Mi preparai a lasciare l’isoletta. Per ordine dello Ziusudra, mi fu dato un mantello nuovo e una fascia da mettere intorno alla testa. Mi lavai finché non fui puro come la neve fresca. Il barcaiolo Sursunabu mi avrebbe riportato a Dilmun, e da Dilmun avrei organizzato il viaggio di ritorno.
Il mio umore era triste, cupo e depresso, e perché non avrebbe dovuto esserlo? Lo Ziusudra l’aveva detto: avevo fatto tanta strada per ottenere tanto poco. Ma non ero sconvolto. Avevo scommesso e avevo perso, ma le probabilità in mio favore erano scarse. Solo uno stupido avrebbe pianto se avesse chiesto l’impossibile ai suoi dadi e questi non avessero obbedito.
La mia partenza era ormai prossima, quando il vecchio Sacerdote Lu-Ninmarka venne da me e mi fece un breve discorso: «Lo Ziusudra è molto dispiaciuto che tu abbia affrontato un viaggio tanto lungo e faticoso e ti sia stancato tanto, senza ottenere alcuna ricompensa. Per confortarti ha deciso di rivelarti un segreto, un segreto degli Dei. Te l’offre in dono, affinché tu lo porti nel tuo paese.»
«E che cos’è?», chiesi.
«Vieni con me.»
In verità, ero così sconsolato che avevo ben poca voglia di avere un regalo dallo Ziusudra. Volevo solo andarmene via da quel posto e tornare subito a Uruk. Ma sapevo che sarebbe stato scortese e incivile rifiutare. Perciò accompagnai il Sacerdote in una località distante dell’isola, dove la terra si allungava nel mare con una punta lunga e stretta che aveva la forma di una lama di coltello. Ai margini della punta vidi un grande cumulo di migliaia di conchiglie grigie dalla strana forma, tutte erose e scabre da una parte, e lisce e splendenti dall’altra. Vicino alle conchiglie c’erano le pietre che i nuotatori usano come pesi per scendere sott’acqua, e alcune cime per attaccare le pietre alle gambe.
«Ti chiedi perché siano venuti qui?», disse Lu-Ninmarka. Sogghignò. Penso che intendesse farmi un sorriso, ma a me parve il ghigno di un teschio, così scarna e scavata era la sua faccia dai tratti ossuti. Raccolse una delle conchiglie grigie, la appoggiò per un attimo sul palmo della mano con la parte levigata in basso, poi la gettò a terra. Quindi indicò il mare.
«Questo è il luogo dove cresce la pianta che si chiama Torna-Giovane. È qui, sul fondo del mare.»
Mi accigliai e dissi: «Torna-Giovane? Che pianta è?»
Mi guardò sorpreso.
«Non la conosci? È la meraviglia delle meraviglie. Da essa ricaviamo una medicina che cura la più implacabile delle malattie: mi riferisco alle offese del tempo. È una medicina che restituisce agli uomini la forza perduta, che toglie le rughe dalla faccia, che fa tornare i capelli neri. E la pianta da cui si ricava si trova in queste acque. Vedi le conchiglie qui? Sono le sue foglie. Ci immergiamo per prendere la pianta, la portiamo in superficie, ne estraiamo la forza e scartiamo il resto. Dai suoi frutti ricaviamo la pozione che ci difende dalla vecchiaia. Questo è il dono d’addio di Ziusudra per te: puoi prendere il frutto della pianta Torna-Giovane e portarlo con te nel viaggio di ritorno.»
«Davvero?», chiesi, meravigliato.
«Non ti prenderemmo mai in giro, Gilgamesh.»
Il timore e lo stupore mi zittirono per un momento. Quando riuscii a parlare di nuovo, dissi sottovoce: «Come posso prendere questa pianta miracolosa?»
Lu-Ninmarka agitò le mani in direzione delle pietre dei nuotatori, delle funi, del mare. Mi fece cenno di svestirmi e di gettarmi in acqua. Esitai solo un attimo. Il mare è il dominio di Enlil, e io non mi sono mai sentito molto a mio agio con quel Dio. Per me sarebbe stata un’esperienza nuova entrare nel mare. Beh, pensai, durante la traversata per Dilmun, Enki non mi aveva fatto nulla di male, e da bambino mi ero tuffato spesso nel fiume. Che cosa c’era da temere? La pianta Torna-Giovane mi aspettava in acqua. Gettai da una parte il mantello, mi legai le pesanti pietre ai piedi, poi avanzai incespicando verso il bordo del mare.
Quanto era limpida l’acqua, quanto era tiepida, lieve! Lambiva la sabbia rosa della spiaggia e prendeva una colorazione rosata. Guardai Lu-Ninmarka, che mi fece cenno di proseguire. Camminavo lentamente, con quelle pietre ai piedi. L’acqua era bassa, e avanzai con l’acqua alle ginocchia per un tempo infinito. Ma alla fine arrivai in un punto dove il fondo scendeva a picco. Mi sembrava che le fauci del Grande Abisso fossero spalancate davanti a me. Guardai di nuovo indietro: Lu-Ninrnarka mi fece ancora segno di proseguire. Mi riempii il torace di aria e mi tuffai. Le pietre mi tirarono giù.
Ah, che gioia era cadere in quella profondità! Era come volare, tranquillo e senza sforzo, ma volare verso il basso, in una discesa dolce e pura. Non avevo alcun timore. Il colore del mare era sempre più intenso: ora era zaffiro scuro, striato di fili di luce scintillante che scendevano dall’alto.
Mentre scendevo, i pesci mi si avvicinavano e mi studiavano con occhi grandi e stralunati. Erano di ogni sfumatura possibile, gialli a strisce nere, scarlatti, azzurri, topazio, smeraldo, turchese. Erano di colori che non avevo mai visto, e di miscugli di colori che non avrei mai creduto possibili. Li avrei potuti toccare, tanto erano vicini. Mi danzavano intorno con una grazia inimmaginabile.
Giù, giù, sempre più giù. Tenevo le mani al di sopra della testa e mi lasciavo trascinare dalla forza dell’abisso. I capelli mi fluttuavano intorno: un torrente di bollicine mi usciva dalla bocca, e nel petto il cuore mi pulsava vigoroso. Ero felice, e il mio corpo era attraversato da un flusso di piacere. Non saprei dire da quanto tempo non provassi una gioia simile. Certamente, da prima della morte di Enkidu. Ah, Enkidu, Enkidu, se fossi stato accanto a me mentre scendevo nell’abisso!
L’acqua era molto più fredda. La luce scintillante era al di sopra di me, chiara, blu, remota, simile al chiarore lunare attenuato da fitte nubi. Ad un tratto sentii che i miei piedi avevano toccato qualcosa di duro. Avevo raggiunto il fondo di quel regno sommerso. Soffice sabbia sotto di me, rocce scure e frastagliate davanti a me. Dov’era la pianta? Dov’era la pianta Torna-Giovane? Ah, eccola, eccola! Ne vidi una moltitudine: grigie foglie di pietra abbarbicate alle rocce. Ne sfiorai molte, con meraviglia, pensando: sarà questa a fare la magia? Sarà quest’altra a restituire la giovinezza?
Sradicai una pianta. Mi costò non poco dolore. La superficie esterna era tagliente e spinosa, come se fosse coperta di minuscole lame, e mi graffiò le mani come una rosa. Vidi una nube cremisi, il mio sangue, salirmi lungo le braccia. Ma avevo la pianta della vita: la strinsi con forza, la alzai in alto, trionfante, e avrei gridato di gioia, se fosse stato possibile in quel mondo silenzioso. Torna-Giovane! Sì! Forse la Vita Eterna non sarebbe stata mia, ma almeno avrei potuto proteggermi dai morsi dei denti del tempo.
Sali, subito, Gilgamesh! Ritorna in superficie! La mia missione era compiuta. Mi resi improvvisamente conto di non avere più fiato.
Mi liberai dalle pietre che avevo legate ai piedi e salii come una freccia, fendendo l’acqua, disperdendo i pesci sorpresi. La luce mi avvolse. Emersi e sentii il calore del sole. Tra risate e spruzzi, mi gettai nel grembo del mare. Le onde mi spinsero a riva. In pochi attimi raggiunsi un punto in cui l’acqua era bassa abbastanza da permettermi di camminare. Allora corsi finché non fui di nuovo sulla spiaggia.
Tesi il braccio verso Lu-Ninmarka per mostrargli la pianta grigia e magica che stringevo nella mano. Il sangue scorreva ancora dai tagli che mi ero fatto nelle mani e sentivo il sale bruciarli, ma non mi importava.
«È questa?», gridai. «È quella giusta?»
«Fammi vedere,» mormorò il vecchio. «Dammi il tuo coltello.»
Prese il coltello e abilmente infilò la lama tra le due foglie di pietra. Con una forza che non credevo avesse, il vecchio Sacerdote separò le due foglie e le rovesciò. All’interno vidi qualcosa di strano, una cosa pulsante, rosa e pelosa, soffice, intricata e misteriosa quanto il luogo più intimo e segreto di una donna. Ma Lu-Ninmarka non le prestò alcuna attenzione. Infilò le dita tra le pieghe e le fessure della cosa. Un attimo dopo, gridò ed estrasse qualcosa di rotondo, liscio e splendente, la perla! che rappresenta il frutto della pianta Torna-Giovane.
«Ecco quello che cercavamo,» disse. Con noncuranza gettò via le foglie di pietra e la sostanza rosa, e un uccello si avventò subito a ghermire quella carne tenera. Ma il vecchio teneva la perla nel palmo della mano e la guardava sorridendo come se fosse il suo figlio più caro. Nella calda luce del sole sembrava splendere di un bagliore interno, era di un bellissimo colore blu, mescolato a un rosa vellutato.
La toccò delicatamente con la punta delle dita, e la fece rotolare nel palmo, provandone grande delizia. Poi la posò sulla mia mano e mi piegò le dita intorno. «Mettila nel sacchetto che hai legato in vita,» disse, «e custodiscila come il più grande dei tuoi tesori. Portala con te a Uruk dagli alti bastioni, e conservala nei tuoi forzieri. E, quando comincerai a sentire il peso degli anni, va’ a prenderla, riducila in una fine polvere, aggiungila ad un buon vino forte, e bevila in un solo sorso. Questo è tutto. Gli occhi ti torneranno limpidi, il respiro si farà più profondo, la tua forza sarà la forza del cacciatore di leoni che eri un tempo. Questo è il regalo che ti facciamo, Gilgamesh di Uruk.»
Guardai la perla con gli occhi splendenti.
«Non avrei potuto desiderare niente di più bello.»
«Andiamo, ora. II barcaiolo ti aspetta.»