveva colpito il volto e l’aveva distrutto. La pelle era butterata e pustolosa, rossa e scorticata in un punto, grigia e molle in un altro: una strega da incubo, un mostro dalla faccia di Demone. Sembrava invecchiata di mille anni. Sarebbe stato meglio se l’avessi lasciata coperta.
Ma la scoprii, e devo portarne il fardello. Mi chinai in avanti, posai le labbra sulle sue e la baciai per l’ultima volta. Poi rimisi la maschera a posto, mi alzai e uscii sul portico del Tempio per chiamare il popolo e spiegare quale sarebbe stato il nuovo ordine delle cose, adesso che avevo ripreso il mio trono a Uruk.