Lo sportello si richiuse e qualche secondo dopo i due piatti vennero spinti al di là di esso. Harga scosse la testa con entusiastico stupore.

Era stato così per tutta la serata. Le uova erano chiare e luccicanti, i fagioli brillavano come rubini e le patatine fritte erano di quella fragranza dorata dei corpi abbronzati su spiagge esclusive. L’ultimo cuoco che Harga aveva avuto aveva tirato fuori le patatine come fossero piccoli sacchetti di carta pieni di pus.

Harga si gettò attorno un’occhiata nel ristorante denso di vapore. Nessuno lo stava guardando. Sarebbe arrivato a capo di questa faccenda. Bussò nuovamente sul passa vivande.

«Un tramezzino di alligatore» disse. «E fallo sve…»

Lo sportello si aprì di colpo. Dopo pochi secondi, Harga si fece coraggio e sbirciò sotto il coperchio del lungo piatto da portata che aveva di fronte. Non avrebbe potuto dire che si trattava di un alligatore e non avrebbe nemmeno potuto dire che non lo era. Bussò ancora una volta sullo sportello.

«D’accordo» disse «non mi sto lamentando, voglio soltanto sapere come hai fatto a fare tanto in fretta.»

«IL TEMPO NON È IMPORTANTE.»

«Dici?»

«ESATTAMENTE.»

Harga decise di non mettersi a discutere.

«Be’, stai facendo un lavoro maledettamente buono, ragazzo» disse.

«COME SI DICE QUANDO UNO SI SENTE CALDO E CONTENTO E DESIDERA CHE LE COSE RIMANGANO SEMPRE COSÌ?»

«Penso che la potresti chiamare felicità» rispose Harga.

All’interno della piccola, ingombra cucina, ricoperta da strati di grasso decennali, la Morte si girava di scatto e turbinava su se stessa, tagliando, affettando e friggendo. Le padelle balenavano attraverso il vapore rancido.

Aveva aperto la porta sulla fresca aria notturna e una dozzina di gatti del quartiere erano entrati dentro, attirati dalle ciotole di latte e carne… quelli migliori che Harga aveva, se soltanto lo avesse saputo!… che erano state piazzate in posizione strategica su tutto il pavimento. Di tanto in tanto, la Morte si fermava nel suo lavoro e accarezzava uno dei gatti dietro le orecchie.

«Felicità» disse e rimase sorpresa dal suono della sua stessa voce.


Bentagliato, mago e Reale Riconoscitore per nomina della regina, si trascinò fino all’ultimo dei gradini della torre e si appoggiò contro la parete, aspettando che il cuore gli smettesse di pulsare furiosamente.

A dire il vero la torre non era particolarmente alta, era soltanto alta per Sto Lat. Per la tipica progettazione e il profilo assomigliava al solito genere di torre nella quale imprigionare principesse: essa veniva però usata principalmente per immagazzinare mobili vecchi.

Tuttavia offriva una vista insuperabile della città e della Pianura Sto, vale a dire che si poteva vedere una impressionante quantità di cavoli.

Bentagliato arrivò fino ai merli sgretolati della torre e guardò fuori nella foschia del giorno. Essa era, forse, un po’ più fosca del solito. Se si sforzava, riusciva a intravvedere una specie di tremolio nel cielo. Se poi impegnava a fondo la propria immaginazione, poteva sentire una specie di ronzio fuori, nei campi di cavoli, un suono simile a quello che produce qualcuno che frigge le locuste. Rabbrividì.

In un momento come quello le sue mani dettero automaticamente qualche colpetto sulle tasche e non trovarono null’altro se non un mezzo sacchetto di gelatine, squagliatesi in un ammasso appiccicoso, e un torsolo di mela. Nessuna delle due cose gli offriva una grande consolazione.

Quello che Bentagliato desiderava era ciò che qualsiasi normale mago avrebbe desiderato in un momento simile e cioè qualcosa da fumare. Avrebbe potuto uccidere per un sigaro e si sarebbe potuto spingere fino ad una ferita superficiale per un mozzicone schiacciato. Cercò di ricomporsi. La determinazione era fondamentale per la fibra morale: l’unico problema era che la fibra non apprezzava affatto i sacrifici che lui stava facendo per essa. Si diceva che un mago veramente grande dovesse trovarsi costantemente sotto pressione. In quel momento si sarebbe potuto usare Bentagliato come corda da arco.

Voltò la schiena al paesaggio cavolistico e si incamminò lungo i gradini del percorso tortuoso fino alla sezione principale del palazzo.

Eppure, pensò fra sé, pareva che la campagna venisse lavorata. La popolazione non sembrava essere contraria al fatto che stesse per avvenire un’incoronazione, sebbene non avesse ben chiaro in mente chi stesse per essere incoronato. Ci sarebbe stato uno sbandieramento nelle strade e Bentagliato aveva fatto in modo che la fontana della piazza principale zampillasse, se non vino, almeno una accettabile birra ricavata dai cavoli. Ci sarebbe stata gente che ballava danze popolari, se si fossero poi trovati con l’acqua alla gola. Ci sarebbero state corse di bambini. Ci sarebbe stato un manzo arrosto. La carrozza reale era stata nuovamente dorata e Bentagliato era ottimista rispetto al fatto che la gente potesse venire persuasa a notarla mentre essa passava.

L’Alto Sacerdote del Tempio del Cieco lo avrebbe costituito un problema. Bentagliato lo aveva classificato come una cara vecchia anima la cui esperienza col coltello era talmente inaffidabile che metà delle offerte sacrificali si stancavano di aspettare e se ne andavano via. L’ultima volta che aveva cercato di sacrificare una capra essa aveva avuto il tempo di dare alla luce due gemelli prima che egli l’avesse messa a fuoco e, quindi, il coraggio della maternità si era manifestato facendole scacciare tutto il clero dal tempio.

Le probabilità che egli riuscisse a sistemare la corona sulla testa giusta, perfino in circostanze normali, erano soltanto mediocri, aveva calcolato Bentagliato: sarebbe dovuto restare personalmente accanto al vecchio e avrebbe dovuto tentare di guidare le sue mani tremolanti.

Eppure, perfino quello non era il grosso problema. Il grosso problema era molto più grosso di così. Il grosso problema gli era stato gettato addosso dal Cancelliere dopo la colazione.

«Fuochi artificiali?» aveva detto Bentagliato.

«È il genere di cosa che si ritiene sappiano fare molto bene i suoi colleghi maghi, no?» aveva replicato il Cancelliere in tono secco quanto una pagnotta vecchia di una settimana. «Lampi e scoppi e che so io. Ricordo un mago, quando ero ragazzo…»

«Temo di non sapere nulla di fuochi artificiali» aveva replicato Bentagliato, con voce designata a comunicare che lui fosse molto fiero di questa ignoranza.

«Un sacco di razzi» aveva ricordato il Cancelliere con entusiasmo. «Candele di Ankh. Lampi di tuono. E cosucce da poter tenere in mano. Non sarà una vera incoronazione, senza fuochi artificiali.»

«Sì, certo, ma vede…»

«Buon uomo» aveva detto seccamente il Cancelliere «sapevamo di potere contare su di lei. Moltissimi razzi, capisce, e a completamento ci dovrebbe essere un pezzo… faccia attenzione… qualcosa di veramente mozzafiato come un ritratto di… di…» i suoi occhi lo fissarono con uno sguardo che stava diventanto deprimentemente familiare per Bentagliato.

«Della Principessa Keli» aveva detto stancamente.

«Ah. Già. Lei» aveva confermato il Cancelliere. «Un ritratto di… quello che ha detto lei… creato coi fuochi artificiali. Ovviamente tutte queste cose sono piuttosto semplici per voi maghi, alla gente piacciono. Non c’è nulla come un bello scoppio, una esplosione e un po’ di gente ai balconi che saluta per mantenere in perfetta forma i muscoli della lealtà, è quello che ho sempre sostenuto. Provveda lei. Razzi. Con simboli magici.»

Un’ora prima Bentagliato aveva sfogliato l’indice del Libro di Magia dei Mostri da Divertimento e aveva con grande cautela messo insieme un gran numero di comuni ingredienti dando poi loro fuoco.

"Che cosa strana sono le sopracciglia" aveva riflettuto fra sé. "Non le noti davvero mai finché non spariscono."

Con gli occhi cerchiati di rosso e puzzando leggermente di fumo, Bentagliato trotterellò verso gli appartamenti reali passando oltre frotte di domestiche molto impegnate a svolgere quelli che costituiscono i loro compiti, che sembrano sempre necessitare della presenza di almeno tre di esse. Ogni volta che avvistavano Bentagliato, generalmente si zittivano, si affrettavano ad allontanarsi a testa bassa e poi a scoppiare in risolini soffocati lungo il corridoio. Questa cosa infastidì parecchio Bentagliato. "Non tanto" pensò velocemente fra sé "per qualche strana considerazione di tipo personale, quanto perché ai maghi dovrebbe essere riservato un maggior rispetto." Come se non bastasse, parecchie delle domestiche avevano un modo di guardarlo che gli stimolava immediatamente e distintamente dei pensieri molto poco da mago.

"È proprio vero" pensò. "La via del progresso culturale è simile a un percorso che passa attraverso mezzo miglio di vetri rotti."

Bussò alla porta della suite di Keli. La aprì una domestica.

«La tua padrona è qui?» domandò lui, col tono più altezzoso che riuscisse a tirar fuori.

La ragazza si portò una mano sulla bocca. Le spalle le si misero a fremere. Gli occhi le scintillavano. Tra le dita le trapelò un suono simile a quello provocato da uno sbuffo di vapore.

"Non posso farci niente" pensò Bentagliato "sembra proprio che io abbia questo effetto sorprendente sulle donne."

«Si tratta di un uomo?» disse la voce di Keli che arrivava da dentro. Gli occhi della ragazza sembrarono vagare nel vuoto: piegò la testa come se non fosse stata certa di quello che aveva udito.

«Sono io, Bentagliato» rispose Bentagliato.

«Oh, allora va bene. Puoi entrare.»

Bentagliato passò oltre la ragazza e cercò di ignorare la risata soffocata che quella emise quando scappò via dalla stanza. Era chiaro che tutti sapevano che un mago non aveva bisogno di uno chaperon. Era soltanto il tono tipico della principessa "Oh, allora va bene" che lo aveva ferito dentro.

Keli stava seduta davanti alla sua toeletta e si spazzolava i capelli. Pochissimi uomini al mondo vengono a scoprire che cosa indossa una principessa sotto i suoi abiti e Bentagliato si unì a quelli con estrema riluttanza e con un rimarchevole autocontrollo. Soltanto il frenetico ballonzolare del suo pomo d’Adamo lo tradì. Non c’era alcun dubbio, non avrebbe potuto essere in grado di operare magie per giorni.

Lei si voltò e lui annusò una zaffata di talco profumato. Per settimane, maledizione, per settimane.

«Sembra che tu abbia un po’ caldo, Bentagliato. C’è qualcosa che non va?»

«Naaaarrg.»

«Come, scusa?»

Lui cercò di scuotersi. "Concentrati sulla spazzola, amico, la spazzola." «Soltanto qualche esperimento magico, mia signora. Qualche bruciacchiatura superficiale.»

«Si sta muovendo ancora

«Temo di sì.»

Keli si voltò nuovamente verso lo specchio. Aveva una espressione durissima.

«Abbiamo un po’ di tempo?»

Questa era proprio la domanda che il mago aveva temuto. Luì aveva fatto tutto quello che era stato in suo potere. L’Astrologo Reale era stato incalzato tanto a lungo da fargli ammettere che l’indomani sarebbe stato l’unico giorno possibile in cui la cerimonia potesse avere luogo e così Bentagliato l’aveva organizzata in modo che essa incominciasse un secondo dopo la mezzanotte. Aveva implacabilmente decurtato la partitura della fanfara di trombe. Aveva calcolato il tempo dell’invocazione agli dei dell’Alto Sacerdote e poi l’aveva tagliata pesantemente: ci sarebbe stato un bel trambusto quando gli dei lo avessero scoperto. La cerimonia dell’unzione con i sacri olii era stata ridotta ad un veloce buffetto dietro alle orecchie. Gli skateboard erano una invenzione sconosciuta nel Disco: se non lo fossero stati, il percorso di Keli lungo il corridoio sarebbe stato anticostituzionalmente veloce. Ma non era ancora sufficiente. Cercò di farsi animo.

«Penso proprio di no» disse. «Potrebbe essere una cosetta davvero rapida.»

Lui vide che la ragazza lo fissava tramite lo specchio.

«Quanto rapida?»

«Ehm. Molto.»

«Stai forse cercando di dire che potrebbe raggiungerci nel momento stesso della cerimonia?»

«Ehm. È più probabile che arrivi anche prima.» disse Bentagliato miserevolmente.

Non si udì alcun altro suono oltre quello del tamburellare delle dita di Keli sul bordo della tavola. Bentagliato si chiese se lei stesse forse per crollare oppure per distruggere lo specchio. Invece domandò: «Come fai a saperlo?»

Lui si chiese se se la sarebbe potuta cavare dicendo qualcosa del tipo: "Sono un mago, noi sappiamo queste cose", ma decise di non farlo. L’ultima volta che aveva pronunciato quella frase lei lo aveva minacciato con un’ascia.

«Ho chiesto ad una delle guardie informazioni sulla taverna di cui aveva parlato Morty» disse. «Poi sono riuscito a calcolare la distanza approssimativa che la cupola doveva percorrere. Morty ha detto che si muoveva ad un lento passo di marcia e io ho stimato che il suo passo è all’incirca di…»

«Così facile? Non hai usato la magia?»

«Soltanto il buon senso. È molto più affidabile, alla lunga.»

La principessa allungò una mano e diede un buffetto su quella di lui.

«Povero vecchio Bentagliato» disse.

«Ho soltanto vent’anni, mia signora.»

La principessa si alzò in piedi e si diresse nello spogliatoio. Una delle cose che si imparano quando si è principesse è di essere sempre più vecchie di chiunque sia di rango inferiore.

«Sì, suppongo debba esistere qualcosa come maghi giovani» disse da sopra le spalle. «È soltanto che la gente pensa sempre che essi siano vecchi. Mi chiedo perché sia così.»

«I rigori della professione, mia signora» rispose Bentagliato, roteando gli occhi. Poteva avvertire il fruscio della seta.

«Che cosa ti ha fatto decidere di diventare mago?» La voce di lei era attutita, come se avesse qualche cosa sopra la testa.

«È un lavoro che si fa stando in casa e che non prevede gravi sollevamenti» disse Bentagliato. «E poi immagino anche di aver desiderato conoscere come funziona il mondo.»

«Ci sei riuscito, allora?»

«No.» Bentagliato non era molto abile nelle conversazioni di società, altrimenti non avrebbe mai permesso alla propria mente di distrarsi a sufficienza da chiedere: «E che cosa ha fatto decidere te a diventare principessa?»

Dopo una pausa di riflessivo silenzio lei rispose: «È stato deciso per me, sai?»

«Mi spiace, io…»

«Essere reali è una specie di tradizione di famiglia. Ritengo che avvenga la stessa cosa per la magia: senza dubbio anche tuo padre era un mago.»

Bentagliato digrignò i denti. «Ehm. No» disse. «Non esattamente. A dire il vero assolutamente no.»

Lui sapeva perfettamente che cosa lei avrebbe detto dopo ed ecco che la frase arrivò, puntuale come il tramonto, in una voce tinta dal divertimento e dal fascino.

«Oh! È proprio vero che ai maghi non è permesso di…»

«Be’, se è tutto io dovrei davvero andare» disse Bentagliato a voce alta. «Se qualcuno dovesse desiderarmi, basta che segua le esplosioni. Io… gnnnnhhh!»

Keli era uscita dallo spogliatoio.

Ora, i vestiti femminili non interessavano particolarmente Bentagliato… a dire il vero, di solito, quando pensava alle donne, le sue raffigurazioni mentali raramente includevano la presenza di vestiti… tuttavia la vista che aveva davanti riuscì veramente a mozzargli il fiato. Chiunque avesse ideato quell’abito non aveva saputo quando fermarsi. Avevano messo dei pizzi sopra la seta e li avevano bordati con vermino nero e avevano applicato perle in ogni punto che sembrasse vuoto, avevano anche arricciato e inamidato le maniche e poi vi avevano aggiunto filigrana argentata e avevano ricominciato da capo con la seta.

Era davvero stupefacente che cosa potesse venire realizzato con qualche chilo di metallo pesante, qualche irritazione di mollusco, un po’ di roditori morti e una immensa quantità di filo che veniva fuori dal sedere degli insetti. L’abito non era tanto indossato quanto occupato: se le balze che sporgevano verso l’esterno non erano sorrette da qualche rotella, allora Keli doveva essere ben più forte di quanto lui non avesse immaginato.

«Che ne pensi?» somandò lei girandosi lentamente. «È stato indossato da mia madre, da mia nonna e da sua madre.»

«Come, tutte insieme?» disse Bentagliato, abbastanza pronto a crederlo. "Come è potuta entrare lì dentro?" si stava intanto domandando. "Deve esserci una porticina sul dietro…"

«Fa parte della eredità di famiglia. Sul corpetto ci sono diamanti veri.»

«Quale è il corpetto?»

«Questo pezzo qui.»

Bentagliato rabbrividì. «È molto imponente» disse quando poté darsi il permesso di parlare. «Non pensi, tuttavia, che sia un po’ troppo maturo

«È regale.»

«Già, ma forse non ti permetterà di muoverti molto velocemente.»

«Non ho alcuna intenzione di correre. Deve esserci dignità.» Ancora una volta la determinazione delle sue mascelle tracciò la linea di discendenza fino ad arrivare al suo vecchio antenato conquistatore, che aveva preferito muoversi sempre molto velocemente e che conosceva tanto della dignità, quanto poteva essere portato sulla punta di una affilata spada.

Bentagliato allargò le braccia.

«D’accordo» disse. «Va bene. Faremo tutto il possibile. Spero soltanto che Morty venga con qualche buona idea.»

«È difficile riporre della fiducia in un fantasma» disse Keli. «Cammina attraverso le pareti!»

«Ci ho pensato anche io» confermò Bentagliato. «È un mistero, no? Cammina attraverso le cose soltanto quando non sa di stare facendolo. Penso che sia un difetto di fabbricazione.»

«Cosa?»

«Ne ero quasi certo, la notte scorsa. Lui sta diventando reale.»

«Ma siamo tutti reali! Almeno tu lo sei e suppongo di esserlo anche io.»

«Ma lui sta diventando più reale. Estremamente reale. Quasi reale quanto la Morte e non si diventa più reali. Assolutamente non molto più reali di così.»


«Ne sei certa?» chiese Albert, con espressione sospettosa.

«Certamente» disse Ysabell. «Calcolali da solo se preferisci. Albert guardò nuovamente il grosso libro, il suo volto era il ritratto stesso della perplessità.»

«Be’, potrebbero anche essere giusti» ammise con scarsa grazia e copiò i due nomi su un pezzo di carta. «Comunque c’è un modo per scoprirlo.»

Aprì il cassetto superiore della scrivania della Morte e tirò fuori un grosso anello portachiavi di ferro. C’era un’unica chiave.

«ADESSO CHE SUCCEDE?» disse Morty.

«Dobbiamo andare a prendere le clessidre» rispose Albert. «Devi venire con me.»

«Morty!» sibilò Ysabell.

«Che c’è?»

«Quello che hai appena detto…» Lei piombò in silenzio e poi aggiunse: «Oh, niente. Soltanto che suonava strano…»

«Ho soltanto chiesto che cosa deve succedere adesso» disse Morty.

«Sì, ma… oh, non preoccuparti.»

Albert passò oltre di loro e scivolò lungo il corridoio come un ragno a due gambe finché non raggiunse la porta che veniva sempre tenuta chiusa a chiave. La chiave calzava perfettamente. La porta si aprì. Non si sentì nemmeno il minimo cigolio dai cardini, soltanto un soffio di silenzio più intenso.

E il fragore della sabbia.

Morty e Ysabell rimasero in piedi sull’arco della porta, ammutoliti, mentre Albert avanzava attraverso i corridoi pieni di clessidre. Il suono non entrava nel corpo soltanto attraverso le orecchie, vi arrivava anche passando per le gambe fino ad arrivare al cranio e riempiva il cervello finché quello non riusciva a pensare ad altro oltre che al frusciante, sibilante e cupo rumore, il suono di milioni di vite che si stavano vivendo. E stavano correndo verso la loro inevitabile destinazione.

Sollevarono lo sguardo sulle infinite scansie di clessidre, ognuna differente, ognuna con un nome. La luce che proveniva dalle torce si diffondeva dalle pareti cogliendone la parte illuminata così che su ogni pezzo di vetro brillava una stella. Le pareti più lontane della stanza si perdevano in una galassia di luce.

Morty sentì le dita di Ysabell stringerglisi su un braccio. Quando la ragazza parlò aveva una voce sforzata.

«Morty alcune di esse sono così piccole.»

«LO SO.»

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