Una figura familiare sbucò dal chiarore diffuso attorno ad una bancarella di anguille in gelatina, tenendo in mano un piatto di lumache di mare.

«L’ACETO È PIUTTOSTO ASPRO, SERVITI PURE, HO UN ALTRO SPILLO.»

Ma, ovviamente, soltanto perchè si trovava a quaranta miglia di distanza questo non significava che non poteva essere contemporaneamente lì…

Intanto nella sua sporca stanza Bentagliato si girava fra le dita in continuazione la moneta d’oro, bofonchiando "pareti" fra sé e sé e scolandosi la bottiglia.

Sembrò notare quello che stava facendo soltanto quando non rimase più niente da bere: a quel punto i suoi occhi si focalizzarono sulla bottiglia e, attraverso una crescente foschia rosa, lesse l’etichetta che diceva: "Filtro della Passione e di Rinvigorimento Colpo d’Ariete di Nonnina Weatherwax: Un Cucchiaio Solo prima di andare a letto e basta".


«Da solo?» domandò Morty.

«CERTAMENTE, NUTRO IN TE UNA COMPLETA FIDUCIA.»

«Caspita!»

Quell’idea riuscì ad eliminare tutto il resto dalla mente di Morty ed egli restò sorpreso di scoprire di non sentirsi disgustato. Aveva assistito a un notevole numero di decessi durante l’ultima settimana o giù di lì, e tutto il lato ripugnante di essi spariva quando si sapeva di essere in grado di chiacchierare successivamente con le vittime. La maggior parte di esse si sentivano sollevate, una o due infuriate, ma erano tutte riconoscenti di un paio di parole di conforto.

«PENSI DI RIUSCIRE A FARCELA?»

«Be’, signora. Sì. Almeno credo.»

«QUESTO È LO SPIRITO GIUSTO, HO LASCIATO BINKY ALL’ABBEVERATOIO DIETRO L’ANGOLO. PORTALO DIRETTAMENTE A CASA QUANDO HAI TERMINATO.»

«Lei rimarrà qui, signora?»

La Morte guardò la strada in su e in giù. Le sue orbite vuote balenarono.

«PENSAVO CHE AVREI POTUTO FARMI UNA PASSEGGIATINA» disse con aria misteriosa. «NON MI SENTO PERFETTAMENTE A POSTO. PENSO CHE UN PO’ D’ARIA FRESCA POTREBBE FARMI BENE.» Sembrò ricordarsi di qualcosa, infilò una mano all’interno delle misteriose ombre del suo mantello e tirò fuori tre clessidre.

«UNA DOPO L’ALTRA» disse. «DIVERTITI.»

Si voltò e incedette impettita lungo la strada, canticchiando fra sé.

«Ehm. Grazie» disse Morty. Sollevò le clessidre alla luce notando quella che conteneva gli ultimissimi granelli di sabbia.

«Significa forse che sono in servizio?» gridò, ma la Morte aveva già svoltato l’angolo.

Binky lo salutò con un debole nitrito mostrando di averlo riconosciuto. Morty montò in sella, col cuore che gli batteva forte per l’apprensione e per la responsabilità. Le sue dita agirono in maniera automatica: tirò fuori la falce dal fodero la aggiustò nella mano e fissò la lama (che balenò con un riverbero azzurrognolo sull’acciaio, fendendo la luce delle stelle come fosse un salammo). Cavalcava con grande attenzione, contraendosi per le fitte provocategli dalle piaghe da sella, ma viaggiare con Binky era come stare su un cuscino. Soprappensiero, ubriaco per l’autorità conferitagli, estrasse il mantello, che la Morte usava per cavalcare, dalla sacca della sella e se lo agganciò con la sua spilla d’argento.

Gettò un’altra occhiata alla prima clessidra e incitò Binky con le gambe. Il cavallo annusò l’aria fredda e cominciò a trottare.

Dietro di loro, Bentagliato uscì fuori a precipizio dalla porta, accelerando lungo la strada ricoperta di ghiaccio con i vestiti che gli svolazzavano alle spalle.

Adesso il cavallo procedeva al piccolo galoppo, allungando la distanza fra i suoi zoccoli e l’acciottolato. Con una frustata della coda spazzolò i tetti delle case e si mise a fluttuare nel cielo gelido.

Bentagliato lo ignorò. Aveva cose ben più urgenti in testa. Fece un balzo al volo e atterrò lungo disteso nell’acqua quasi congelata dell’abbeveratoio, giacendo contento fra le schegge di ghiaccio che salivano a galla. Dopo qualche momento l’acqua cominciò a emettere vapore.

Morty si tenne basso sulla sella per la pura allegria che gli provocava la velocità. La campagna dormiente rombava priva di suono sotto di lui. Binky procedeva a un galoppo leggero, coi possenti muscoli che gli si contraevano sotto la pelle, con la stessa facilità con cui gli alligatori escono dai banchi di sabbia, mentre la sua criniera frustava il volto di Morty. La notte turbinava via passando sulla lama in accelerazione della falce, divisa in due metà che si arricciavano.

Si affrettavano, sotto il chiaro di luna silenti quanto ombre, visibili soltanto ai gatti e alle persone che si occupavano delle cose di cui gli uomini non sono tenuti a sapere nulla.

Morty non riuscì a ricordarsene in seguito, ma molto probabilmente si mise a ridere.

Dopo poco le pianure coperte di brina cedettero il posto ai terreni disuguali attorno alle montagne e poi i ranghi avanzanti delle stesse montagne Ramptop sfrecciarono attraverso il mondo verso di loro. Binky abbassò la testa e allungò il passo puntando verso un passaggio fra due montagne aguzze quanto i denti dei folletti maligni nella luce argentata. Da qualche parte un lupo di mise a ululare.

Morty gettò un’altra occhiata alla clessidra. La sua parte esterna aveva incisioni raffiguranti foglie di quercia e radici di mandragola e la sabbia che vi si trovava all’interno, anche al chiarore della luna, era di color oro pallido. Girando la clessidra a destra e a sinistra, riuscì appena appena a leggere il nome "Hammeline Hamstring" inciso con linee estremamente delicate.

Binky rallentò fino al trotto. Morty abbassò lo sguardo sulla cima di una foresta, caratterizzata da una spolveratina di neve che era o molto precoce o molto, molto tardiva: sarebbe potuta essere sia l’una sia l’altra cosa, visto che le montagne Ramtop ammassavano i propri fenomeni atmosferici e li ridistribuivano senza alcun riferimento preciso alle stagioni dell’anno.

Si aprì un varco sotto dì loro. Binky rallentò nuovamente, scese seguendo una rotta a spirale e si abbassò su una radura, bianca per la neve che si era ammucchiata. Era circolare, e vi era una casetta sistemata esattamente al centro. Se il terreno tutto attorno non fosse stato coperto di neve, Morty avrebbe potuto notare che non c’erano ceppi visibili: gli alberi non erano stati tagliati in quella radura, erano stati semplicemente scoraggiati dal crescere lì. Oppure se ne erano andati di propria spontanea volontà.

La luce di una candela filtrava da una delle finestre al piano di sotto, proiettando una pallida chiazza arancione sulla neve.

Binky atterrò con grande delicatezza e trottò attraverso la superficie gelata senza affondarvi. Non lasciò, ovviamente, impronte.

Morty scese da cavallo e si incamminò verso la porta, bofonchiando qualcosa fra sé e menando colpi con la falce in maniera sperimentale.

Il tetto della casupola era stato costruito con larghi spioventi, in modo da lasciar scivolare la neve e tenere al coperto la scorta di legna. Nessun abitante delle montagne Ramtop si sarebbe nemmeno sognato di cominciare un inverno senza avere scorte di legna ammassate sui tre lati della casa. Tuttavia qui non si trovava nemmeno un ciocco di legna, anche se la primavera era ancora parecchio distante.

C’era, invece, una fascina di fieno in una reticella presso la porta. Aveva una nota attaccata di fianco, scritta in grandi maiuscole leggermente tremolanti: PER IL CAVALLO.

La cosa avrebbe preoccupato Morty, se lui glielo avesse permesso. Qualcuno lo stava aspettando. Il ragazzo aveva tuttavia imparato recentemente che era molto meglio, piuttosto che affogare nell’incertezza, cercare di veleggiare sulla sua cresta. In ogni caso, Binky non si sentì preso da scrupoli di tipo morale e si mise direttamente a mangiare.

Questo lasciava però immutato il problema se bussare o no. Morty non sapeva perché, ma non gli sembrava una cosa appropriata. Se non avesse risposto nessuno, oppure se qualcuno gli avesse gridato di andarsene?

Sollevò quindi il catenaccio e spinse la porta. Essa si aprì verso l’interno con una certa facilità, senza scricchiolare.

C’era una cucina dal basso soffitto, con le travi a una altezza adatta perché Morty ci sbattesse la testa. La luce di una singola candela riluceva sulle terrecotte che si trovavano su un lungo ripiano e sul pavimento in pietra che era stato lucidato fino a raggiungere una brillantezza iridescente. Il fuoco nel cantuccio del focolare simile ad una caverna non aggiungeva molta luce, in quanto non c’era dentro più di un mucchietto di cenere bianca sotto i resti di un ciocco di legno. Morty sapeva, senza che nessuno glielo avesse detto, che si trattava dell’ultimo pezzo.

Una donna anziana era seduta al tavolo della cucina e scriveva a gran velocità con il naso ricurvo tenuto soltanto a pochi centimetri dalla carta. C’era un gatto grigio accoccolato sul tavolo accanto a lei che ammiccò a Morty con grande calma.

La falce fendette in due una trave. La donna sollevò lo sguardo.

«Sarò da te fra un minuto» disse. Guardò accigliata la carta. «Non ho inserito il pezzo riguardante il fatto che sono ancora sana di mente e di corpo, e comunque è soltanto una stupidata: nessuno sano di corpo e di mente morirebbe. Gradisci qualcosa da bere?»

«Prego?» disse Morty. Si ricompose, quindi, e ripeté: «PREGO?»

«Se vuoi bere qualcosa, tutto qui. C’è del porto di lampone. Sulla credenza. Puoi anche finire la bottiglia.»

Morty gettò alla credenza un’occhiata sospettosa. Aveva l’impressione di avere perduto l’iniziativa. Tirò fuori la clessidra e la fissò. C’era ancora qualche granello di sabbia.

«Mancano ancora pochi minuti» disse la strega, senza sollevare lo sguardo.

«Come, cioè, COME FAI A SAPERLO?»

Lei lo ignorò e asciugò l’inchiostro di fronte alla candela, sigillò la busta con una goccia di cera e la infilò sotto il candeliere. Quindi prese in braccio il gatto.

«La nonna Beedle verrà immediatamente domani mattina a ripulire e tu andrai con lei, capito? E controlla che dia a Gammer Nutley il lavandino di marmo rosa, ci ha messo gli occhi sopra da anni ed anni.»

Il gatto sbadigliò con l’aria di chi la sa lunga.

«Non ho, cioè NON HO TUTTA LA NOTTE A DISPOSIZIONE, SAI» disse Morty in tono di rimprovero.

«Tu sì, io no, e non c’è alcun bisogno di gridare» disse la strega. Scivolò giù dal suo sgabello e allora Morty notò quanto fosse incurvata, come un arco. Con qualche difficoltà la donna tolse un alto cappello a punta da un chiodo sulla parete, se lo fissò sui capelli bianchi con una batteria di spilloni per cappelli e afferrò le sue grucce per camminare.

Avanzò barcollando verso Morty, sollevò lo sguardo per fissarlo in volto con occhi piccoli e brillanti quanto ribes neri.

«Avrò bisogno dello scialle? Pensi che avrò bisogno dello scialle? No, suppongo di no. Immagino che sia piuttosto caldo nel posto in cui sto andando.» Osservò Morty più da vicino e corrugò la fronte.

«Sei decisamente più giovane di quanto non mi aspettassi» disse. Morty non commentò. Poi Goodie Hamstring aggiunse, pacatamente: «Sai, non penso proprio che tu sia quello che stavo aspettando io.»

Morty si schiarì la gola.

«Chi stavi aspettando, precisamente?» chiese.v

«La Morte» disse la strega con semplicità. «È parte dell’accordo, sai. Uno può sapere il momento della propria morte in anticipo e gli viene garantita una… attenzione personale.»

«Sono io» disse Morty.

«Sono, cosa?»

«L’attenzione personale. Lei ha mandato me. Io lavoro per lei. Nessun altro avrebbe avuto me.» Morty smise di parlare. Stava andando tutto storto. Sarebbe stato rispedito a casa in disgrazia. Era la prima briciola di responsabilità che gli veniva affidata, e lui aveva rovinato tutto. Poteva già sentire la gente che gli rideva dietro.

Il lamento gli iniziò giù nelle profondità del suo imbarazzo e scoppiò come una sirena antinebbia. «Il fatto è che questo è il mio primo vero lavoro e io sto sbagliando tutto!»

La falce cadde a terra provocando un gran fracasso, fettando via una gamba del tavolino e dividendo in due parti una lastra del pavimento.

Goodie lo osservò per qualche istante, tenendo la testa piegata da una parte. Poi disse: «Ho capito. Come ti chiami, giovanotto?»

«Morty» disse lui tirando su col naso. «È il diminutivo di Mortimer.»

«Benissimo, Morty, ritengo che tu abbia una clessidra da qualche parte sulla tua persona.»

Morty annuì debolmente. Allungò una mano alla cintura e tirò fuori la clessidra. La strega la osservò con espressione critica.

«Ancora un minuto, più o meno» disse. «Non abbiamo molto tempo da perdere. Lasciami soltanto un momento per chiudere a chiave.»

«Ma tu non capisci!» piagnucolò Morty. «Ho fatto un gran casino! Non avevo mai fatto una cosa del genere prima di adesso!»

Lei gli diede un colpetto su una mano. «Nemmeno io» rispose lei. «Possiamo imparare insieme. Adesso, raccogli la falce e cerca di non fare il bambino, che sei un bravo ragazzo!»

Nonostante le proteste di lui la donna lo spinse fuori, nella neve, e lo seguì, chiudendo la porta e facendo scattare la serratura con una pesante chiave di ferro che appese poi ad un chiodo che si trovava accanto alla porta.

Il gelo aveva stretto la sua morsa sulla foresta, serrandola tanto che le radici si misero a scricchiolare. La luna stava calando, ma il cielo era ancora pieno di stelle bianche che facevano sembrare l’inverno anche più freddo. Goodie Hamstring rabbrividì.

«C’è un veccho tronco laggiù» disse in tono amichevole. «Vi si gode una vista piuttosto bella sulla vallata. Ovviamente in estate. Mi piacerebbe mettermi seduta.»

Morty la aiutò a superare i cumuli di neve e ne spazzò via il più possibile dal tronco di legno. Si sedettero con la clessidra fra di loro. Qualunque potesse essere la vista in estate, essa consisteva ora soltanto in rocce nude contro un cielo dal quale stavano ora scendendo piccoli fiocchi di neve.

«Non ci posso credere» disse Morty. «Mi sembra quasi che tu desideri morire.»

«Ci sono alcune cose che mi mancheranno» rispose lei. «Ma diventano sempre meno, sai. Mi sto riferendo alla vita. Non puoi più fare affidamento sul tuo corpo e allora è tempo per trasferirsi. Conto sul fatto che sia arrivato il momento per provare qualche cosa di diverso. Lei ti ha detto che la gente che si occupa di magia può vederla sempre?»

«No» disse Morty in modo vago.

«Ebbene, possiamo.»

«A lei non piacciono molto le streghe e i maghi» disse Morty senza essere stato interpellato.

«A nessuno piacciono gli smargiassi» affermò lei con una sfumatura di soddisfazione. «Le creiamo dei problemi, vedi. I preti invece no, è per questo che le piacciono.»

«Non me lo ha mai detto» disse Morty.

«Eh, già. Quelli non fanno altro che dire alle persone quanto si stia meglio quando si è morti. Noi invece diciamo che possono stare piuttosto bene anche qui se si impegnano un po’.»

Morty esitò. Voleva dirle: "Hai torto, lei non è affatto così, non gliene importa nulla se la gente è buona o cattiva, basta che sia puntuale." "È gentile coi gatti" aggiunse fra sé.

Però pensò fosse meglio non farlo. Gli venne in mente che le persone hanno bisogno di credere alle cose.

Il lupo ululò di nuovo, così vicino che Morty si guardò attorno con una certa apprensione. Un altro, dall’altra parte della vallata, gli rispose. Il coro venne alimentato da alcuni altri membri che si fecero sentire dal profondo della foresta. Morty non aveva mai sentito nulla di altrettanto dolente.

Gettò un’occhiata in tralice alla figura immobile di Goodie Hamstring e poi, con panico crescente, alla clessidra. Balzò in piedi, afferrò la falce e la fece passare attraverso di lei brandendola a due mani.

La strega si alzò, lasciandosi alle spalle il proprio corpo.

«Ben fatto» disse lei. «Pensavo che tu mi avresti mancato, per un minuto.»

Morty si appoggiò contro un albero, ansimando profondamente e guardando Goodie camminare attorno al ceppo per osservare se stessa.

«Uhmm» disse lei con atteggiamento critico. «Il tempo ha parecchie cose di cui rispondere.» Sollevò una mano e si mise a ridere vedendoci le stelle attraverso.

Quindi si trasformò. Morty l’aveva visto succedere in precedenza, quando l’anima si rendeva conto di non essere più legata al campo morfico del corpo, ma mai con tale sicurezza. I capelli della donna si slegarono dalla stretta crocchia cambiando colore ed allungandosi. Il suo corpo si raddrizzò. Le rughe si spianarono e scomparvero. Il suo vestito grigio di lana si mosse come la superfìcie del mare e finì col sottolineare delle forme completamente differenti e conturbanti.

Lei abbassò lo sguardo, emise una risatina soffocata e mutò il vestito in qualcosa di aderente e dal color verde foglia.

«Che ne pensi, Morty?» chiese. La sua voce era stata rotta e tremolante, prima. Adesso ricordava il muschio, lo sciroppo di melassa e altre cose che mandarono il pomo d’adamo di Morty su e giù come una pallina di gomma appesa ad un elastico.

«…» fu tutto quel che riuscì a dire e strinse forte la falce fra le mani finché le nocche non gli divennero esangui.

Lei gli si avvicinò come un serpente che procede in quarta.

«Non ho sentito» disse, come se stesse facendo le fusa.

«M-m-m-molto graziosa» disse lui. «È così che… che eri?»

«È come sono sempre stata.»

«Oh» disse Morty fissandosi i piedi. «Io adesso dovrei portarti via» aggiunse.

«Lo so» rispose lei «ma io rimarrò qui!»

«Non puoi farlo! Voglio dire…» lui cercò disperatamente le parole adatte… «vedi, se resterai qui ti disperderai diventando sempre più sottile, finché…»

«Penso che mi piacerà» disse lei fermamente. Si chinò in avanti e gli dette un bacio privo di sostanza quanto un sospiro di effimera, dissolvendosi mentre così faceva, finché non rimase soltanto il bacio, proprio come successe al gatto Cheshire, soltanto in modo ben più erotico.

«Riguardati, Morty» disse la voce di lei nel suo cervello. «Potresti anche voler mantenere il tuo lavoro, ma sarai mai in grado di lasciarlo?»

Morty rimase in piedi lì, come un idiota, tenendosi la guancia. Gli alberi attorno alla radura tremarono per un istante, si udì il suono di una risata nella brezza e poi il silenzio si ricompose, glaciale.

Il dovere lo richiamò attraverso le foschie rosa della sua mente. Afferrò la seconda clessidra e la guardò con attenzione. La sabbia era quasi completamente esaurita.

Lo stesso vetro era decorato con petali di loto. Quando Morty lo colpì leggermente col dito esso emise una specie di "ommm".

Morty corse attraverso la neve scricchiolante verso Binky e montò in sella con un balzo. Il cavallo sollevò la testa, indietreggiò e si lanciò verso le stelle.


Giganti correnti silenziose di fiamme verdi e azzurre pendevano dal tetto del mondo. Veli di bagliore color ottarino danzavano lentamente e maestosamente sopra il Disco mentre il fuoco dell’Aurora Corioli, l’immensa discarica di magia del campo permanente del Disco, atterrava sulle verdi montagne ghiacciate del Centro.

La cuspide centrale del Cori Celesti, dimora degli dei, era una colonna alta dieci miglia di fuoco ghiacciato lampeggiante.

Era una visuale osservata soltanto da pochi uomini e Morty non era uno di quelli, visto che stava appoggiato al collo di Binky, aggrappandosi per non cadere mentre avanzavano attraverso il cielo notturno alla testa di una coda di cometa di vapore.

C’erano anche altre montagne ammassate attorno al Cori. Al confronto, esse non sembravano nulla di più di termitai, sebbene in realtà ognuna di esse possedesse un maestoso assortimento di colli, crinali, pareti, dirupi, pendii sassosi e ghiacciai che qualsiasi normale catena montuosa avrebbe gradito poter rivendicare come proprio.

Tra le più alte di esse, ad una estremità di una vallata a forma di imbuto, abitavano gli Ascoltatori.

Si trattava di una delle sette religiose più antiche del Disco, sebbene anche gli stessi dei fossero divisi rispetto al fatto che gli Ascoltatori rappresentassero una religione vera e propria. Tutto questo aveva evitato che il loro tempio venisse spazzato via da un paio di valanghe ben indirizzate, visto che anche gli dei erano curiosi di sapere che cosa gli Ascoltatori potessero Sentire. Se esiste una cosa che infastidisce davvero un dio è di non sapere qualche cosa.

A Morty occorsero parecchi minuti per arrivarvi. Una fila di puntini potrebbe riempire comodamente il tempo, ma il lettore starà già notando la strana forma del tempio… arrotolato come una gigantesca ammonite bianca al fondo della vallata… e desidererà, probabilmente, qualche spiegazione.

Il fatto è che gli Ascoltatori stanno cercando di scoprire che cosa ha detto precisamente il Creatore quando ha creato l’universo.

La teoria è alquanto semplice.

È ovvio che nulla di quello che ha fatto il Creatore può mai venire distrutto, il che significa che la eco di quelle prime sillabe deve essere ancora in giro da qualche parte, balzando e rimbalzando contro tutta la materia del cosmo ma ancora udibile per un ascoltatore veramente bravo.

In epoche remote, gli Ascoltatori avevano scoperto che il ghiaccio e il caso avevano scavato questa vallata rendendola un perfetto opposto acustico di una vallata che produce una eco e vi avevano costruito il loro tempio a più camere nella esatta posizione che occupa una poltrona nella casa di uno sfegatato fanatico di Hi-fi. Deflettori complessi intrappolavano e amplificavano il suono che veniva incanalato su per la valle gelata, veicolandolo verso l’interno nella camera centrale in cui, a ogni ora del giorno e della notte, erano sempre seduti tre monaci svegli.

In ascolto.

C’erano però alcuni problemi causati dal fatto che essi non udivano soltanto le flebili eco delle prime parole, ma anche ogni altro suono prodotto sul Disco. Per estrapolare il suono delle Parole, dovevano imparare a riconoscere tutti gli altri rumori. Questo richiedeva un certo talento e un novizio veniva accettato per l’addestramento soltanto se era in grado di distinguere, a giudicare solo dal suono, su quale faccia era caduta una moneta alla distanza di un chilometro. Non era però accolto all’interno dell’ordine finché non avesse saputo anche dire di che colore essa fosse.

Sebbene i Santi Ascoltatori fossero così isolati, molte persone avevano intrapreso il pericolosissimo e lunghissimo cammino che arrivava al loro tempio, viaggiando attraverso territori ghiacciati, infestati dai troll, guadando rapidi e gelidi fiumi, arrampicandosi su montagne proibitive, scarpinando per la tundra inospitale per riuscire a salire la stretta scalinata che conduceva nella vallata nascosta e cercare con cuore aperto i segreti dell’essere.

E i monaci gridavano loro dietro: «Abbassate quel maledetto volume!»

Binky arrivò attraverso le cime delle montagne come una foschia bianca, toccando terra nel vuoto nevoso di un cortile reso spettrale dalla luce del Disco proveniente dal cielo. Morty balzò giù dalla sua groppa e corse attraverso i chiostri silenti fino alla stanza in cui l’ottantottenne abate giaceva morente, circondato dai suoi devoti seguaci.

I passi di Morty rimbombavano mentre lui si affrettava attraverso il pavimento dal complesso disegno a mosaico. I monaci stessi indossavano sovrascarpe di lana.

Raggiunse il letto e si fermò un istante, aggrappandosi alla falce per riprendere fiato.

L’abate, che era piccolo, completamente calvo e aveva più rughe di un sacchetto pieno di prugne secche, aprì gli occhi.

«Sei in ritardo» sussurrò, poi morì.

Morty deglutì, ansimò e lo fendette con la falce con un lento movimento ad arco. Nonostante tutto fu piuttosto preciso: l’abate si sedette, lasciando la salma dietro di sé.

«Nemmeno un minuto di anticipo» disse con una voce che soltanto Morty poteva udire. «Mi sono spaventato per un istante.»

«Tutto a posto?» chiese Morty. «Adesso però devo scappare…»

L’abate balzò giù dal letto e si incamminò verso Morty passando attraverso i ranghi dei suoi seguaci dolenti.

«Non scappar via» disse. «Aspetto sempre con ansia queste chiacchierate. Che è successo alla solita tipa?»

«Solita tipa?» chiese Morty sconcertato.

«Alta. Mantello nero. Non le danno abbastanza da mangiare, a giudicare dall’aspetto» disse l’abate.

«Solita tipa? Vuoi dire la Morte» disse ancora Morty.

«Esattamente lei» rispose allegramente l’abate. Morty restò a bocca aperta.

«Sei morto un sacco di volte, eh?» riuscì a dire Morty.

«Abbastanza. Abbastanza. Ovviamente» rispose l’abate «una volta che hai capito come si fa è solo una questione di pratica.»

«Davvero?»

«Dobbiamo andare» disse l’abate. La bocca di Morty si richiuse di scatto.

«È esattamente quello che stavo cercando di dire» disse.

«Se soltanto mi potessi lasciare giù nella vallata» continuò a dire placidamente il piccolo monaco. Superò impettito Morty e si diresse verso il cortile. Morty fissò per un attimo il pavimento e poi gli corse dietro in una maniera che sapeva essere estremamente poco professionale e dignitosa.

«Adesso stammi a sentire…» cominciò a dire.

«Ricordo che quell’altra aveva un cavallo che si chiamava Binky» disse con gentilezza l’abate. «Hai rilevato il suo esercizio?»

«Esercizio?» domandò Morty, ora completamente perduto.

«O qualsiasi cosa fosse. Scusami» disse l’abate «non so con esattezza come sono organizzate queste cose, ragazzo.»

«Morty» disse Morty con espressione assente. «E penso che tu sia tenuto a tornare indietro con me. Se non ti dispiace» aggiunse, in quello che sperava fosse un atteggiamento autoritario e deciso. Il monaco si voltò e gli sorrise con delicatezza.

«Mi piacerebbe proprio potere» disse. «Forse un giorno. Ora, se mi potessi dare un passaggio fino al villaggio più vicino, suppongo che mi si stia per concepire più o meno adesso.»

«Concepire? Ma se sei appena morto!» disse Morty.

«Sì, però, vedi, ho quello che tu potresti definire un abbonamento stagionale» spiegò l’abate.

Morty cominciò a vederci chiaro anche se molto lentamente.

«Oh» disse «ho sentito parlare di una cosa del genere. Reincarnazione, eh?»

«Quella è la parola. Fino a ora cinquantatré volte. Oppure cinquantaquattro.»

Binky sollevò lo sguardo mentre i due si avvicinavano e, quando l’abate gli accarezzò il muso, fece un breve cenno col capo dimostrando di averlo riconosciuto. Morty balzò in sella e aiutò a salire anche l’abate dietro di sé.

«Deve essere molto interessante» disse mentre Binky si sollevava allontanandosi dal tempio. Nella scala assoluta dei luoghi comuni questo commento doveva inoltrarsi di parecchio all’interno dei numeri negativi, ma Morty non riusciva a pensare a nulla di meglio da dire.

«No, non deve necessariamente esserlo» replicò l’abate. «Tu pensi che debba esserlo in quanto credi che io possa ricordare tutte le mie vite, ma ovviamente non posso. Non mentre sono vivo, almeno.»

«A questo non avevo pensato» ammise Morty.

«Immagina di dovere imparare cinquanta volta come si va al gabinetto.»

«Niente da rimpiangere, ritengo» disse Morty.

«Hai ragione. Se potessi ricominciare da capo non mi reincarnerei. Oltretutto proprio quando comincio a capire come stanno le cose, quei giovanotti arrivano giù dal tempio cercando un ragazzino concepito nell’ora in cui è morto il vecchio abate. Si può essere meno fantasiosi di così? Fermati qui un momento, per favore.»

Morty abbassò lo sguardo.

«Siamo a mezz’aria» disse dubbioso.

«Non ti tratterrò nemmeno un minuto.» L’abate scivolò giù dalla groppa di Binky, fece qualche passo nell’aria rarefatta ed emise un clamoroso urlo.

Il grido sembrò proseguire per parecchio tempo. L’abate risalì in sella.

«Non ti puoi nemmeno immaginare da quanto tempo non vedevo l’ora di farlo» disse.

C’era un villaggio in una vallata più bassa a qualche chilometro di distanza dal tempio, che veniva usato come una specie di industria di servizio. All’aspetto sembrava essere composto da casette sparse a casaccio, piccole ma isolate acusticamente in modo perfetto.

«Va bene qualsiasi posto» disse l’abate. Morty lo lasciò pochi passi al di sopra della neve in un punto in cui le casette sembravano essere più fitte.

«Spero che la tua prossima vita sia un po’ migliore» disse.

L’abate alzò le spalle.

«Si può sempre sperare» rispose. «Adesso avrò comunque una pausa di nove mesi. La vista non è un gran che, ma almeno si sta al caldo.»

«Addio, allora» disse Morty «devo correr via.»

«Au revoir» rispose l’abate tristemente e si voltò.

I fuochi delle Luci del Centro stavano ancora gettando la loro illuminazione tremolante attraverso il paesaggio. Morty sospirò e allungò una mano per tirar fuori la terza clessidra.

Il contenitore era d’argento, decorato con piccole corone. Vi era rimasta pochissima sabbia.

Morty, avendo la sensazione che la notte gli avesse già fatto passare esperienze terribili e che non potesse andare peggio di così, la girò con attenzione per dare un’occhiata al nome…


La principessa Keli si svegliò.

Aveva sentito il rumore di qualcuno che non emette alcun suono. Tutte storie quelle riguardanti piselli e materassi… la pura selezione naturale aveva stabilito, nel corso degli anni, che le famiglie reali che sopravvivevano più a lungo erano quelle i cui membri erano in grado di distinguere un assassino nel buio per il rumore che quello era sufficientemente intelligente da non produrre, perché, nel giro dei cortigiani, c’era sempre qualcuno pronto a fare a fette un erede con un coltello.

Lei rimase sdraiata nel letto, chiedendosi cosa fare. Aveva un pugnale sotto il cuscino. Cominciò a far scivolare una mano sotto le lenzuola, mentre sbirciava tutto attorno alla stanza, con gli occhi mezzi chiusi, alla ricerca di ombre poco familiari. Era consapevolissima del fatto che se avesse in qualche modo fatto capire di non essere addormentata non avrebbe avuto mai più l’occasione di svegliarsi.

Dalla grande finestra penetrava un pochino di luce nella camera, all’altra estremità di essa, ma le armature, gli arazzi e gli addobbi assortiti che ingombravano tutta la stanza avrebbero potuto fornire copertura per un’intera armata.

Il coltello doveva essere scivolato dietro alla testiera del letto. Probabilmente non l’avrebbe saputo comunque usare in modo adeguato.

Gridare perché accorressero le guardie, stabilì, non sarebbe stata una buona idea. Se c’era qualcuno all’interno della sua camera significava che le guardie dovevano essere state sopraffatte o, quanto meno, rese innocue da una grossa somma di denaro.

C’era uno scaldino sul pavimento accanto al caminetto. Sarebbe potuto servire come arma?

Si udì un debolissimo rumore metallico.

Forse gridare non sarebbe poi stata un’idea così malvagia, dopo tutto…

La finestra implose. Per un istante, Keli vide, incorniciata da fiamme infernali azzurre e purpuree, una figura incappucciata piegata sulla groppa di uno dei cavalli più grossi che lei avesse mai visto.

C’era qualcuno in piedi presso il suo letto, con un coltello mezzo sollevato.

Al rallentatore, lei guardò affascinata il braccio che si sollevava mentre il cavallo galoppava alla velocità di un ghiacciaio sul pavimento. Ora il coltello si trovava sopra di lei e cominciava la propria discesa, il cavallo stava indietreggiando e il cavaliere si trovava in piedi sulle staffe, brandendo uno strano tipo di arma la cui lama lacerò la lenta aria con un rumore simile a quello di un dito che passa sull’orlo di un bicchiere umido…

La luce svanì. Si sentì un attutito tonfo al suolo, seguito da una risonanza metallica.

Keli trasse un profondo respiro.

Immediatamente le venne posta una mano sulla bocca e una voce preoccupata disse: «Se griderai, me ne rammaricherò molto. Ti prego! Ho già guai più che a sufficienza per come stanno le cose.»

Chiunque potesse esprimere con la voce una tale quantità di sconcertanti preghiere doveva essere o sincero oppure un attore talmente bravo da non aver certo bisogno di abbassarsi agli assassinii per potere sbarcare il lunario. Lei chiese: «Chi sei?»

«Non so se mi è permesso dirtelo» disse la voce. «Tu sei ancora viva, non è vero?»

Lei si astenne dal pronunciare una risposta sarcastica appena in tempo. Qualcosa nel tono di quella domanda la preoccupava.

«Non lo puoi stabilire tu?» chiese lei.

«Non è facile…» seguì una pausa. Lei si sforzò di distinguere qualcosa nell’oscurità, di poter applicare un volto attorno a quella voce. «Potrei anche averti causato un male terribile» aggiunse la voce.

«Non mi hai appena salvato la vita?»

«Non so che cosa ho effettivamente salvato. Non ci sarebbe un po’ di luce da queste parti?»

«La mia ancella lascia a volte dei fiammiferi sulla cappa del camino» disse Keli. Sentì la presenza che aveva accanto muoversi. Si udirono dei passi esitanti, un paio di tonfi e alla fine un botto, sebbene la parola non sia sufficiente a descrivere la reale e completa cacofonia di metallo caduto a terra che riecheggiò per la stanza. Esso fu anche seguito dal tradizionale debole tintinnio che segue un paio di secondi dopo che uno pensa sia tutto finito.

La voce disse, in modo piuttosto confuso: «Mi trovo sotto un’armatura. In che punto dovrei essere?»

Keli scivolò silenziosamente giù dal letto, trovò la strada a tastoni verso il camino, localizzò il mucchietto di fiammiferi alla debole luce del fuoco morente, ne sfregò uno in uno scoppio di fumo sulfureo, accese una candela, trovò l’ammasso costituito dai pezzi dell’armatura, tolse la spada dal suo fodero e poi… rischiò di ingoiarsi la lingua.

Qualcuno le aveva appena dato una alitata calda e umida in un orecchio.

«È Binky» disse il cumulo. «Sta soltanto cercando di fare amicizia. Penso che gradirebbe avere del fieno, se ne hai un po’.»

Con regale autocontrollo, Keli disse: «Siamo al quarto piano. Questa è la stanza di una signora. Rimarresti sorpreso nello scoprire quanti cavalli facciamo salire fin qui!»

«Oh. Potresti aiutarmi a tirarmi in piedi, per favore?»

Lei appoggiò la spada a terra e scostò di lato un pettorale. Un viso sottile e pallido la guardò di rimando.

«Primo, faresti meglio a dirmi perché non dovrei mandare a chiamare le guardie comunque» disse lei. «Il solo trovarti nella mia stanza potrebbe farti condannare ad essere torturato a morte.»

Lo guardò meglio.

Alla fine lui disse: «Bene… potesti lasciarmi la mano, per favore? Grazie… primo, le guardie, probabilmente non mi potrebbero vedere, secondo non scopriresti mai perché mi trovo qui e hai tutto l’aspetto di una che odia non sapere le cose, e terzo…»

«Come terzo che?» chiese lei.

La bocca di lui si aprì e si richiuse. Morty desiderava dirle: "Come terza cosa, tu sei così bella o almeno molto attraente, comunque ben più attraente di qualsiasi altra ragazza io abbia incontrato, sebbene debba ammettere di non averne incontrate moltissime." Da questo si deduce che l’innata onestà di Morty non lo farà mai diventare un poeta: se Morty dovesse mai confrontare una ragazza ad una giornata estiva, la descrizione sarebbe seguita da una completa spiegazione di che tipo di giornata lui avesse in mente e se stesse o no piovendo in quel momento. Date le circostanze, non fu assolutamente un danno che non riuscisse a spiccicar parola.

Keli sollevò la candela e guardò la finestra. Era integra. Lo stipite in pietra era intatto. Ogni pannello, con la sua vetrata raffigurante i blasoni araldici di Sto Lat era intera. Guardò nuovamente Morty.

«Lascia perdere la terza cosa» disse lei «torniamo alla seconda.»

Un’ora dopo, l’alba raggiunse la città. La luce del giorno sul Disco fluttua, più che correre, in quanto essa viene rallentata dallo stabile campo magico del mondo e rotola quindi attraverso le pianure come un mare dorato. La città sul picco ne sporse al di fuori per un istante come un castello di sabbia nella marea, finché il giorno non le mulinò attorno e risalì verso l’alto.

Morty e Keli sedevano l’uno accanto all’altra sul letto di lei. La clessidra giaceva fra di loro. Non era rimasta più sabbia nel bulbo superiore.

Dall’esterno provenivano i suoni del castello che si svegliava.

«Io continuo a non capire» disse lei. «Significa forse che sono morta o che non lo sono?»

«Significa che saresti dovuta esserlo» disse lui «secondo il fato o qualsiasi altra cosa sia. Non ho studiato ancora bene la teoria.»

«E tu avresti dovuto uccidermi?»

«No! Voglio dire, no, ti avrebbe ucciso l’assassino. Ho già cercato di spiegarti tutto questo» disse Morty.

«Perché non glielo hai lasciato fare?»

Morty la fissò inorridito.

«Tu volevi morire?»

«Ovviamente no. Ma sembra che quello che la gente vuole sia del tutto ininfluente, no? Sto cercando di essere sensata.»

Morty si fissò le ginocchia. Quindi si alzò in piedi.

«Penso che farei meglio ad andarmene» disse freddamente.

Smontò la falce e la infilò nel fodero dietro alla sella. Guardò quindi la finestra.

«Sei passato attraverso quella» disse Keli cercando di rendersi utile. «Ascoltami, quando ho detto…»

«Si può aprire?»

«No. C’è una terrazza lungo il corridoio. Ma la gente ti vedrà!»

Morty la ignorò, aprì la porta e condusse Binky sul corridoio. Keli gli corse dietro. Un’ancella si fermò, fece un inchino e corrugò leggermente la fronte mentre il suo cervello le faceva saggiamente respingere l’idea di aver visto un cavallo enorme che camminava lungo il tappeto.

La terrazza dava su uno dei cortili interni. Morty gettò un’occhiata da sopra al parapetto, quindi montò in sella.

«Stai attenta al duca» disse lui. «C’è lui dietro tutto questo.»

«Mio padre mi ha sempre messo in guardia contro quell’uomo» rispose la principessa. «Infatti ho assunto un assaggiatore.»

«Dovresti anche avere una guardia del corpo» disse Morty. «Io devo andare. Ho delle cose importanti da fare. Addio» aggiunse, in quello che sperava risultare il tono adeguato a uno spirito ferito.

«Ti vedrò ancora?» chiese Keli. «Ci sono moltissime cose che vorrei…»

«Potrebbe non essere una buona idea, se pensi soltanto a quello» disse Morty con tono altezzoso. Schioccò la lingua e Binky balzò nell’aria, superò il parapetto e galoppò nell’azzurro cielo mattutino.

«Volevo dirti grazie!» gli gridò Keli alle spalle.

L’ancella che non era riuscita a superare la sensazione che ci fosse qualche cosa di storto e che l’aveva quindi seguita, domandò: «Sta bene, signora?»

Keli la guardò distrattamente.

«Cosa?» le chiese.

«Mi chiedevo soltanto… se andava tutto bene.»

Keli incurvò le spalle.

«No» disse. «Va tutto assolutamente male. C’è un assassino morto nella mia camera da letto. Potresti farmi il piacere di farci qualcosa?

«E…» sollevò una mano… «non voglio che tu dica ’Morto, signora? oppure Assassino, signora?’ oppure che tu gridi o faccia qualcosa del genere, voglio soltanto che tu ti occupi della cosa. Silenziosamente. Penso che mi sia venuto il mal di testa. Quindi, annuisci e basta.»

L’ancella annuì, fece un inchino con atteggiamento incerto e tornò sui propri passi.


Morty non fu certo di come fosse tornato indietro. Il cielo si trasformò semplicemente da un azzurro ghiaccio ad un grigio cupo mentre Binky rallentava entrando nella breccia fra le dimensioni. Egli non atterrò sul nero terreno della proprietà della Morte, quello era semplicemente , sotto i suoi piedi, come se una portaerei avesse fatto una delicata manovra per sistemarsi sotto ad un jet e risparmiare al pilota tutta la fatica dell’atterraggio.

L’imponente cavallo trottò nel cortile della scuderia e si fermò di fronte alla doppia porta, agitando la coda. Morty scese a terra e corse verso la casa.

E si fermò, tornò indietro di corsa, riempì la mangiatoia e corse verso la casa, si fermò, bofonchiò qualcosa fra sé, tornò indietro di corsa, strigliò il cavallo, controllò il secchio dell’acqua e corse verso la casa, tornò indietro di corsa un’altra volta e staccò la coperta del cavallo dal gancio sulla parete e gliela agganciò addosso. Binky gli strofinò contro il muso con grande dignità.

Sembrava non esserci in giro nessuno quando Morty sgattaiolò in casa, dalla porta sul retro, e si fece strada verso la biblioteca, dove anche a quest’ora della notte l’aria pareva essere di cocente polvere secca. Gli sembrò che gli fossero occorsi degli anni per localizzare la biografia della principessa Keli, ma alla fine la trovò. Era un volume sottile in maniera avvilente posto su una scansia raggiungibile soltanto tramite la scala della biblioteca, una struttura traballante su ruote che assomigliava notevolmente a una antica macchina d’assedio.

Con dita tremanti aprì il libro all’ultima pagina, e mugolò.

"L’assassinio della principessa all’età di quindici anni" lesse "fu seguito dall’unione di Sto Lat e Sto Helit e, indirettamente, dal collasso delle città stato della pianura centrale e dalla nascita di…"

Lui continuò a leggere, incapace di fermarsi. Di tanto in tanto, mugolava ancora.

Alla fine rimise il libro a posto, esitò, quindi lo spinse dietro qualche altro volume. Poteva sentirne ancora la presenza mentre scendeva giù dalla scala che scricchiolava, denunciando la sua incriminante esistenza al mondo intero.

Esistevano poche navi dirette verso l’oceano, sul Disco. Nessun Capitano gradiva avventurarsi lontano dalla vista della costa. Era un fatto estremamente spiacevole che le navi che apparivano essere ad una distanza tale da stare superando il margine del mondo non stessero in effetti sparendo dietro l’orizzonte, ma stessero realmente cadendo giù dal Bordo di esso.

Più o meno ad ogni generazione qualche esploratore entusiasta dubitava di questa storia e partiva per poterne dimostrare la falsità. Cosa alquanto strana, nessuno di essi era mai tornato indietro per rivelare il risultato delle sue scoperte.

La seguente analogia, quindi, sarebbe stata priva di significato per Morty.

Lui si sentiva come se fosse naufragato con il Titanic ma, nello stesso istante, fosse stato tratto in salvo. Dal Lusitania.

Si sentiva come se avesse lanciato una palla di neve sotto l’impulso del momento e stesse ora guardando la risultante valanga spazzar via tre stazioni sciistiche.

Sentiva la storia che si sfasciava attorno a sé.

Sentiva di aver bisogno di qualcuno con cui parlare, e in fretta.

Questo significava o Albert o Ysabell, visto che il pensiero di spiegare tutto ai piccoli puntini azzurrognoli non era proprio quello che intendeva prendere in considerazione dopo una lunga nottata. Nelle rare occasioni in cui Ysabell si era degnata di guardare nella sua direzione ella aveva chiarito che l’unica differenza che scorgeva fra Morty e un gufo morto era il colore. Per quanto riguardava Albert…

D’accordo, non era il confidente perfetto, era tuttavia decisamente il migliore, potendo scegliere fra uno solo.

Morty scivolò lungo i gradini e intraprese la strada di ritorno attraverso le scansie cariche di libri. Anche un sonnellino di qualche ora non sarebbe stata una idea malvagia.

Udì quindi un rantolo, alcuni veloci passi di corsa e lo sbattere di una porta. Quando sbirciò attorno alla più vicina libreria, non c’era nulla a parte uno sgabello con un paio di libri appoggiati sopra. Ne prese in mano uno e gettò uno sguardo al nome, quindi ne lesse qualche pagina. Accanto ad esso si trovava un fazzoletto di pizzo umido.


Morty si alzò tardi e si affrettò verso la cucina aspettandosi, da un istante all’altro, di sentire toni profondi di disapprovazione. Non successe nulla.

Albert si trovava di fronte al lavello di pietra, e fissava pensieroso la padella per le patatine fritte, chiedendosi, probabilmente, se fosse arrivato il momento di cambiare l’olio o se fosse il caso di lasciarlo lì ancora per un anno. Si voltò mentre Morty scivolava su una sedia.

«Hai avuto parecchio da fare, allora» disse. «Ho sentito che sei stato a girovagare per casa fino alle ore piccole. Potrei prepararti un uovo. Oppure c’è del porridge.»

«Uovo, grazie» disse Morty. Non aveva mai avuto il coraggio sufficiente a provare il porridge di Albert, che conduceva una vita privata per proprio conto nelle profondità della sua casseruola e corrodeva i cucchiai.

«La padrona ti vuole vedere, dopo» aggiunse Albert «ma ha detto che non ti devi precipitare da lei.»

«Ah.» Morty fissò la tavola. «Ha detto qualcos’altro?»

«Ha detto che non aveva avuto una serata libera da migliaia di anni» disse Albert. «Stava canticchiando. Non mi piace questa cosa. Non l’ho mai vista in questo stato.»

«Oh.» Morty prese la palla al balzo. «Albert, tu sei qui da molto tempo?»

Albert guardò verso di lui da sopra gli occhiali.

«Forse» disse. «È difficile tenere il conto del tempo esterno, ragazzo. Sono qui da quando è morto il vecchio re.»

«Quale re, Albert?»

«Mi sembra si chiamasse Artorollo. Ometto piccolo e grasso. Voce stridula. Comunque l’ho visto soltanto una volta.»

«Dove?»

«Ad Ankh, ovviamente.»

«Cosa?» disse Morty. «Ad Ankh-Morpork non esistono re, lo sanno tutti!»

«È successo un bel po’ di tempo fa, te l’ho detto» continuò Albert. Si versò una tazza di te dalla teiera personale della Morte e si sedette, con uno sguardo sognante negli occhi cisposi. Morty aspettava trepidante.

«Ed erano re a quei tempi, veri re, non del tipo che c’è adesso in giro. Erano monarchi» proseguì Albert, versando con grande cura del te nel piattino e sventolandolo con atteggiamento cerimonioso con il bordo della sua sciarpa. «Voglio dire, erano saggi e giusti, insomma, abbastanza saggi. Non ci avrebbero pensato due volte prima di farti staccare la testa appena ti avessero beccato» aggiunse con l’espressione di chi approva. «E tutte le regine erano alte e pallide e indossavano quella specie di passamontagna…»

«Il soggolo?» chiese Morty.

«Già, proprio quello e le principesse erano belle quanto il giorno è lungo e tanto nobili che… che potevano far passare un pisciarello attraverso dodici materassi…»

«Cosa?»

Albert esitò. «Be’, comunque era qualcosa del genere» ammise. «E c’erano balli, tornei ed esecuzioni. Gran bei tempi.» Sorrise sognante ai suoi ricordi.

«Non come i tempi di adesso» disse, emergendo di cattivo umore dal suo sogno ad occhi aperti.

«Hai degli altri nomi, Albert?» chiese Morty. Ma il breve incantesimo era stato rotto e il vecchio non sarebbe stato più adescato.

«Oh, lo so» disse bruscamente «appena hai il nome di Albert ti precipiterai a guardare quel che c’è scritto di lui in biblioteca, non è così? Investigando e cacciando il naso. Ti conosco, stai immerso nella lettura fino alle ore piccole a controllare le vite delle giovani donne…»

Gli araldi della colpa dovevano aver sbandierato le loro trombe ossidate all’interno degli occhi di Morty, in quanto Albert emise una risata chioccia e lo pungolò con un dito ossuto.

«Potresti almeno rimetterli dove li hai trovati» disse «e non lasciarne dei mucchi in giro da far riporre al vecchio Albert.»

«In ogni caso non è giusto smaniare per piccole povere morte. Potrebbe finire con l’accecarti.»

«Ma io ho soltanto…» cominciò a dire Morty, poi si ricordò del fazzoletto di pizzo umido che aveva in tasca e chiuse la bocca.

Lasciò Albert bofonchiare fra sé mentre lavava i piatti e scivolò nuovamente in biblioteca. La pallida luce del sole si proiettava all’interno, passando dalle immense finestre, sbiadendo dolcemente le copertine dei pazienti, antichi volumi. Di tanto in tanto, un granello di polvere rifletteva la luce mentre fluttuava attraverso i dardi dorati e lampeggiava come una supernova in miniatura.

Morty sapeva che se si fosse messo ad ascoltare con grande concentrazione, avrebbe potuto sentire il crepitio da insetto dei libri mentre essi si auto-scrivevano.

Un tempo Morty l’aveva trovato inquietante. Ora lo trovava… rassicurante. La cosa dimostrava che l’universo stava scorrendo liscio come l’olio. La sua coscienza, che aveva cercato un po’ di sollievo, gli ricordò allegramente che l’universo poteva anche stare procedendo liscio come l’olio ma che certamente si stava dirigendo dalla parte sbagliata.

Si fece strada attraverso il labirinto di scansie fino alla misteriosa pila di libri e trovò che era sparita. Albert era stato in cucina e Morty non aveva mai visto la Morte entrare personalmente nella biblioteca. E allora che ci stava cercando Ysabell?

Gettò un’occhiata alla parete di scansie che gli torreggiavano sopra e sentì lo stomaco farglisi di ghiaccio quando pensò a quello che stava per accadere…

Non poteva farci assolutamente nulla. Doveva trovare qualcuno con cui parlarne.


Nel frattempo anche Keli stava trovando difficile la vita.

Questo in quanto la causalità aveva una incredibile forza di inerzia. Il colpo mal assestato di Morty, provocato da rabbia, disperazione e amore nascente, l’aveva indirizzata su una nuova rotta ma essa, la causalità, non se ne era ancora accorta. Lui aveva dato un calcio alla coda del dinosauro, ma ci sarebbe voluto del tempo prima che l’altra estremità si rendesse conto che era arrivato il momento di dire: "Ahi!"

In breve, l’universo sapeva che Keli era morta e fu di conseguenza alquanto sorpreso di scoprire che lei non aveva ancora smesso di camminare e di respirare.

Questo si rendeva evidente in piccoli dettagli. I cortigiani che le avevano gettato furtive e strane occhiate durante la mattinata non sarebbero stati in grado di dire perché la vista di lei li faceva sentire insolitamente a disagio. Con estremo imbarazzo da parte loro e con grave dispetto da parte sua, essi si trovarono a ignorarla o a parlare a voce bassissima.

Il Ciambellano scoprì che aveva dato istruzioni perché lo stendardo reale fosse issato a mezz’asta e, per tutto l’oro del mondo, non avrebbe saputo spiegare il perché. Venne gentilmente condotto al proprio letto in preda a una lieve crisi di nervi dopo avere ordinato mille metri di stamigna nera senza nessun motivo apparente.

Quella sensazione misteriosa, irreale, si diffuse ben presto per tutto il castello. Il capo cocchiere ordinò che il catafalco di stato venisse tirato fuori e lucidato nuovamente e poi rimase inebetito nel cortile delle scuderie e pianse sulla sua pelle di camoscio in quanto non riusciva a ricordare perché lo avesse fatto. I servitori camminavano con passo leggero lungo i corridoi. Il cuoco dovette combattere una urgenza travolgente di preparare semplici banchetti di carne fredda. I cani ulularono, quindi smisero, sentendosi parecchio stupidi. I due stalloni neri che per tradizione conducevano il corteo funebre di Sto Lat divennero sempre più inquieti nelle loro stalle e uccisero quasi uno stalliere a calci.

Nel suo castello di Sto Helit, il duca aspettò invano un messaggero che era in effetti partito da Sto Lat ma che si era fermato a metà strada incapace di ricordare che cosa si riteneva dovesse riferire.

In mezzo a tutto ciò, Keli si muoveva come un fantasma solido e crescentemente irritato.

Le cose raggiunsero il loro culmine a pranzo. Lei entrò impettita nella grande sala e scoprì che non era stato sistemato alcun piatto di fronte alla poltrona reale. Parlando a voce molto alta e distinta al maggiordomo, era riuscita a fare rettificare la mancanza, quindi però aveva visto che i piatti di portata passavano rapidamente di fronte a lei prima che lei riuscisse ad infilarvi dentro la forchetta. Rimase a guardare con astiosa incredulità mentre il vino veniva portato e versato prima al Lord del Gabinetto della Corona.

Fu un’azione poco regale da compiere, ma lei tirò fuori un piede e fece lo sgambetto al cameriere col vino. Lui inciampò, bofonchiò qualcosa fra sé e sé e fissò lo sguardo sul pavimento.

Lei si sporse dall’altra parte e gridò nell’orecchio del Cerimoniere della Dispensa: «Riesci a vedermi, caro mio? Perché mai siamo ridotti a mangiare prosciutto e carne di maiale fredda?»

Lui si voltò interrompendo la conversazione a bassa voce che stava intrattenendo con la Signora della Piccola Sala Esagonale della Torretta a Nord, le dette una lunga occhiata in cui lo shock si fece strada attraverso una specie di sfuocata perplessità e disse: «Ehm, sì… io… ehm…»

«Vostra Altezza Reale» lo imbeccò Keli.

«Ma… sì… Altezza» balbettò lui. Seguì un pesante silenzio.

Poi, come se si fosse rimesso in funzione, le voltò le spalle e riprese la conversazione.

Keli rimase seduta per qualche istante, pallida per la rabbia e lo stupore, quindi tirò indietro la poltrona e si avviò come un fulmine verso le sue stanze. Un paio di servitori che stavano dividendo un veloce abbraccio nel corridoio esterno, vennero sbattuti da una parte da qualcosa che non riuscirono a distinguere chiaramente.

Keli corse in camera sua e si attaccò alla corda che avrebbe dovuto fare arrivare di corsa la cameriera in servizio dal salottino in fondo al corridoio. Non successe nulla per qualche tempo e poi la porta venne aperta lentamente e un volto pallido sbirciò dentro, fissandola.

Questa volta Keli riconobbe lo sguardo e fu pronta ad affrontarlo. Afferrò l’ancella per le spalle e la trascinò a forza all’interno della camera, sbattendo fragorosamente la porta dietro di lei. Mentre la donna, impaurita, guardava qualsiasi cosa eccetto Keli, lei balzò in avanti e le mollò un sonoro ceffone su una guancia.

«Questo l’hai sentito? L’hai sentito?» strillò.

«Ma… voi… io…» piagnucolò la domestica, barcollando all’indietro finché non andò a sbattere contro il letto e vi si sedette pesantemente sopra.

«Guardami! Guardami in faccia quando ti parlo!» urlò Keli, avanzando verso di lei. «Tu riesci a vedermi, no? Dimmi che riesci a vedermi o ti farò giustiziare!»

La donna la fissò nei terrorizzanti occhi.

«Io riesco a vedervi» disse «ma…»

«Ma cosa? Ma cosa?»

«Certamente voi siete… ho sentito dire… pensavo…»

«Che cosa pensavi?» disse bruscamente Keli. Non gridava più ormai. Le sue parole venivano pronunciate come staffilate incandescenti.

La donna collassò in un ammasso singhiozzante. Keli rimase lì, battendo un piede per qualche istante, e poi la scosse gentilmente.

«C’è un mago in città?» chiese. «Guardami, guardami. C’è un mago qui, non è vero? Voi ragazze vi imboscate in continuazione per andare a parlare con i maghi! Dove abita?»

La donna le rivolse un volto rigato di lacrime, combattendo contro i propri istinti che le dicevano che la principessa non esisteva.

«Ehm… mago, sì… Bentagliato, a Wall Street…»

Le labbra di Keli si contrassero in un fugace sorriso. Si chiese dove venissero tenuti i suoi mantelli, ma la fredda ragione le suggerì che sarebbe stato maledettamente più semplice per lei trovarseli da sola piuttosto che cercare di costringere la domestica a rendersi conto della sua presenza. Aspettò un attimo, osservando attentamente mentre la donna la smetteva di singhiozzare, si guardava attorno con un vago smarrimento e si affrettava ad uscire dalla stanza.

Mi ha già dimenticato, pensò lei. Si guardò le mani. Eppure sembrava abbastanza solida.

Doveva essere una magia.

Girovagò nella camera dei guardaroba e aprì qualche armadio, andando a tentativi, finché non trovò un mantello nero con il cappuccio. Se lo mise addosso e sfrecciò via sul corridoio e giù lungo le scale della servitù.

Non era più passata da quella parte da quando era bambina. Quello era il mondo degli armadi della biancheria, dei nudi pavimenti e degli ottusi camerieri. Puzzava di croste di pane leggermente ammuffite.

Keli vi passò attraverso come uno spettro legato alla terra. Aveva coscienza delle zone della servitù, più o meno come la gente ha coscienza, a determinati livelli nella propria testa, delle fognature o dei canali di scolo. Lei sarebbe stata pronta ad ammettere che sebbene i servitori si assomigliassero tutti moltissimo, essi dovevano possedere qualche fattore caratterizzante nei loro lineamenti attraverso il quale i loro vicini e i loro cari potevano, presumibilmente, identificarli; tuttavia non era pronta a vedere Moghedron, il degustatore di vini, che aveva visto fino ad allora soltanto in uniforme ufficiale muoversi come un galeone a gonfie vele, seduto nella sua dispensa con la giacchetta aperta a fumare la pipa.

Un paio di serve le passarono accanto senza gettarle una seconda occhiata, ridacchiando. Lei si affrettò ulteriormente, rendendosi conto, in qualche strano modo che era come se lei si fosse introdotta abusivamente nel suo stesso castello.

E questo, comprese, succedeva perché quel castello non era affatto suo. Il mondo rumoroso che aveva attorno, con le lavanderie fumanti e le fredde dispense, era il mondo di se stesso. Lei non poteva possederlo. Semmai era esso che possedeva lei.

Prese una coscia di pollo dalla tavola della cucina più grande, una specie di spelonca in cui erano allineate così tante pentole che, alla luce dei suoi fuochi, sembrava quasi una sala delle armature per tartarughe, e provò il poco familiare brivido del furto. Furto! Nel suo proprio regno! E il cuoco la guardò passandole direttamente attraverso, con gli occhi vitrei quanto un maiale in salmi.

Keli corse attraverso i cortili delle scuderie e sgusciò fuori dal cancello posteriore, passando oltre un paio di sentinelle i cui sguardi fissi non riuscirono nemmeno a notarla.

Per le strade la situazione non era altrettanto orripilante, ma lei continuava a sentirsi stranamente nuda. Era snervante trovarsi in mezzo alle persone che si facevano gli affari propri senza preoccuparsi di lanciarti uno sguardo, quando la tua intera esperienza del mondo, fino a quel momento, era stata rivolta tutta verso una singola persona. I pedoni cozzarono contro la singola persona e rimbalzarono via, chiedendosi brevemente contro che cosa avessero urtato e la singola persona dovette parecchie volte allontanarsi in fretta dalla via per non essere investita dai carri.

La coscia di pollo non aveva fatto molto per riempire il vuoto lasciato nello stomaco dall’assenza del pranzo e lei sottrasse un paio di mele da una bancarella, prendendosi mentalmente un appunto per far scoprire al ciambellano quanto costassero le mele e per fargli inviare dei soldi al proprietario della bancarella.

Scarmigliata, alquanto sudicia e con un leggero odore di sterco di cavallo, arrivò infine alla porta di Bentagliato. Il battaglio le procurò qualche problema. Per quella che era la sua esperienza, le porte le si aprivano davanti: c’erano delle persone addette che lo facevano.

Era talmente sconvolta che non notò nemmeno che il battaglio le fece l’occhietto.

Provò ancora una volta e pensò di avere udito un lontano botto. Dopo qualche tempo la porta si aprì di pochi centimetri e lei ebbe un colpo d’occhio su una faccia rotonda e rubizza che aveva in cima dei capelli riccioluti. Il piede destro di lei la stupì, inserendosi intelligentemente nel piccolo varco aperto.

«Esigo di vedere il mago» proclamò lei. «Prego, introducimi all’istante.»

«Al momento è alquanto impegnato» disse quel volto. «Stavi cercando una pozione amorosa?»

«Una che?»

«Ho… abbiamo uno speciale unguento di Bentagliato, Schermo di Passione» disse il volto, e le fece l’occhietto in maniera allarmante. «Ti fornisce dei bei salti alla cavallina garantendoti nel frattempo il fallimento del raccolto, se intendi quel che voglio dire.»

Keli si adombrò. «No» mentì freddamente «non capisco.»

«Colpi d’ariete? Lunghe fermate femminili? Collirio di Belladonna?»

«Esigo…»

«Mi dispiace, siamo chiusi» disse il volto e chiuse la porta. Keli ritirò il piede appena in tempo.

Mormorò fra sé qualche parola che avrebbe sbalordito e scioccato i suoi tutori e picchiò con forza contro lo stipite.

Il tamburellamento del suo martellare contro la porta rallentò improvvisamente mentre le affiorava alla mente una nuova consapevolezza.

Lui l’aveva vista! L’aveva sentita!

Lei ricominciò a picchiare contro la porta con rinnovato vigore, strillando con tutto il fiato che aveva nei polmoni.

Una voce al suo orecchio disse: «Non funfionerà. Lui è molto teftardo.»

Lei si guardò lentamente attorno ed incontrò lo sguardo impertinente del battaglio. Inarcava le sopracciglia metalliche mentre le parlava con pronuncia impacciata attraverso l’anello di ferro lavorato.

«Io sono la Principessa Keli, erede al trono di Sto Lat» disse lei altezzosa, cercando di nascondere il proprio terrore. «E non parlo con arredamenti da porta.»

«Beniffimo, io fono invece un battaglio e poffo parlare con tutti quelli che mi aggradano» disse gentilmente la gargolla. «E poffo anche dirti che il maeftro ha avuto una giornata pefante e che non vuole effere difturbato. Però potrefti provare ad ufare la parolina magica» aggiunse. «Da parte di una donna attraente funfiona nove volte fu otto.»

«Parola magica? Qual è la parola magica?»

Il battaglio sghignazzò in maniera ben udibile. «Non ti è ftato infegnato niente, fignorina?»

Lei si raddrizzò in tutta la sua altezza, cosa che non valeva affatto lo sforzo. Sentiva di avere avuto a sua volta una giornata pesante. Suo padre aveva ammazzato personalmente centinaia di nemici in battaglia. Lei sarebbe dovuta essere in grado di affrontare un battaglio.

«Io sono stata educata» lo informò lei con gelida precisione «dai più insigni istruttori del paese.»

Il battaglio non sembrò rimanere particolarmente impressionato.

«Fe non ti hanno nemmeno infegnato la parolina magica» disse in tono pacato «non poffono certo effere ftati poi tanto infigni.»

Keli allungò una mano, afferrò il pesante anello e lo sbatté contro la porta. Il battaglio le gettò un’occhiata impudica.

«Fì, trattami in modo rude» biascicò. «È la cofa che preferifco!»

«Sei disgustoso!»

«Fì. Oooo, quefto fì che è ftato bello, fallo ancora…»

La porta si aprì di uno spiraglio. Si vedeva soltanto un ciuffo di capelli ricci.

«Mia cara, ho detto che siamo chiu…»

Keli sprofondò.

«Per favore aiutami» disse. «Per favore!»

«Vifto?» disse il battaglio con aria trionfante. «Prima o poi tutti ricordano la parolina magica!»


Keli aveva presenziato a funzioni ufficiali ad Ankh-Morpork e aveva visto maghi anziani dell’Università Invisibile, l’università di magia più importante del Disco. Alcuni di essi erano stati alti e la maggior parte era stata grassa, quasi tutti poi erano stati vestiti in maniera lussuosa o, almeno, avevano ritenuto di esserlo.

In effetti esistevano delle mode per quanto riguardava la magia come per la maggior parte delle arti mondane, e la tendenza ad apparire come vecchi consiglieri era stata soltanto temporanea. Precedenti generazioni avevano smaniato per avere un aspetto emaciato ed interessante, oppure druidico e stracciato, oppure misterico e saturnino. Keli però era abituata a maghi simili ad una specie di piccola montagna dai bordi di pelliccia con una voce ansimante e Igneus Bentagliato non rispondeva precisamente a quella immagine.

Era giovane. Be’, per quello non ci si poteva fare nulla, presumibilmente anche i maghi dovevano nascere giovani. Non aveva la barba e l’unica cosa con cui era bordata la sua tunica alquanto sudicia era un orlo sfrangiato.

«Gradiresti da bere o qualcos’altro?» chiese il mago scalciando in maniera surrettizia una vestaglia sporca sotto la tavola.

Keli si guardò attorno per cercare un posto su cui sedersi che non fosse occupato da biancheria o stoviglie sporche e scosse la testa. Bentagliato notò la sua espressione.

«Temo che ci sia un po’ di disordine» aggiunse immediatamente, dando una gomitata ai resti di una salsa all’aglio e facendola cadere sul pavimento. «La signora Nugent viene a fare i mestieri due volte alla settimana, di solito ma è andata a trovare sua sorella che ha uno dei suoi periodi. Sei sicura? Non è un problema. Ho visto giusto ieri una tazza pulita proprio qui.»

«Ho un problema, Bentagliato» disse Keli.

«Aspetta un momento.» L’uomo allungò una mano verso un gancio che si trovava sopra il camino e tirò giù un cappello a punta che aveva visto tempi migliori, sebbene, a giudicare dall’aspetto, essi non dovessero essere stati molto migliori, e poi disse: «Benissimo. Spara.»

«Che cosa c’è di tanto importante nel cappello?»

«Oh, è assolutamente essenziale. Devi avere il cappello adatto per praticare la magia. Noi maghi conosciamo bene questo genere di cose.»

«Se lo dici tu. Ascolta: puoi vedermi?»

Lui la scrutò. «Sì. Sì, direi decisamente che posso vederti.»

«E sentirmi? Tu riesci a sentirmi, vero?»

«Chiaro e forte. Sì. Ogni sillaba al posto giusto. Nessun problema.»

«Allora saresti sorpreso se ti dicessi che non può farlo nessun altro in tutta la città?»

«Eccetto io?»

Keli sbuffò. «E il battaglio della tua porta.»

Bentagliato prese una seggiola e si sedette. Strizzò leggermente gli occhi. Una espressione estremamente dubbiosa gli passò sul volto. Si alzò in piedi, allungò una mano dietro di sé e tirò fuori una massa piatta e rossastra che doveva essere stata un tempo mezza pizza.[2] La fissò con grande rimpianto.

«L’ho cercata per tutta la mattina, ci crederesti?» disse. «Era una quattro stagioni con aggiunta di peperoncino.» Spiluccò tristemente la sagoma spiaccicata e, all’improvviso, si ricordò di Keli.

«Caspita, scusa» disse «dove sono andate a finire le mie buone maniere? Che cosa penserai di me? Ecco qui. Prendi pure un’acciuga. Prego.»

«Ma mi sei stato a sentire?» disse bruscamente Keli.

«Tu ti senti invisibile? Per tuo conto, intendo dire?» chiese in maniera confusa Bentagliato.

«Ovviamente no. Mi sento soltanto furibonda. Così vorrei che tu mi predicessi il futuro.»

«Be’, non so che dirti, tutto questo mi sembra una cosa più medica e…»

«Posso pagare.»

«È illegale, sai» disse Bentagliato, afflitto. «Il vecchio re ha proibito espressamente la predizione del futuro a Sto Lat. Non gli piacevano molto i maghi.»

«Posso pagare moltissimo.»

«La signora Nugent mi diceva che pare che la nuova ragazza sia anche peggiore. Ha detto che è un tipetto altezzoso. Non certo di quelli che guardano con benevolenza i praticanti delle arti magiche, temo.»

Keli sorrise. I membri della corte che avevavano visto in precedenza quel sorriso si sarebbero affrettati a portar via Bentagliato al massimo della velocità depositandolo in un posto sicuro, ad esempio in un altro continente, ma lui rimase invece lì, seduto, cercando di staccarsi pezzettini di funghi dalla tunica.

«Mi risulta che abbia un carattere pessimo» disse Keli. «Non resterei affatto sorpresa se ti buttasse fuori dalla città in ogni caso.»

«Oh, Signore» disse Bentagliato. «La pensi davvero così?»

«Ascolta» disse Keli «non dovrai predirmi il futuro, mi basta il presente. Perfino lei non potrebbe trovare nulla da obbiettare. Le dirò io una parolina, se ci tieni» aggiunse con atteggiamento magnanimo.

Bentagliato si illuminò. «Oh, tu la conosci?» chiese.

«Sì. A volte però, mi sembra di non conoscerla bene.»

Bentagliato sospirò e sprofondò nei resti della tavola, provocando la caduta di una pila di piatti vecchi e di avanzi, da lungo tempo mummificati, di parecchi pasti. Alla fine dissotterrò un grosso portafoglio di cuoio, con una fetta di formaggio appiccicata sopra.

«Bene» disse dubbioso «queste carte sono Carocchi. Saggezza distillata degli Antichi e via dicendo. Oppure ci sono i Ching Aling della gente del Centro. C’è tutto il contenuto in questa piccola serie. Non leggo le foglie di tè.»

«Proverò quei cosi Ching.»

«Allora getta in aria questi rametti di Achillea.»

Lei obbedì. Guardarono entrambi lo schema risultante.

«Uhmm» disse Bentagliato dopo qualche tempo. «Allora, là ce n’è uno nel camino, uno è nel barattolo del cacao, uno è finito in strada, peccato per la finestra, uno è sulla tavola e uno, no due sono sotto la credenza. Ritengo che la signora Nugent sarà in grado di trovare i restanti.»

«Non mi hai detto quanto dovevo gettarli forte. Devo provare un’altra volta?»

«No-oooo, meglio di no.» Bentagliato sfogliò le pagine di un librone ingiallito che era servito fino a quel momento come supporto per una gamba del tavolo. «Il disegno sembra avere senso. Sì, eccoci qui, Ottogramma 8.887: Illegalità, l’Oca Atonale. Con cui incrociamo questo riferimento… aspetta… aspetta… sì. Ci sono.»

«Ebbene?»

«Senza verticalità, saggiamente l’imperatore carminio si presenta all’ora del tè: di sera il mollusco è silenzioso in mezzo alle gemme di mandorlo.»

«Davvero?» disse Keli piena di rispetto. «Che cosa significa?»

«A meno che tu non sia un mollusco, probabilmente non molto» disse Bentagliato. «Penso che abbia perso qualcosa nella traduzione.»

«Sei certo di sapere come interpretarlo?»

«Proviamo con le carte» disse di tutta fretta Bentagliato, esponendole a ventaglio. «Prendi una carta. Una qualsiasi.»

«È la Morte» disse Keli.

«Ah. Bene. Ovviamente la carta della Morte non significa esattamente morte in tutte le circostanze» si affrettò a dire Bentagliato.

«Vuoi dire che non significa morte nelle circostanze in cui il soggetto è sovreccitato e tu sei troppo imbarazzato per potere dire la verità, eh?»

«Ascolta, prendi un’altra carta.»

«Anche questa è la Morte» disse Keli.

«Hai rimesso nel mazzo la prima?»

«No. Devo prendere un’altra carta?»

«Sì, puoi farlo.»

«Be’, questa sì che è una coincidenza!»

«Morte numero tre?»

«Esattamente. È un mazzo speciale per trucchetti di scongiuro?» Keli cercò di rimanere composta, ma perfino lei poté distinguere una leggera punta di isteria nella sua voce.

Bentagliato la guardò corrugando la fronte e ripose con attenzione le carte del sacchetto, le mischiò e le espose sulla tavola. C’era soltanto una Morte.

«Oh, signore» disse lui «penso che potrebbe essere una cosa grave. Posso esaminare il palmo della tua mano, per favore?»

Lo osservò per parecchio tempo. Dopo un po’ andò verso la credenza, prese una lente da gioielliere dal cassetto, la ripulì dal porridge con la manica della tunica e passò qualche altro minuto ad esaminare la mano di lei nel più piccolo dettaglio. Alla fine si appoggiò indietro sulla seggiola, tolse la lente e la fissò.

«Tu sei morta» disse.

Keli aspettò un attimo. Non riusciva a pensare ad una risposte adeguata. "Non lo sono" mancava leggermente di stile, mentre "È una cosa grave?" sembrava, per così dire, troppo frivolo.

«Avevo forse già detto che pensavo potesse essere una cosa grave?» chiese Bentagliato.

«Mi sembra di sì» rispose attentamente Keli, trattenendo la voce in modo che sembrasse assolutamente calma.

«Avevo ragione.»

«Oh.»

«Potrebbe essere letale.»

«Quanto più letale» chiese Keli «di essere morta?»

«Non intendevo dire riguardo a te!»

«Oh.»

«Sembra che sia andato storto qualcosa di veramente fondamentale, capisci? Tu sei morta in tutti i sensi eccetto, ehm, in quello reale. Voglio dire, le carte pensano che tu sia morta. La tua linea della vita pensa che tu sia morta. Tutti e tutto pensano che tu sia morta.»

«Io no» disse Keli, ma la sua voce non era eccessivamente sicura di sé.

«Temo che la tua opinione non conti molto.»

«Ma la gente mi può vedere e sentire!»

«La prima cosa che impari quando ti iscrivi alla Università Invisibile, temo, è che la gente non degna di eccessiva attenzione questo genere di cose. Quello che è importante è ciò che la loro mente dice loro.»

«Vuoi dire che le persone non mi vedono perché le loro menti dicono loro di non farlo?»

«Temo di sì. Si chiama predestinazione o qualcosa del genere» Bentagliato la guardò afflitto. «Io sono un mago. Noi sappiamo bene queste cose.»

«In realtà non si tratta proprio della prima cosa che si impara quando ci si iscrive» aggiunse. «Voglio dire, si impara dove stanno i gabinetti e tutto quel genere di cose prima di questa. Ma dopo tutte le altre, questa è la prima cosa.»

«Eppure tu mi puoi vedere.»

«Ah, be’. I maghi sono allenati in maniera speciale a vedere le cose che ci sono e a non vedere quelle che non ci sono. Ti fanno fare esercizi appositi…»

Keli tamburellò con le dita sulla tavola, o almeno cercò di farlo. Le risultò difficile. Lei fissò lo sguardo verso il basso con un vago senso di terrore.

Bersagliato si precipitò in avanti per ripulire la tavola con la manica.

«Mi spiace» balbettò «ieri sera per cena mi sono fatto dei tramezzini con la melassa.»

«Che posso fare

«Nulla.»

«Nulla

«Be’… potresti diventare una ladra di successo… scusa. È stata mancanza di tatto da parte mia.»

«Lo penso anche io.»

Bentagliato le dette qualche buffetto sulla mano con atteggiamento goffo ma Keli era troppo preoccupata anche soltanto per notare una lèse majesté talmente flagrante.

«Vedi, tutto è prefissato. La storia è già stata stabilita, dall’inizio alla fine. Quello che sono realmente i fatti non c’entrano nulla. La storia rotola semplicemente diritta al di sopra di essi. Tu non puoi cambiare nulla perché i cambiamenti fanno già parte di essa. Tu sei morta. È deciso dal fato. Dovrai soltanto accettarlo.»

Lui le fece un sorrisetto di scusa. «Sei molto più fortunata della maggior parte delle persone morte, se consideri la cosa in maniera oggettiva» disse. «Sei viva per potertela spassare.»

«Non intendo affatto accettarlo. Perché mai dovrei accettarlo? Non è colpa mia!»

«Tu non capisci. La storia sta progredendo. Tu non puoi più venire coinvolta in essa. Non esiste più alcuna parte di essa per te, non capisci? Meglio lasciare che le cose seguano il loro corso.» Le dette nuovamente qualche buffetto sulla mano. Lei lo fissò. Lui ritirò la mano.

«E allora che cosa dovrei fare?» chiese lei. «Non mangiare perché il cibo non era destinato ad essere mangiato da me? Andare via e vivere in una spelonca da qualche parte?»

«Questione alquanto imbarazzante, eh?» ammise Bentagliato. «Tuttavia questo è il tuo fato, temo. Se il mondo non ti può percepire, tu non esisti. Io sono un mago. Noi sappiamo…»

«Non osare dirlo ancora.»

Keli balzò in piedi.

Cinque generazioni prima, uno degli antenati di lei aveva fermato la sua orda di tagliatori di gole a qualche miglio di distanza dalla collina di Sto Lat e aveva osservato la città addormentata con una espressione particolarmente determinata, quindi aveva detto: "Questa andrà bene. Soltanto perché sei nato in sella non significa che tu debba morire su quel dannato affare".

Cosa abbastanza strana, molte delle caratteristiche fisiche distintive di quell’uomo erano state trasmesse, per qualche scherzo dell’ereditarietà, a questa discendente,[3] giustificando la attrattiva piuttosto idiosincratica di lei. Esse non furono mai altrettanto evidenti quanto in quel momento. Perfino Bentagliato ne rimase impressionato. In quanto a determinazione, quella ragazza avrebbe potuto spaccare le pietre coi denti.

Esattamente con lo stesso tono di voce che il suo antenato aveva usato quando si era rivolto ai suoi stanchi, sudati seguaci prima dell’attacco,[4] ella disse: «No. No, io non accetterò. Non ho alcuna intenzione di trasformarmi in una specie di fantasma. Tu mi aiuterai, mago.»

Il subconscio di Bentagliato riconobbe quel tono. Aveva degli armonici che imponevano perfino alle termiti che si trovavano nelle assi del pavimento di smettere quello che stavano facendo e di prestare attenzione. Non era come esprimere un’opinione, era come dire: così andranno le cose.

«Io, signora?» disse lui con voce tremolante. «Non riesco a capire che cosa potrei fare per…»

Venne strattonato via dalla seggiola e fuori, sulla strada, mentre la tunica gli svolazzava dietro. Keli marciava verso il palazzo con le spalle inquartate, trascinando il mago dietro di sé come una bambola di pezza riluttante. Era il tipo di andatura che le madri adottavano per calare sulla scuola locale quando il loro piccolo tornava a casa con un occhio nero: era impossibile fermarla, era come l’Avanzata del Tempo.

«Che cosa intendi fare?» balbettò Bentagliato, terribilmente conscio del fatto che non avrebbe potuto fare nulla per resistere, qualunque cosa ella avesse avuto in mente.

«È la tua giornata fortunata, mago.»

«Oh. Bene» disse lui con un fil di voce.

«Sei stato appena proclamato Riconoscitore Reale.»

«Oh. Che cosa implica esattamente?»

«Tu dovrai ricordare a tutti che io sono viva. È molto semplice. Avrai diritto a tre robusti pasti al giorno e ti verrà costodita la biancheria. Affrettati, amico.»

«Reale?»

«Tu sei un mago. Penso che ci sia qualche cosa che dovresti sapere» disse la principessa.


«CIOÈ?» disse la Morte.

(Questo era un trucco di tipo cinematografico adattato alla stampa. La Morte non stava affatto parlando con la principessa. Si trovava in effetti nel proprio studio e parlava con Morty. Tuttavia è di un certo effetto, no? Viene probabilmente chiamato dissolvenza rapida oppure taglio incrociato a zoom. O qualcosa del genere. In una industria in cui il tecnico più anziano viene chiamato "il Ragazzo Migliore" potrebbe essere definito in qualsiasi maniera.)

«E QUESTO COS’È» aggiunse, avvolgendo un pezzetto di seta nera a un amo attaccato a un morsetto che teneva fermo sulla sua scrivania.

Morty esitò. Per lo più questo atteggiamento era dovuto alla paura e all’imbarazzo, ma era anche dovuto al fatto che la vista di uno spettro incappucciato che legava tranquillamente mosche secche avrebbe bloccato chiunque. Inoltre Ysabell stava seduta all’altra estremità della stanza, apparentemente intenta ad un lavoro di cucito, ma lo guardava anche attraverso una nuvola di astiosa disapprovazione. Lui poteva percepire lo sguardo degli occhi cerchiati di rosso di lei trapanargli la parte posteriore del collo.

La Morte inserì sulla mosca artificiale qualche pezzo di penna di corvo e fischiettò un motivetto tra i denti, mentre si affaccendava, non avendo null’altro attraverso cui fischiettare. Sollevò lo sguardo.

«UHMMM?»

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