19

Era il giorno delle nozze del Nobile Lugal-annemundu e di Ishara. I tamburi nuziali suonavano, e il letto nuziale era già stato approntato. Ishara mi piaceva, e all’imbrunire mi avviai verso la Casa dell’assemblea per portare la ragazza al palazzo.

Ma, mentre attraversavo il mercato, il Mercato-del-Paese, che si trova di fronte alla Casa dell’assemblea, una figura robusta uscì dall’ombra e mi si parò davanti. Era un uomo all’incirca della mia altezza, un paio di dita appena più basso di me. Non avevo mai visto nessun altro di quell’altezza: aveva un torace possente, le spalle ampie, più ampie perfino delle mie, e le braccia grosse quanto le gambe di un uomo normale.

Alla luce incerta delle torce dei miei servi, lo guardai attentamente in viso. Teneva il mento proteso orgogliosamente in avanti, la bocca era grande, le sopracciglia folte e scure, e i suoi occhi erano accesi d’ira e di violenza. Aveva una barba fitta, e i capelli ispidi. E quanto sembrava calmo, quanto sicuro di sé! Con quanta boria mi ostacolava il cammino! Non sapeva che io ero Gilgamesh il Re?

Dissi con calma: «Fatti da parte, amico.»

«No.»

Mi meravigliò sentire quel diniego. Non posso dire che ebbi paura, ma mi misi in guardia, perché capii che quell’uomo non poteva essere un normale cittadino. Le mie guardie del corpo si agitarono inquiete e cominciarono a tirare fuori le armi. Feci loro cenno di fermarsi. Avvicinatomi allo straniero, gli chiesi: «Mi conosci?»

«Penso che tu sia il Re.»

«Si. Non è prudente ostacolarmi il cammino.»

«E tu conosci me?», chiese. Aveva una voce rude e profonda, il suo accento era insolito.

Risposi: «Assolutamente no.»

«Sono Enkidu.»

«Ah, l’uomo selvaggio! Avrei dovuto sospettarlo. E così sei venuto ad Uruk? Ebbene, che cosa vuoi da me, uomo selvaggio? Questo non è il momento di presentare petizioni al tuo Re.»

In tono brusco mi chiese: «Dove stai andando, Gilgamesh?»

«Devo forse rendere conto a te di quello che faccio, adesso?»

«Dimmi dove stai andando.»

Le mie guardie del corpo si agitarono nuovamente. Penso che lo avrebbero trafitto volentieri con le lance, ma le trattenni.

Alquanto irritato, risposi, indicandogli la Casa dell’assemblea: «Laggiù. A partecipare ad una cerimonia nuziale. E tu mi farai arrivare in ritardo, uomo selvaggio.»

«Non puoi andarci,» disse. «Tu hai intenzione di prendere la sposa per te? Non puoi prenderla!»

«Io non posso? Io non posso? Che strane parole da dire ad un Re, uomo selvaggio!» Con una stretta nelle spalle dissi: «Non mi diverto più. Te lo ripeto: fatti da parte, amico.»

Avanzai. Ma, invece di cedermi il passo, allungò una gamba per ostacolarmi, e poi mi afferrò con le mani.

È punibile con la morte toccare il Re in una maniera simile. Non diedi, però, ai miei soldati la possibilità di abbatterlo. Non appena Enkidu mi toccò, fui preso da una rabbia terribile, e lo afferrai come se volessi lanciarlo dall’altra parte del mercato. Immediatamente ci avvinghiammo in un abbraccio violento, e i soldati non avrebbero potuto colpirlo senza ferire me; perciò indietreggiarono e ci lasciarono stare, non sapendo che cos’altro fare.

In quei primi momenti mi accorsi che aveva la mia stessa forza, o quasi. Era una sensazione nuova per me. Nella mia infanzia, nei giorni di addestramento militare a Kish, nelle chiassose risse con i giovani guerrieri della Corte dopo la mia salita al trono, avevo lottato spesso, per puro divertimento, e mi ero sempre accorto nei primi momenti che l’uomo con cui combattevo era alla mia mercé: avrei potuto atterrarlo quando avessi voluto.

Questo mi soddisfaceva solo quando ero bambino. Quando crebbi, me ne lamentavo, perché privava la lotta di ogni divertimento sapere che la vittoria era sempre a portata di mano, in ogni momento. Con Enkidu era diverso: non avevo nessuna certezza. Quando cercai di spostarlo, non si mosse. Quando lui cercò di spostarmi, dovetti usare tutta la mia forza per resistere. Mi sembrava di trovarmi in un altro mondo, un mondo strano, in cui Gilgamesh non era più Gilgamesh. La sensazione che avvertivo non era paura — non penso che fosse paura — ma qualcosa di altrettanto sconosciuto. Dubbio? Incertezza? Disagio?

Lottammo come tori arrabbiati: sbuffavamo, oscillavamo in avanti e indietro, senza mai lasciare la presa l’uno sull’altro. Frantumammo gli stipiti delle porte e facemmo tremare le pareti degli edifici. Nessuno di noi due riusciva ad avere la meglio. Poiché era alto quasi quanto me, ci guardavamo negli occhi mentre lottavamo: i suoi occhi erano infossati e iniettati di sangue, e brillavano di una violenza selvaggia e stupefacente. Grugnivamo, barrivamo, ruggivamo. Io lo sfidai nella lingua di Uruk, nella lingua del popolo del deserto, e in tutte le altre lingue che riuscivo a ricordare. E Enkidu mormorava e gridava nella lingua degli animali, lanciando aspri ruggiti come i leoni delle pianure.

Desideravo ardentemente ucciderlo. Pregavo che mi fosse concesso spezzargli la schiena, sentire lo schiocco della sua spina dorsale che si rompeva, lanciarlo come una tunica vecchia tra le immondizie. L’odio che provavo mi dava le vertigini.

Dovete capire che nessuno mi si era mai opposto in quella maniera. Era come se una montagna fosse sorta nella notte per ostacolarmi il cammino. Che cosa avrei potuto sentire se non rabbia? Io che ero il Re, l’Eroe invincibile? Ma io non riuscivo a sconfiggerlo, e lui non riusciva a sconfiggere me. Non saprei dirvi per quanto tempo lottassimo e ci sforzassimo: ma la mia forza e la sua erano pari.

Ma io sono in parte divino, e Enkidu era solo mortale. Alla fine era inevitabile che avessi la meglio. Sentivo la mia forza durare, mentre la sua cominciava a venire meno. Infine piantai saldamente un piede a terra e piegai il ginocchio dell’altra gamba: in questo modo riuscii ad afferrarlo e a tirarlo, finché un piede gli scivolò e perse l’equilibrio.

In quel momento mi abbandonò ogni traccia di odio. Perché avrei dovuto odiarlo? Era splendido nella sua forza: era quasi mio pari. Così, come il fiume abbatte la diga, il mio amore per lui spazzò via tutta la mia rabbia. Era un amore così improvviso, così profondo, che mi travolse come i torrenti in piena della primavera e mi vinse completamente.

Mi rammentai del mio sogno: quella stella caduta dal cielo, che io non ero in grado di spostare. Nel sogno, avevo raccolto tutte le mie forze e con enorme fatica avevo sollevato la stella e l’avevo portata a mia madre, che mi aveva detto: «Questo è tuo fratello, questo è il tuo compagno.» Si. Non avevo mai conosciuto un uomo che fosse mio pari sotto tanti aspetti. Si adattava a me come se fossimo stati forgiati dallo stesso fabbro. In quel momento, mi sentii unito a lui, come se fossimo una sola carne in due corpi, a lungo divisa, ma ora finalmente riunita. Era questa la sensazione che avvertivo, mentre la mia forza veniva messa alla prova dalla sua. Era questo che ci era accaduto, mentre lottavamo.

Mi avvicinai ad Enkidu, lo alzai da terra e lo abbracciai una seconda volta, non per odio, ma per amore. Grandi singhiozzi mi scossero, e scossero anche Enkidu; perché entrambi capimmo nello stesso momento che cosa ci fosse capitato.

«Ah, Gilgamesh!», esclamò. «Non c’è nessun altro come te in tutto il mondo! Gloria alla madre che ti partorì!»

«C’è un altro come me,» dissi, «ma solo uno.»

«No, non c’è: perché Enlil e te ha dato il regno.»

«Ma tu sei mio fratello,» dissi.

Mi guardò con un’espressione confusa, come se fosse stato risvegliato all’improvviso dal sonno.

«Io sono venuto qui per farti male.»

«Anch’io lo desideravo. Quando ti ho visto bloccarmi la strada, ho desiderato spezzarti in due e gettare via le due metà come ossa rosicchiate.»

Enkidu scoppiò a ridere.

«Non ci saresti riuscito, Gilgamesh!»

«No. Non ci sarei riuscito. Ma avevo intenzione di tentare.»

«E io avevo l’intenzione di buttarti a terra. Ci sarei riuscito, se la fortuna fosse stata dalla mia parte.»

«Si,» dissi. «Penso che ci saresti riuscito. Tenta di nuovo, se ne hai voglia. Io sono pronto.»

«Enkidu scosse il capo.

«No. Se ti avessi buttato a terra, se ti avessi fatto del male, ti avrei perso. Sarei restato di nuovo solo. No, preferisco averti come amico che come nemico. Questa è la parola che volevo dire. Amico. Amico. Non è questa la parola?»

«Un amico, si. Siamo troppo simili per essere nemici.»

«Ah,» disse Enkidu, accigliandosi. «Siamo simili? Com’è possibile? Tu sei il Re, e io sono solo… io sono…» Gli mancarono le parole. «Un guardiano di pecore è tutto quello che sono.»

«No. Tu sei l’amico del Re. Il fratello del Re.»

Non avrei mai creduto che sarei riuscito a dire queste parole a qualcuno. Eppure sapevo che erano vere.

«È vero?», chiese. «Non lotteremo più, allora?»

Con una smorfia dissi: «È naturale che lotteremo! Ma lotteremo come lottano i fratelli. Eh, Enkidu?» E lo presi per mano. Avevo dimenticato le nozze, avevo dimenticato Ishara. «Vieni con me, Enkidu. Andiamo da mia madre, la Sacerdotessa di An. Voglio che conosca l’altro dei suoi figli. Vieni, Enkidu. Vieni subito!»

«E andammo al Tempio del Padre del Cielo, dove ci inginocchiammo nel buio davanti a Ninsun: fu molto strano e meraviglioso per entrambi. Avevo pensato che la solitudine mi avrebbe accompagnato per sempre, e invece ora se n’era andata, all’improvviso, era svanita come un ladro nella notte al momento dell’arrivo di Enkidu.

Era l’inizio di una grande amicizia, di cui non avevo mai conosciuto l’uguale, e che non conoscerò mai più. Era la mia metà, riempiva un posto in me che era stato sempre vuoto.

Si è mormorato che fossimo amanti, così come lo sono gli uomini e le donne. Non vorrei che voi lo credeste. Non era affatto così. So che ci sono certi uomini in cui gli Dei hanno mescolato virilità e femminilità, cosicché essi non hanno desiderio per le donne, ma io non sono uno di loro, né lo era Enkidu. Per me, l’unione con la donna è un’esperienza grande e sacra, che un uomo non può vivere con un altro uomo: dicono di viverla, quegli uomini, ma io penso che si ingannino. Non è la vera unione. Io ho avuto quell’unione, nel Matrimonio Sacro con la Sacerdotessa Inanna, in cui si incarna la Dea. Anche Inanna è una mia metà, sebbene sia una metà oscura e turbata. Ma un uomo può avere molte metà, almeno così credo, e può amare un altro uomo in una maniera che è completamente diversa da quella in cui ama una donna.

Quel genere d’amore che esiste tra uomo e uomo esisteva tra Enkidu e me. Nacque mentre lottavamo, e non svanì mai più. Non ne parlavamo mai l’uno con l’altro. Non avevamo bisogno di parlarne. Ma sapevamo che esisteva. Eravamo una sola anima in due corpi. Non avevamo bisogno di dare voce ai nostri pensieri, perché li intuivamo l’uno nell’altro. Eravamo complementari. C’è un Dio dentro di me, c’era la terra dentro di lui. Io sono sceso sulla terra dal cielo, Enkidu era salito sulla terra degli Inferi. Il nostro punto di incontro fu il mondo degli uomini mortali, che si trova tra gli altri due mondi.

Gli assegnai, nel palazzo, il grande appartamento dalle pareti bianche che affaccia a sudovest, prima riservato ai governatori e ai Re delle altre città in visita da Uruk. Gli fornii tuniche di finissimo legno bianco e di lana, gli diedi delle ancelle che lo lavassero e lo ungessero di olii, poi gli mandai i miei barbieri e i miei medici a raderlo e a liberarlo delle ultime tracce della sua precedente vita selvaggia. Svegliai in lui l’amore per la carni arrostite, per i vini dolci e forti e per la birra saporita e spumeggiante. Gli regalai pelli di leopardo e di leone perché adornasse il suo corpo e le sue stanze. Divisi con lui tutte le mie concubine, senza tenerne nemmeno una sola per me. Gli feci incidere uno scudo di bronzo con scene delle campagne militari di Lugalbanda. Gli diedi una spada che splendeva come l’occhio del sole, un elmetto rosso e dorato, riccamente ornato, e delle lance dal bilanciamento perfetto. Gli insegnai a guidare il carro e a lanciare il giavellotto.

Sebbene nel suo animo restasse sempre qualcosa di rude e di grossolano, ciò non di meno Enkidu assunse rapidamente l’aspetto esteriore e le maniere di un Nobile della Corte, dignitoso, raffinato, bello. Cercai perfino di insegnargli a leggere e a scrivere, ma si rifiutò di imparare. Ci sono molti grandi uomini della Corte, però, che non conoscono quest’arte, pochi che la posseggono.

Se qualcuno era geloso di lui, io non me ne accorsi mai. Forse c’era qualcuno del circolo più interno di eroi e guerrieri che diceva con amarezza alle nostre spalle: «Quel selvaggio è il favorito del Re. Perché è stato scelto lui, e non io?» Ma se lo facevano, nascondevano molto bene i loro cipigli e i loro borbottii.

Io preferisco pensare che non esistessero questi sentimenti di invidia. Enkidu non aveva rimpiazzato nessun favorito. Non avevo mai avuto un favorito, non lo erano nemmeno i miei vecchi compagni di scuola Bir-hurturre e Zabardi-bunugga. Non avevo mai permesso a nessuno di avvicinarsi tanto. Si accorsero subito che l’amicizia con Enkidu era completamente diversa da tutto quello che avevo vissuto con loro, proprio come la sua forza era completamente diversa dalla loro. Non c’era nessuno come lui in tutto il mondo, e non c’era niente come la nostra amicizia.

Gli diedi la confidenza più completa. Mi aprii a lui in ogni mio aspetto. Gli permisi perfino di guardarmi quando suonavo il tamburo, ricavato dal ramo dell’albero di huluppu, in quel modo particolare che mi faceva cadere in trance. Si accoccolava accanto a me mentre io scomparivo in quell’altro regno di luce blu; e, quando ne uscivo, mi ritrovavo con la testa appoggiata sulle sue ginocchia.

Mi fissava come se avesse visto il Dio uscire da me: mi toccava gli zigomi, e faceva il Segno Santo con la punta delle dita. «Mi puoi insegnare ad andare in quel luogo?», mi chiedeva. E io rispondevo: «Certamente, Enkidu,» ma non ci riusciva mai, quantunque tentasse. Penso che dipendesse dal fatto che Enkidu non era stato toccato interiormente dal Dio, come ero stato toccato io. Non aveva mai avvertito il frullare delle grandi ah nella sua anima, non aveva mai sentito il ronzio, non aveva mai visto l’aura crepitante: tutti segni che indicano che si è posseduti da un Dio. Ma spesso gli permettevo di starmi accanto mentre battevo il tamburo, e lui mi guardava rotolare lungo il pavimento e agitare le braccia e le mani nell’incanto dell’estasi.

Quando c’era del lavoro da fare, come la costruzione di canali, il rafforzamento delle mura, o qualsiasi altro lavoro gli Dei mi assegnassero, Enkidu era sempre al mio fianco. Durante i riti stava vicino a me, mi porgeva i vasi sacri, oppure alzava sull’altare i buoi e le pecore sacrificali con la stessa facilità con cui un altro avrebbe sollevato degli uccellini. Quando era la stagione della caccia, cacciavamo insieme, e in quest’attività mi era superiore, visto che conosceva gli animali selvaggi intimamente. Rovesciava il capo all’indietro, annusava l’aria e diceva, indicando: «In quella direzione c’è un leone. In quella c’è un elefante.» Non si sbagliava mai.

Andavamo spesso nelle paludi, nelle steppe, o negli altri luoghi in cui vivono gli animali selvaggi, e non ce ne scappava nemmeno uno. Insieme uccidemmo tre robusti elefanti nella grande ansa del fiume, portammo le pelli e le zanne ad Uruk e le appendemmo alla facciata del palazzo per mostrarle al popolo. Un’altra volta, Enkidu scavò una buca e la coprì con dei rami. In questo modo catturammo un elefante vivo e lo portammo in città, dove restò rinchiuso in un recinto a barrire e soffiare per tutto l’inverno finché non l’offrimmo ad Enlil. Cacciammo con il nostro carro le due specie di leoni, quelli con la criniera nera e quelli senza criniera. Enkidu, come me, lanciava i giavellotti con la stessa precisione sia con la mano destra che con la sinistra. Ve lo ripeto, eravamo due corpi e un’anima.

Enkidu era diverso da me, naturalmente, sotto molti aspetti. Rumoroso e chiassoso, soprattutto quando aveva bevuto troppo vino, aveva un senso dell’umorismo piuttosto insulso, e rideva fragorosamente di battute di spirito che avrebbero fatto arricciare il naso per il disgusto ad un bambino. In fin dei conti, era cresciuto tra gli animali. Aveva una dignità, una dignità naturale che non era quella di una persona cresciuta in un palazzo con un Re per padre.

Era un bene per me avere Enkidu accanto che rideva e faceva baccano, perché io sono troppo serio, e lui allietava le mie giornate, non come fa un giullare con buffonerie attentamente; studiate, ma in un modo naturale e disinvolto, come una folata di vento fresco e frizzante in un giorno afoso e soffocante.

Parlava con l’onestà più assoluta. Quando lo portai nel Tempio di Enmerkar, pensando che sarebbe stato sopraffatto dalla sua bellezza e dalla sua maestosità, disse all’improvviso: «È piccolo e brutto, non è vero?»

Non me lo aspettavo. Dopodiché, cominciai a vedere il grande Tempio di mio nonno attraverso gli occhi di Enkidu, e anche a me apparve piccolo, brutto, vecchio e bisognoso di urgenti riparazioni. Invece di ripararlo, lo distrussi e ne costruii uno nuovo e splendido, cinque volte più grande, sulla sommità della Piattaforma Bianca: è il Tempio che vi sorge ancora oggi e che farà durare la mia fama per migliaia d’anni a venire.

Ebbi qualche piccolo problema con la Sacerdotessa Inanna, quando abbattei il Tempio di Enmerkar. Le dissi che cosa avevo intenzione di fare: lei mi guardò come se avessi sputo sugli altari e disse: «Ma è il più grande di tutti i Templi!»

«Anche quello che sorgeva al suo posto, il Tempio di Mekiaggasher, era il Tempio più grande di tutti ai suoi tempi. Oggi nessuno lo ricorda. È nella natura dei Re sostituire i Templi con Templi più grandi. Enmerkar costruì bene, ma io costruirò meglio.»

Mi guardò con espressione torva e truce.

«E dove vivrà la Dea, mentre tu costruirai il tuo Tempio?»

«La Dea vive ovunque ad Uruk. Vivrà in ogni casa, in ogni strada e nell’aria che ci circonda, come ora.»

Inanna era furiosa. Convocò l’assemblea degli anziani e la Casa degli Uomini per dichiarare la propria protesta; ma nessuno poté impedirmi di costruire il Tempio. È prerogativa del Re accrescere la grandezza della Dea offrendole dei Templi.

Così abbattemmo il Tempio di Enmerkar, fino alle fondamenta, benché lasciassimo intatte quelle antiche gallerie sotterranee, abitate dai Demoni, che si trovavano al di sotto: non volevo avere a che fare con quelle creature. Feci arrivare blocchi di pietra calcarea dalla regione delle pietre calcaree perché servissero da fondamenta al mio Tempio, e le gettai ad una profondità e con un’ampiezza che nessuno aveva mai immaginato prima di allora. I cittadini trattennero il fiato per la sorpresa quando vennero a vedere le nuove fondamenta e compresero la lunghezza e l’ampiezza della costruzione che avevo intenzione di erigere.

Nella costruzione del nuovo Tempio feci uso di tutto quello che aveva appreso. Elevai l’altezza della Piattaforma Bianca finché non arrivò quasi al cielo, e feci costruire il mio Tempio sulla sua sommità, come i Templi di Kish. Eressi delle mura di uno spessore che nessuno aveva mai immaginato fino ad allora, e le feci sostenere da colonne immense, robuste quanto le gambe degli Dei.

Per adornare le pareti e le colonne, inventai un nuovo ornamento, così bello che potrei essere ricordato solo per quello, anche se tutte le mie altre opere fossero dimenticate. Consisteva nel premere migliaia di coni di terracotta dalla lunga punta, nel’intonaco di fango che copriva le pareti e le colonne, prima che questo si fosse indurito. Solo le punte di questi coni restavano visibili, e venivano dipinte di rosso, di giallo o di nero, e messe l’una sull’altra in modo da formare vertiginosi disegni colorati in diagonale, in zigzag, in losanghe e in triangoli. Il risultato è che, dovunque l’occhio si posi all’interno del mio Tempio, è deliziato dalla sua vivacità e complessità: sembra di vedere un vasto arazzo, intessuto non di lane colorate ma con un numero infinito di piccoli elementi di argilla colorata.

Enkidu pensava che anche il piccolo santuario di Lugalbanda, che Dumuzi aveva eretto anni prima accanto alle caserme nel Quartiere del Leone, non fosse degno di mio padre. Fui d’accordo: abbattei il piccolo santuario e ne costruii uno molto più adeguato, con archi e pilastri di grandi dimensioni, tutti coperti delle mie decorazioni a forma di cono, dipinte di colori vivaci.

Al centro dell’edificio, posi la vecchia statua di Lugalbanda che Dumuzi aveva fatto scolpire in pietra nera, perché era un ritratto veramente nobile, e non avrei mai messo da parte a cuor leggero un oggetto fatto di un materiale raro come la pietra nera. Ma circondai la statua di torce montate su treppiedi e poste davanti a specchi di rame lucente, cosicché una luce abbagliante riempiva il Tempio in ogni momento. Dipingemmo su tutte le pareti leopardi e tori, in segno di omaggio a Enlil delle Tempeste, che Lugalbanda amava. Durante la cerimonia di inaugurazione, versai il sangue di leoni e di elefanti sulle mattonelle del Tempio. Qualcuno oserebbe dire che Lugalbanda meritasse di meno?

Non ci furono guerre in quegli anni. Gli Elamiti erano tranquilli, i martu del deserto andavano altrove per le loro scorrerie, la caduta della casata di Agga di Kish aveva eliminato una minaccia potente dai nostri confini settentrionali. Che il Re di Ur si fosse nominato Re di Kish, non mi turbava; Ur e Kish sono molto lontane, e non vedevo in che modo potesse unire il potere delle due città contro di noi. Perciò vivevamo una vita calma ad Uruk, ci arricchivamo nella pace, e accrescevamo i nostri beni con i commerci invece di andare in cerca di bottoni di guerra.

In quegli anni, dietro mia richiesta, i mercanti e gli emissari di Uruk andarono ovunque, per accrescere lo splendore della città. Dalle montagne orientali portarono tronchi di legno di cedro lunghi cinquanta e anche sessanta cubiti, e ceppi di legno di urkarinnu della lunghezza di venticinque cubiti, che usammo per fare le travi nel nuovo Tempio. Dalla città di Ursu, sulla montagna di Ibla, presero legno di zabalu, grandi tronchi di legno di ashukhu, e legname di platano. Da limami, una montagna della regione di Menua, e da Basalla, una montagna della regione di Armimi, i miei invitati tornarono con grandi blocchi della rara Pietra Nera, nella quale gli artigiani scolpirono nuove statue degli Dei per tutti i Templi più vecchi.

Importai rame da Kagalad, una montagna della regione di Kimash, e con le mie mani ne ricavai una grande testa per una mazzuola. Da Gubin, la montagna degli alberi di huluppu, portai legno di huluppu e da Magda venne l’asfalto da usare per la piattaforma del Tempio. Dalla montagna di Barshib presi blocchi della sontuosa pietra nalua e li portai in nave fino ad Uruk. Progettai di mandare spedizioni ancora più lontano: a Magan, a Meluhha, a Dilmun.

La città prosperava, e ogni giorno il suo splendore si accresceva. Presi una moglie, e lei mi diede un figlio, poi presi una seconda moglie, come era mio diritto. C’era la pace. La notte dell’anno nuovo andavo al Tempio che avevo costruito, e giacevo con l’ardente Inanna nel rito del Matrimonio Sacro: ogni anno mi stringeva a sé con più violenza, e il suo corpo si muoveva con più abbandono, quando in una sola notte soddisfaceva i desideri di un anno intero.

Avevo l’amore di Enkidu a sostenermi quotidianamente. Il vino scorreva abbondante, il fumo della carne arrostita si innalzava tutti i giorni verso il cielo, in offerta agli Dei, e tutto andava bene. Pensavo che il mio regno sarebbe andato avanti in questo modo per sempre. Ma gli Dei non concedono una simile pace per sempre: è già un miracolo quando la concedono.

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