Morgase era distesa ma sveglia e fissava il soffitto nell’oscurità mitigata solo dalla luce lunare, e cercava di pensare a sua figlia. Come coperta aveva solo un lenzuolo di lino ma, nonostante il caldo, indossava una pesante camicia da notte, chiusa fino al collo. Non le importava di sudare; indipendentemente da quanti bagni facesse, o da quanto fosse calda l’acqua, non si sentiva mai pulita. Elayne doveva trovarsi al sicuro nella Torre Bianca. Talvolta le sembrava che fossero passati anni da quando si era fidata di un’Aes Sedai, eppure, per quanto fosse paradossale, la Torre era di certo il posto più sicuro per Elayne. Cercò di pensare a Gawyn, che doveva trovarsi a Tar Valon con sua sorella, orgoglioso di lei e impaziente di essere il suo scudo ogni volta che lei ne aveva bisogno, e a Galad — perché non lasciavano che lo vedesse? Lo amava come se lo avesse partorito lei, e quel ragazzo ne aveva più bisogno degli altri due. Stava cercando di pensare a loro. Era difficile pensare a qualsiasi altra cosa, solo che... Gli occhi grandi fissavano il soffitto, pieni di lacrime.
Aveva sempre creduto di essere abbastanza coraggiosa da poter fare qualsiasi cosa per affrontare qualunque situazione. Aveva sempre creduto che poteva riprendersi e continuare a lottare. Durante un’ora infinita che le aveva lasciato solo pochi lividi che stavano già scomparendo, Rhadam Asunawa aveva iniziato a insegnarle qualcosa di diverso. Eamon Valda aveva completato la sua educazione con una sola domanda. E le ferite che la sua risposta le aveva lasciato nel cuore non erano scomparse. Avrebbe dovuto tornare da Asunawa di persona e dirgli di fare del suo peggio. Avrebbe dovuto... Pregò che Elayne fosse salva. Forse non era giusto concentrarsi più su Elayne che su Galad o Gawyn, ma lei sarebbe stata la prossima regina di Andor. La Torre non si sarebbe lasciata sfuggire la possibilità di mettere un’Aes Sedai sul trono del Leone. Se solo avesse potuto vedere Elayne, vedere tutti i suoi figli ancora una volta.
Sentì un fruscio nella camera da letto e trattenne il fiato, cercando di non tremare. La fioca luce lunare le permetteva appena di vedere la spalliera del letto. Valda si era diretto a nord di Amador il giorno prima, con Asunawa e mille Manti Bianchi, per affrontare il Profeta; ma se era tornato indietro, se lui...
La sagoma che vide nell’oscurità era quella di una donna, troppo bassa per essere Lini. «Ho immaginato che fossi ancora sveglia» disse sottovoce Breane. «Bevi questo, ti aiuterà.» La Cairhienese cercò di metterle in mano una tazza d’argento. Emanava un odore leggermente acre.
«Aspetta che sia io a chiamarti per portarmi qualcosa da bere» rispose nervosa Morgase, spingendo via la tazza. Del liquido caldo le cadde sulla mano e sul lenzuolo. «Mi ero quasi addormentata, prima che entrassi tu» mentì. «Vai via!»
Invece di obbedire, la donna rimase a guardarla, con il volto in ombra. A Morgase proprio non piaceva Breane Taborwin. Che fosse davvero di nobili natali e avesse poi perso tutti i suoi diritti come sosteneva, o fosse semplicemente una cameriera che aveva imparato a fingere bene, obbediva solo se e quando lo decideva lei e diceva tutto quello che le pareva. Come in quel momento.
«Ti lamenti come una pecora, Morgase Trakand.» Anche sommessa, la sua voce era colma di rabbia. Posò la tazza sul comodino facendola sbattere; altro liquido schizzò sul ripiano. «Bah! Molte altre donne hanno sofferto di peggio. Tu sei viva. Non hai ossa spezzate e sei ancora lucida. Resisti, lascia che il passato sia passato e procedi con la tua vita. Sei talmente nervosa che gli uomini camminano in punta di piedi, anche mastro Gill. Lamgwin non ha dormito quasi per niente in queste ultime tre notti.»
Morgase arrossì, furiosa. Neanche ad Andor le cameriere parlavano in quel modo. Afferrò la donna per un braccio, ma l’ansia combatteva con lo scontento. «Loro non lo sanno, vero?» Se l’avessero scoperto avrebbero cercato di vendicarla, di salvarla. Sarebbero morti. Tallanvor sarebbe morto.
«Io e Lini abbiamo steso dei veli davanti ai loro occhi» la derise Breane, liberandosi dalla presa e agitando una mano verso di lei. «Se potessi salvare Lamgwin, lascerei che scoprissero quale razza di pecora lamentosa sei, ma in te lui vede la Luce incarnata. Io invece vedo una donna che non ha il coraggio di accettare quello che riceve. Non lascerò che tu lo distrugga con la tua codardia.»
Codardia. Morgase era oltraggiata, ma non disse una parola. Strinse il lenzuolo fra le mani. Non credeva che avrebbe potuto decidere a sangue freddo di giacere con Valda, ma se l’avesse fatto, avrebbe potuto convivere con quel rimorso. Sì, ci sarebbe riuscita. Ma assai diverso sarebbe stato accettare solo per paura di affrontare di nuovo le corde con i nodi e gli aghi di Asunawa. Per quanto lei avesse gridato sotto le attenzioni di Asunawa, era stato Valda a dimostrarle i veri limiti del suo coraggio, così lontani da dove lei si era illusa che fossero. Il tocco di Valda, il suo letto, avrebbe potuto dimenticarli con il tempo, ma non sarebbe mai stata in grado di lavare via la vergogna di quel sì uscito dalle sue labbra. Breane le aveva sbattuto in faccia la verità, e lei non sapeva come rispondere.
Quella pena le fu risparmiata da un rumore di passi proveniente dalla stanza esterna. La porta della camera da letto si spalancò e un uomo che correva si fermò dopo aver fatto un passo nella stanza.
«Bene, sei sveglia» disse la voce di Tallanvor dopo un momento. E così il cuore di Morgase poté riprendere a battere e i suoi polmoni tornare a respirare. Cercò di lasciare la mano di Breane — non ricordava nemmeno di averla afferrata — ma, con sua sorpresa, la donna la strinse forte prima di lasciarla.
«Sta succedendo qualcosa» proseguì Tallanvor, dirigendosi verso l’unica finestra. Rimase di lato per non essere visto e scrutò nella notte. La luce della luna delineava la sua figura alta. «Mastro Gill, vieni e dimmi quello che vedi.»
Dalla porta apparve un uomo dalla testa calva sulla quale si rifletteva la debole luce. Dietro di lui, nell’altra stanza, si mosse una sagoma grande; Lamgwin Dorn. Basel Gill si accorse che Morgase era ancora a letto, e il leggero luccichio della sua testa scattò quando l’uomo distolse lo sguardo, anche se con ogni probabilità non riusciva a vedere nemmeno il letto. Mastro Gill era anche più grosso di Lamgwin, ma non così alto. «Perdonami, mia regina, non intendevo...» L’uomo si schiarì la voce tossendo forte, e mosse i piedi a disagio. Se avesse avuto il cappello, in quel momento ci avrebbe giocato nervosamente, o lo avrebbe stretto fra le mani. «Ero nel corridoio lungo, stavo andando... stavo andando...» Alle latrine, ecco cosa non riusciva a dire. «In ogni caso, ho guardato fuori da una delle finestre e ho visto un... un grosso uccello, credo. Si è posato su una delle caserme a sud.»
«Un uccello!» la voce acuta di Lini fece saltare mastro Gill dentro la stanza, liberando così la soglia. O forse era stato il colpo secco che la donna gli aveva dato fra le costole. Lini di solito approfittava di ogni vantaggio concessole dai capelli grigi. Lo oltrepassò mentre ancora si legava la vestaglia. «Sciocchi! Cervelli di bue! Avete svegliato la mia bamb...» Lini si fermò di colpo, tossendo. Non si dimenticava mai di essere stata la nutrice di Morgase e di sua madre, ma non si lasciava mai sfuggire cose simili davanti agli altri. Sapeva che se l’avesse fatto in quel momento sarebbe stata nei guai, e questo trapelò anche dalla sua voce. «Avete svegliato la regina per un uccello!» Si sistemò la retina per i capelli infilandovi dentro con gesto automatico le ciocche che ne erano uscite. «Hai bevuto, Basel Gill?» Morgase si stava chiedendo la stessa cosa.
«Non so se era un uccello» protestò mastro Gill. «Non somigliava a nessun uccello, ma cos’altro vola, se non i pipistrelli? Era grosso. Alcuni uomini sono scesi dalla sua schiena e ce n’era un altro ancora a cavalcioni sul collo dell’animale quando è volato via di nuovo. Mentre mi prendevo a schiaffi per svegliarmi un’altra di quelle... cose... è atterrata e ne sono scesi altri uomini, poi ne è arrivato ancora un altro e allora ho deciso che era il momento di avvisare lord Tallanvor.» Lini non tirò su con il naso, ma Morgase poteva quasi sentire la forza del suo sguardo, e non era diretto a lei. Anche l’uomo che aveva abbandonato la sua locanda per seguirla si sentiva di sicuro quegli occhi addosso. «È la verità della Luce, mia regina» insiste.
«Dannazione!» esclamò Tallanvor. «Qualcosa... qualcosa... è appena atterrato sul tetto delle caserme a nord.» Morgase non lo aveva mai sentito scosso. Lei voleva solo che se ne andassero tutti via e la lasciassero con le sue miserie, ma non sembrava ci fosse speranza. Per molti versi Tallanvor era peggio di Breane. Molto peggio.
«La mia vestaglia» disse Morgase, e per una volta Breane fu lesta a obbedirle. Mastro Gill si voltò subito verso la parete mentre Morgase scendeva dal letto e indossava la vestaglia di seta.
La regina andò alla finestra legando la cintura. Le lunghe caserme a nord dominavano il cortile, quattro vasti piani con i tetti piatti di pietra scura. Non si vedeva nemmeno una luce, lì o in qualsiasi altra parte della Fortezza. Tutto era immobile e silenzioso. «Non vedo nulla, Tallanvor.»
L’uomo la tirò indietro. «Guarda bene» le disse.
Un tempo Morgase avrebbe rimpianto la mano che aveva lasciato la sua spalla e si sarebbe irritata per questo rimpianto, nonché per il tono di voce usato dall’uomo. Adesso, dopo Valda, provava solo sollievo. E irritazione per quel sollievo nonché per il tono di voce dell’uomo. Era troppo irrispettoso, troppo ostinato e troppo giovane. Non era molto più grande di Galad.
Le ombre si muovevano insieme alla luna, ma tutto il resto era immobile. Lontano, nella città di Amador, un cane abbaiò, seguito da altri, poi quando Morgase aprì la bocca per congedare Tallanvor e tutti gli altri, una massa scura sul tetto della caserma si inarcò e scese in picchiata.
Tallanvor aveva detto di aver visto ‘qualcosa’, e lei non aveva un nome migliore per definire quella creatura. L’impressione era quella di un corpo lungo che sembrava assai grosso, alto più di quanto poteva esserlo un uomo; aveva grandi ali scheletriche simili a quelle di un pipistrello, che si chiusero tutte quando l’essere discese verso il cortile. Una figura, un uomo, era seduta proprio sul collo di quella creatura sinuosa. Poi le ali ripresero a battere e il... qualcosa... decollò, oscurando la luce della luna mentre passava alta nel cielo trascinandosi dietro la lunga coda sottile.
Morgase chiuse la bocca con lentezza. Poteva essere solo progenie dell’Ombra. Trolloc e Myrddraal non erano le uniche creature distorte dall’Ombra della Macchia. Non le avevano mai insegnato una cosa simile, ma le sue istruttrici alla Torre le avevano spiegato che in quel posto vivevano cose che nessuno aveva mai visto con chiarezza, e non c’erano sopravvissuti per descriverle. Come potevano quelle creature essersi spinte così a sud?
A un tratto, un lampo di luce dardeggiò con una grande esplosione in direzione dei cancelli principali, poi ancora in due punti differenti lungo le mura esterne. Morgase era convinta che si trattasse di altri due cancelli.
«Che succede, per il Pozzo del Destino?» mormorò Tallanvor in un momento di silenzio prima che i gong di allarme cominciassero a risuonare nell’oscurità. Si sollevarono grida e strilli, e suoni bassi che parevano note di corno. Il fuoco schizzò con il boato del tuono, in più punti.
«L’Unico Potere» sussurrò Morgase. Lei non era in grado d’incanalare, ma riusciva a riconoscere l’Unico Potere. Le sue congetture sulla progenie dell’Ombra si dileguarono. «Deve... deve... trattarsi di Aes Sedai.» Sentì qualcuno ansimare dietro si lei. Lini o Breane. Basel Gill mormorò agitato ‘Aes Sedai’ e Lamgwin sussurrò in risposta, ma a voce troppo bassa per essere sentito. Lontano, nell’oscurità, si sentiva il clangore di metallo contro metallo, il fuoco rombava e i fulmini striavano il cielo terso. Soffocato dal gran rumore, si sentiva il suono sommesso delle campane d’allarme della città, ma stranamente erano poche.
«Aes Sedai» Tallanvor sembrava dubbioso. «Perché adesso? Per liberarti, Morgase? Credevo che non potessero usare il Potere contro gli uomini, solo contro la progenie dell’Ombra; e poi, se quella creatura non era progenie dell’Ombra, non so cos’altro fosse.»
«Non sai di cosa stai parlando!» rispose Morgase, girandosi adirata verso di lui. «Tu...» Il dardo di una balestra batté contro la cornice della finestra facendo volare una pioggia di schegge di pietra. L’aria le carezzò il viso quando il dardo passò tra lei e Tallanvor piantandosi poi nella testiera del letto con un rumore sordo. Pochi centimetri più a destra e tutti i suoi problemi sarebbero stati risolti per sempre.
Morgase non si mosse, ma Tallanvor la tirò via dalla finestra imprecando. Anche alla luce della luna, lei poté vedere l’espressione corrucciata dell’uomo mentre la studiava. Per un momento pensò che forse le avrebbe toccato il viso; in tal caso, non sapeva se avrebbe pianto o gridato, se gli avrebbe ordinato di andare via per sempre o...
E invece lui disse: «Con ogni probabilità si tratta di quegli uomini, quei Shamin o come si chiamano.» Tallanvor insisteva nell’accettare quelle strane storie impossibili che erano penetrate anche nella Fortezza. «Credo di poterti portare fuori proprio in questo momento. Sono tutti confusi. Vieni con me.»
Morgase non lo corresse; erano poche le persone che sapevano qualcosa sull’Unico Potere, ancor meno quelle che conoscevano la differenza fra saidar e saidin. La sua idea era intrigante. Forse sarebbero riusciti a scappare davvero grazie alla confusione della battaglia.
«Portarla fuori in quel caos!» protestò Lini. Le luci divampanti offuscarono quella della luna; scontri e boati soffocavano il clamore degli uomini e delle spade. «Credevo che tu avessi più cervello, Martyn Tallanvor. Solo gli stupidi baciano i calabroni o mordono il fuoco. Hai sentito: Morgase ha detto che si tratta di Aes Sedai. Pensi che si sbagli? Lo pensi davvero?»
«Mio signore, se si tratta di Aes Sedai...» Mastro Gill s’interruppe.
Le mani di Tallanvor la lasciarono andare e Morgase borbottò sottovoce, rimpiangendo di non avere una spada. Pedron Niall le aveva permesso di tenerla; Eamon Valda non era altrettanto fiducioso.
Per un istante Morgase fu travolta dallo scontento. Se solo Tallanvor avesse insistito, se l’avesse trascinata... Ma cosa le stava succedendo? Se quell’uomo avesse provato a trascinarla ovunque, per qualsiasi motivo, l’avrebbe fatto scuoiare vivo. Doveva recuperare il controllo di sé. Valda aveva intaccato la sua sicurezza — no, l’aveva fatta a pezzi con grande noncuranza — ma lei doveva rimanere aggrappata a quei frammenti e rimetterli tutti insieme. In qualche modo. Se ne valeva ancora la pena.
«Posso almeno scoprire cosa sta succedendo» gridò Tallanvor avviandosi verso la porta a grandi passi. «Se non si tratta delle tue Aes Sedai...»
«No! Tu rimani qui. Per favore.» Morgase era molto contenta che fosse buio nella stanza; l’oscurità nascondeva il color porpora del suo viso. Si sarebbe morsa la lingua prima di dire quelle ultime due parole, ma le erano scappate prima che se ne potesse accorgere. Proseguì con un tono di voce fermo: «Rimarrai qui, a vegliare sulla tua regina com’è tuo dovere.»
Nella luce fioca, Morgase vide il volto di Tallanvor, e l’inchino che lui le fece sembrò appropriato, ma avrebbe scommesso fino all’ultimo centesimo che l’uomo era furioso. «Rimarrò nell’anticamera.» Be’, non c’era dubbio sulla voce, ma per una volta Morgase non si diede pensiero di quanto Tallanvor fosse arrabbiato e quanto poco lo nascondesse. Con ogni probabilità avrebbe potuto uccidere quell’uomo terribile con le proprie mani, ma non sarebbe morto quel giorno, abbattuto da soldati che non sapevano da che parte stava.
Ormai non c’era alcuna speranza di dormire. Senza accendere le luci si lavò il viso e i denti. Breane e Lini l’aiutarono a vestirsi, seta blu striata di verde, con delle cascate di merletto candido ai polsi e sotto il mento. Perfetto per ricevere le Aes Sedai. Saidar infuriava nella notte. Dovevano essere Aes Sedai. Di chi altro poteva trattarsi?
Quando Morgase raggiunse gli uomini nell’anticamera, li trovò seduti al buio con la sola luce della luna che penetrava dalla finestra e gli sporadici lampi dell’Unico Potere. Anche una candela poteva attirare attenzioni indesiderate. Lamgwin e mastro Gill balzarono in piedi rispettosi. Tallanvor si alzò più lentamente e lei non ebbe bisogno di luce per sapere che la stava guardando con un cipiglio indispettito. Furiosa per essere costretta a ignorarlo — lei era la regina! — e appena in grado di non farlo trapelare dalla voce, ordinò a Lamgwin di prendere le altre sedie che si trovavano vicino alle finestre. Almeno lì regnava il silenzio. Fuori si sentivano schianti portentosi e grandi boati, con il risuonare di corni e le grida degli uomini, e in tutto questo Morgase sentiva ondate di saidar andare avanti e indietro.
Lentamente, dopo almeno un’ora, la battaglia andò placandosi fino a cessare. Le voci ancora gridavano ordini incomprensibili, i feriti urlavano e di tanto in tanto si sentivano ancora quegli strani corni bassi, ma non più il clangore dell’acciaio. Saidar era svanito; era sicura che alcune donne erano ancora in contatto con la Fonte e si trovavano dentro la Fortezza, ma non le sembrava che qualcuna stesse incanalando. C’era quasi quiete, dopo il clamore e l’agitazione.
Tallanvor si mosse, ma lei gli fece cenno di tornare al suo posto prima ancora che potesse alzarsi. Per un momento Morgase pensò che non le avrebbe obbedito. La notte stava morendo e la luce del sole cominciava a filtrare dalle finestre, risplendendo sul volto torvo di Tallanvor. Morgase aveva ancora le mani in grembo. La pazienza era una delle virtù che quel giovane uomo aveva bisogno di imparare. Il sole salì ancora di più. Lini e Breane cominciarono a sussurrare con un tono che diventava sempre più preoccupato, lanciando occhiate nella sua direzione. Tallanvor era sempre di pessimo umore, gli occhi scuri infiammati, seduto rigido con la giubba blu scuro che gli stava tanto bene. Mastro Gill era irrequieto, si passava prima una mano e poi l’altra sulla testa quasi calva, tamponandosi le guance con un fazzoletto. Lamgwin era scomposto sulla sua sedia, aveva gli occhi pesanti e sembrava mezzo addormentato, ma quando lanciò un’occhiata a Breane gli apparve un sorriso sul volto sfregiato dal naso rotto. Morgase si era concentrata sulla propria respirazione, qualcosa di simile agli esercizi che faceva alla Torre. Pazienza. Se qualcuno non fosse arrivato presto, avrebbe protestato duramente. Aes Sedai o meno!
Pur non volendo, sobbalzò quando bussarono forte alla porta. Prima che potesse dire a Breane di andare a vedere chi fosse, la porta si spalancò sbattendo contro il muro. Morgase rimase a fissare i nuovi arrivati.
Un uomo alto con il naso aquilino la guardò con freddezza. La lunga elsa della spada gli spuntava da dietro una spalla. Indossava una strana armatura, placche laccate e sovrapposte che risplendevano di nero e oro, e in mano aveva un elmo che ricordava la testa di un insetto, nero, oro e verde, con tre piume verdi lunghe e sottili. Altri due uomini con la stessa armatura lo seguirono da presso, con l’elmo in testa, anche se senza piume. Le loro armature parevano dipinte piuttosto che laccate e impugnavano delle balestre cariche. Altri stavano in piedi nel corridoio esterno, e avevano delle lance con dei tasselli color oro e nero.
Tallanvor, Lamgwin e anche il grosso mastro Gill si alzarono in piedi, piazzandosi fra Morgase e gli strani visitatori. Lei dovette spingerli per farsi largo.
Gli occhi dell’uomo con il naso aquilino si diressero subito su di lei prima che Morgase potesse chiedere delle spiegazioni. «Tu sei la regina di Andor?» La voce era aspra e distorceva tanto le parole che Morgase capì a stento la domanda. L’uomo parlò senza darle il tempo di rispondere. «Verrai con me. Da sola» aggiunse rivolgendosi a Tallanvor, Lamgwin e mastro Gill, che avevano fatto un passo avanti. I balestrieri mostrarono le loro armi; i dardi parevano fatti apposta per bucare le armature.
«Non ho obiezioni a lasciare il mio personale qui fino al mio ritorno» disse Morgase con una calma che non provava affatto. Chi erano quelle persone? Lei conosceva gli accenti di ogni nazione, e anche le diverse armature. «Sono sicura che provvederete a proteggermi molto bene, capitano...»
L’uomo non si presentò e le fece un cenno brusco ordinandole di seguirlo. Con sommo sollievo di Morgase, Tallanvor non oppose alcuna resistenza, ma si limitò a uno sguardo accalorato. Con somma indignazione di Morgase, Lamgwin e mastro Gill guardarono lui prima di farsi indietro.
Una volta nel corridoio, i soldati si disposero intorno a lei, e l’uomo con il naso aquilino e i due balestrieri si misero a capo della scorta. Morgase di disse che era una guardia d’onore. Andarsene in giro senza protezioni subito dopo una battaglia sarebbe stato più che stupido. Potevano esserci dei superstiti che avrebbero potuto prendere qualcuno in ostaggio o uccidere chiunque li avesse visti. Morgase avrebbe voluto credere ai suoi stessi pensieri.
Cercò di interrogare l’ufficiale, ma quello non disse mai una parola e non rallentò il passo né so voltò, e lei alla fine smise di provare. Nessuno dei soldati la guardava, erano uomini dall’espressione dura, simili ai soldati del suo esercito, uomini che avevano già visto altre battaglie, più di una volta. Ma chi erano? Gli stivali di quei soldati colpivano le mattonelle all’unisono, un tamburo minaccioso enfatizzato dalla sobrietà dei corridoi della Fortezza. Non c’era molto colore, nulla di bello a parte alcuni arazzi che mostravano Manti Bianchi impegnati in battaglie sanguinose.
Morgase si accorse che la stavano conducendo agli alloggi del lord capitano Comandante e fu assalita dalla nausea. Si era quasi gradevolmente abituata a quel percorso quando c’era Pedron Niall; aveva iniziato a temerlo nei pochi giorni che avevano seguito la sua morte... ma quando svoltarono l’angolo Morgase si ritrovò davanti a una ventina di arcieri che marciavano dietro al loro comandante, uomini con i pantaloni a sbuffo e i pettorali di pelle dipinti con delle strisce orizzontali blu e nere. Ognuno di loro indossava un elmo conico, il volto era coperto da una sottile maglia d’acciaio che arrivava fin sotto agli occhi. Qua e là, da sotto quei veli di metallo spuntavano lunghi baffi. Il capitano degli arcieri si inchinò a quello che guidava la scorta di Morgase, che si limitò a sollevare una mano in risposta.
Gente di Tarabon. Aveva già visto i soldati di quelle terre per molti anni, e questi erano di sicuro Tarabonesi, anche se avevano i pettorali con le strisce. Eppure non aveva senso. Tarabon era la rappresentazione in terra del caos, guerre civili su cento fronti fra pretendenti al trono e Fautori del Drago. Tarabon non avrebbe mai potuto attaccare Amador, a meno che, cosa assurda, un pretendente non avesse vinto su tutti gli altri e sconfitto i Fautori del Drago e... Era impossibile, e non spiegava la presenza degli altri soldati con le strane armature, o di quelle creature alate o...
Morgase sapeva di aver già visto cose strane in vita sua. Pensava anche di aver sperimentato il massimo della nausea. Poi lei e la sua scorta svoltarono un altro angolo e si imbatterono in due donne.
Una era snella, bassa come tutti i Cairhienesi e scura di carnagione più dei Tarenesi, con un abito blu che le arrivava sopra le caviglie, fulmini d’argento cuciti su dei riquadri rossi sul seno e sui lati dell’ampia gonna divisa. L’altra donna, con un abito semplice corto, grigio scuro, più alta della maggior parte degli uomini, con dei capelli biondo oro lunghi fino alle spalle che erano stati spazzolati fino a brillare e spaventosi occhi verdi. Un guinzaglio d’argento collegava le due donne, unendo il bracciale al polso di quella più bassa al collare intorno alla gola dell’altra.
Le due donne si fecero da parte per lasciar passare la scorta di Morgase, e quando l’uomo con il naso aquilino mormorò ‘Der’sul’dam’ — o qualcosa del genere, l’accento strascicato rendeva difficile capirlo — con il tono di voce di chi si rivolge a un suo pari, la donna scura si piegò leggermente, diede uno strattone al guinzaglio e la bionda si gettò a terra con la testa sulle ginocchia e i palmi delle mani sul pavimento. Quando i soldati cominciarono a oltrepassarle, la donna scura si piegò per carezzare il capo dell’altra con affetto, come si sarebbe fatto con un cane e, peggio ancora, quella in ginocchio la guardò compiaciuta e grata.
Morgase fece uno sforzo per continuare a camminare, per evitare che le cedessero le ginocchia o le si svuotasse lo stomaco. Quella servilità sarebbe stato un motivo sufficiente per crollare, ma era anche certa che la donna carezzata sulla testa poteva incanalare. Impossibile! Morgase camminava in un uno stato di stordimento, chiedendosi se fosse tutto un sogno o un incubo. Pregando che lo fosse. Si accorse a malapena che si erano fermati davanti ad altri soldati, questi con l’armatura rossa e nera, poi...
La camera delle udienze di Pedron Niall — adesso di Valda, o meglio, di chiunque aveva preso la Fortezza — era cambiata. Il grande sole d’oro era rimasto incastonato nel pavimento, ma tutte le bandiere di Niall che Valda aveva tenuto come se fossero sue erano sparite, insieme ai mobili, tranne la sedia con lo schienale alto di Niall e poi di Valda, ora fiancheggiata da due alti paraventi con dei dipinti sinistri. Uno mostrava un uccello da preda con la cresta nera e un becco crudele, le ali con le punte bianche erano dispiegate, sull’altro c’era un grosso gatto giallo con delle macchie nere che teneva una zampa sulla carcassa di una creatura più piccola simile a un cervo, con lunghe corna dritte e strisce bianche sul corpo.
Nella stanza erano presenti diverse persone, ma Morgase non poté notare altro prima che una donna dal volto angoloso con una vestaglia blu si facesse avanti. Un lato del cranio era rasato e i capelli castani dall’altro lato erano acconciati in una treccia che la donna teneva appoggiata sulla spalla destra. I suoi occhi azzurri non avrebbero stonato sul volto del rapace o su quello del grosso gatto dei paraventi. «Ti trovi in presenza della somma signora Suroth, che guida Coloro che Precedono e assiste il Giorno del Ritorno» annunciò la donna, sempre con quella strana parlata.
Senza alcun preavviso, l’uomo con il naso aquilino afferrò Morgase per il collo e la spinse a terra, poi si prostrò a sua volta. Stordita, e non solo perché con quel gesto l’uomo le aveva tolto il fiato, Morgase lo guardò baciare il pavimento.
«Lasciala, Elbar» disse furiosa un’altra donna. «La regina di Andor non deve essere trattata in questo modo.»
L’uomo, Elbar, si sollevò sulle ginocchia ma rimase con il capo chino. «Io mi umilio, somma signora. Imploro perdono.» La sua voce era fredda e atona, per quanto lo consentiva il suo strano accento.
«Non c’è perdono per simili gesti, Elbar.»
Morgase alzò la testa. La vista di quella che doveva essere Suroth la colse alla sprovvista. Le tempie della donna erano entrambe rasate, lasciando in vista solo una cresta nera con una coda che scendeva lungo la schiena. «Forse dopo che sarai punito. Vai subito a rapporto. Ora vai via! Vai!» L’ampio gesto col quale congedò l’uomo mostrò unghie lunghe almeno due centimetri e mezzo, le prime due di ogni mano laccate blu.
Elbar, sempre in ginocchio, le fece l’inchino, poi si alzò con discrezione arretrando verso la porta. Fu la prima volta che Morgase si accorse che nessun soldato li aveva seguiti all’interno della stanza. L’uomo le rivolse un ultimo sguardo prima di svanire e, invece di mostrare risentimento per la donna che era stata la causa della sua punizione lui... la contemplò. Non vi sarebbe stata alcuna punizione. Tutto quello scambio era stato programmato in anticipo.
Suroth si diresse verso Morgase, tenendo aperta con cura la vestaglia per mostrare le gonne, candide come la neve, con centinaia di piccole pieghe. La vestaglia era tutta un ricamo di viticci e fiori gialli e rossi. Morgase notò che la donna aveva aspettato che lei si rimettesse in piedi prima di raggiungerla.
«Ti sei fatta male?» chiese Suroth. «Se è così, la sua punizione verrà raddoppiata.»
Morgase si spazzolò il vestito per non dover guardare il sorriso falso che non toccava mai gli occhi di quella donna, e ne approfittò per osservare la stanza. Quattro uomini e quattro donne erano inginocchiati lungo la parete, tutti giovani e assai belli, tutti con... Morgase distolse lo sguardo. Quelle lunghe vestaglie bianche erano quasi trasparenti! Dai lati opposti dei paraventi erano inginocchiate altre due coppie di donne, una delle due indossava l’abito grigio e l’altra quello blu ricamato con i fulmini, ed erano collegate dal guinzaglio d’argento che andava dal polso di una al collo dell’altra. Morgase non era abbastanza vicina da esserne sicura, ma aveva la certezza che quelle in abito grigio potessero incanalare. «Sto bene, graz...» Una grande forma marrone era distesa per terra — forse un mucchio di pelli di mucca. Poi la cosa si mosse. «Che cos’è?» Morgase riuscì a non rimanere a bocca aperta, ma non poté trattenersi dal fare quella domanda.
«Ammiri il mo lopar?» Suroth si allontanò molto più velocemente di come si era avvicinata. Quella sagoma enorme alzò la grossa testa rotonda per farsi carezzare sotto il mento. A Morgase la creatura ricordava un orso, anche se sembrava molto più grande del più grosso orso di cui le avessero mai parlato. Le zampe non erano pelose, aveva un grosso muso e lunghi solchi intorno agli occhi. «Almandaragal mi è stato dato quando era un cucciolo, per il mio primo giorno del vero nome. Ha sventato il primo tentativo di assassinarmi quello stesso anno, quando era ancora piccolo.» L’affetto nella voce della donna era sincero. Le labbra del... lopar si ritirarono per mostrare dei denti molto affilati mentre la donna lo carezzava. Le zampe anteriori erano piegate, estraeva e ritirava le unghie delle lunghe dita, sei per ogni zampa. Poi iniziò a fare le fusa, un rombo basso che ricordava cento gatti tutti insieme.
«Notevole» sussurrò Morgase. Giorno del vero nome? Quanti tentativi c’erano stati di uccidere questa donna che parlava del primo con tanta indifferenza?
Il lopar si lamentò leggermente quando Suroth andò via, ma si mise subito a cuccia con la testa sulle zampe. Stranamente non la seguì con lo sguardo, ma rimase invece concentrato su Morgase, guardando di tanto in tanto verso la porta o la feritoia per le frecce.
«Naturalmente, per quanto possa essere leale un lopar, non sarà mai come una damane.» Stavolta la voce di Suroth non fu nemmeno sfiorata dall’affetto. «Pura e Jinjin potrebbero abbattere cento assassini prima che Almandaragal riuscisse a mettersi in piedi.» Nel sentire quei nomi, la donna con il vestito blu strattonò il guinzaglio e quella con il collare si prostrò come aveva fatto l’altra nel corridoio. «Abbiamo molte più damane da quando siamo tornati. Questa terra è un campo di caccia molto fertile per trovare le marath’damane. Pura» aggiunse con indifferenza «una volta era una donna della... Torre Bianca.»
Le ginocchia di Morgase tremarono. Aes Sedai? Studiò la schiena ricurva della donna di nome Pura rifiutandosi di credere. Nessuna Aes Sedai poteva essere costretta a tanta servilità. Qualsiasi donna in grado di incanalare, non solo le Aes Sedai, avrebbe dovuto essere capace di prendere quel guinzaglio e strangolare la propria tormentatrice. Tutte ne avrebbero dovuto essere capaci. No. Quella Pura non poteva essere un’Aes Sedai. Morgase si domandò se poteva arrischiarsi a chiedere una sedia. «È molto... interessante.» Almeno la voce era ferma. «Ma non credo che tu mi abbia convocata per parlarmi di Aes Sedai.» Ma certo, non era stata convocata. Suroth la fissò, non mosse un muscolo, fece solo un movimento appena accennato con le dita della mano sinistra.
«Thera!» Gridò di colpo la donna con il volto spigoloso e la testa in parte rasata. «Kaf per la somma signora e la sua ospite!»
Una delle donne con le vestaglie trasparenti, la più grande, ma pur sempre giovane, si alzò con molta grazia. La bocca a bocciolo di rosa aveva l’espressione capricciosa, ma lei scartò dietro uno dei paraventi, quello con l’aquila, e in pochi momenti riapparve con un vassoio d’argento e due tazzine bianche. Si inginocchiò davanti a Suroth e piegò il capo scuro mentre sollevava il vassoio, in modo che la sua offerta fosse più in alto di lei. Morgase scosse il capo. Se avesse chiesto a qualsiasi servitore di Andor di fare una cosa simile — o di indossare quelle vestaglie! — sarebbe andato via sdegnato.
«Chi siete? Da dove venite?»
Suroth sollevò una delle tazzine con la punta delle dita, inalando il vapore che ne proveniva. Il cenno del capo che la donna le rivolse somigliava troppo a un permesso per i gusti di Morgase, ma prese comunque la sua tazzina. Un solo sorso e fissò la bevanda sorpresa. Era più nera di qualsiasi tè, ed era anche molto più amara. Nessuna quantità di miele l’avrebbe resa bevibile. Suroth si portò la tazza alle labbra e sospirò deliziata.
«Ci sono molte cose di cui dobbiamo parlare, Morgase, ma per questo primo incontro sarò breve. Noi Seanchan siamo ritornati per reclamare ciò che ci fu rubato dagli eredi del sommo re, Artur Paendrag Tanreall.» Il piacere del kaf si trasformò in un piacere diverso nella voce di quella donna, una forma di aspettativa e certezza, e Suroth guardò da vicino il volto di Morgase, che non riusciva a distogliere lo sguardo. «Ciò che era nostro lo sarà di nuovo. Per la verità lo è sempre stato. Un ladro non ottiene alcun diritto di proprietà. Ho iniziato il recupero a Tarabon. Molti nobili di quella terra mi hanno già giurato obbedienza. Non trascorrerà molto tempo prima che lo facciano tutti. Il loro re, non mi ricordo il nome, è morto opponendosi a me. Se fosse sopravvissuto, in ribellione contro il trono di Cristallo non essendo nemmeno del Sangue, sarebbe stato impalato. Non siamo riusciti a trovare la sua famiglia per farne una nostra proprietà, ma ora c’è un nuovo re e una nuova Panarca che hanno giurato la loro fedeltà all’imperatrice, possa vivere per sempre, e al trono di Cristallo. I banditi verranno estirpati; non vi saranno più conflitti o fame a Tarabon, ma la gente si riparerà sotto l’ala protettrice dell’imperatrice. Adesso ho iniziato con l’Amadicia. Presto vi inchinerete tutti all’imperatrice, possa vivere per sempre, la discendente diretta del grande Artur Hawkwing.»
Se la cameriera non fosse andata via con il vassoio, Morgase avrebbe posato la sua tazza. La superficie scura del kaf non era disturbata da alcun tremito, ma la maggior parte di quanto aveva detto quella donna per lei non aveva alcun significato. Imperatrice? Seanchan? C’erano state delle voci indiscriminate più di un anno prima sugli eserciti di Artur Hawkwing che avevano oltrepassato l’Oceano Aryth, ma solo i più ingenui avrebbero potuto crederci e lei dubitava che i peggiori pettegoli nei mercati ne parlassero ancora. Che fosse vero? In ogni caso, quel poco che aveva capito era più che abbastanza.
«Tutto ciò onora il nome di Artur Hawkwing, Suroth...» la donna con il viso spigoloso aprì la bocca furiosa, fermandosi poi a un cenno delle dita laccate della somma signora «...ma quel tempo ormai è passato. Ogni nazione qui ha le sue antiche stirpi. Nessuna terra si arrenderà alla tua imperatrice. Hai preso una parte di Tarabon...» Suroth sibilò e gli occhi le brillarono «...ma ricorda che è una terra difficile, divisa in fazioni in lotta fra loro. L’Amadicia non cadrà facilmente e molte nazioni correranno in suo aiuto quando scopriranno che siete arrivati.» Poteva essere vero? «Per quanti possiate essere, non troverete facili vittorie. Abbiamo già affrontato grandi minacce in passato e le abbiamo superate. Ti suggerisco la pace prima che tu venga schiacciata.» Morgase ricordò saidar che infuriava nella notte ed evitò di guardare le... damane, così le aveva chiamate? Con grande sforzo, riuscì a non inumidirsi le labbra.
Suroth le rivolse ancora quel sorriso fasullo, con gli occhi che brillavano come pietre lucidate. «Dobbiamo tutti fare delle scelte. Alcuni sceglieranno di obbedire, aspettare e servire, e noi governeremo le loro terre nel nome dell’imperatrice, possa vivere per sempre.»
Tolse una delle mani dalla tazza per fare un gesto, un vago movimento delle unghie lunghe, e la donna con il volto spigoloso ordinò: «Thera! Posizione del cigno!»
Per qualche motivo Suroth tese le labbra. «Non il cigno, Alwhin, stupida cieca!» sibilò sottovoce, ma il suo accento rendeva tutto difficile da capire. Quel sorriso falso tornò in un istante.
La cameriera si alzò e corse al centro della stanza in un modo strano, sulla punta dei piedi, con le braccia tese all’indietro. Lentamente, sopra il sole raggiato simbolo dei Figli della Luce, la ragazza iniziò una specie di danza stilizzata. Distese le braccia come fossero ali, quindi le ripiegò. Contorcendosi, fece scivolare in fuori il piede sinistro, abbassandosi sul ginocchio piegato, entrambe le braccia tese come in supplica fino a formare una linea diagonale con il torace e la gamba destra. La sottoveste trasparente rese l’intera scena scandalosa. Morgase sentì che le guance le diventavano sempre più rosse man mano che procedeva la danza, se la si poteva chiamare così.
«Thera è nuova e non ancora ben addestrata mormorò Suroth. «Le posizioni di solito vengono create con venti o più da’covale insieme, uomini e donne scelti per la bellezza dei loro corpi, ma talvolta è gradevole anche guardarne una sola. È molto piacevole possedere cose belle, non ti pare?»
Morgase aggrottò le sopracciglia. Come si faceva a possedere una persona? Suroth aveva già parlato prima di rendere qualcuno ‘proprietà’. Morgase conosceva la lingua antica e la parola da’covale non le era familiare, ma pensandoci sopra la tradusse con ‘persona che è posseduta’. Era disgustoso. Orrendo! «Incredibile,» sussurrò asciutta «forse dovrei lasciarti a godere la... danza.»
«Tra un attimo» rispose Suroth, sorridendo a Thera nella sua posizione. Morgase stava evitando di guardare. «Abbiamo tutti delle scelte da fare, come ho detto prima. Il vecchio re di Tarabon ha deciso di ribellarsi e quindi di morire. La vecchia Panarca è stata presa, ma ha rifiutato di prestare il giuramento. Ognuno di noi ha una posizione, a meno che non venga promosso dall’imperatrice, ma quelli che rifiutano di accettare il loro posto possono anche essere degradati, fino al rango più basso. Thera ha una certa grazia. Stranamente Alwhin mostra del talento nell’insegnamento, per cui mi aspetto che prima che passi molto tempo Thera imparerà a eseguire le varie posizioni con grazia.» Suroth si voltò verso Morgase, che vide gli occhi luccicanti.
Uno sguardo molto intenso, ma perché? Qualcosa che aveva a che fare con la ballerina? Il suo nome menzionato tanto spesso, come se cercasse di sottolineare qualcosa, ma cosa? Morgase voltò il capo di scatto e fissò la donna in punta di piedi che volteggiava lentamente con le mani giunte e le braccia distese al massimo. «Non ci credo» esclamò. «Non ci credo!»
«Thera,» disse Suroth «come ti chiamavi prima di diventare una mia proprietà? Che titolo avevi?»
Thera, si immobilizzò in quella posizione, tremando, e lanciò uno sguardo che era per metà di panico e per metà di paura ad Alwhin, poi guardò Suroth con occhi pieni del più puro terrore. «Thera si chiamava Amathera, con il permesso della somma signora.»
La tazza cadde dalle mani di Morgase ed esplose in mille pezzi quando raggiunse il pavimento, facendo schizzare il kaf nero ovunque. Doveva essere una bugia. Non aveva mai incontrato Amathera, ma una volta aveva sentito la sua descrizione. No. Molte donne di quell’età potevano avere grandi occhi scuri e la bocca capricciosa. Pura non era mai stata Aes Sedai e questa donna...
«Posizione!» scattò Alwhin, e Thera proseguì senza guardare Suroth o gli altri. Chiunque fosse, chiaramente il suo pensiero principale era un forte desiderio di non commettere alcun errore. Morgase si dovette sforzare per non vomitare.
Suroth le si avvicinò molto, con il viso freddo come l’inverno. «Tutti si trovano davanti a delle scelte» disse con calma. La sua voce avrebbe potuto incidere l’acciaio. «Alcuni dei miei prigionieri dicono che tu hai trascorso un periodo nella Torre Bianca. Secondo la legge nessuna marath’damane può sfuggire al guinzaglio, ma io ti concedo questo dono: tu, che hai pronunciato il mio nome e mi hai dato della bugiarda, non andrai incontro a quel fato.» L’enfasi della frase rese molto chiaro che la concessione non riguardava altri tipi di fato. Quel sorriso che non le raggiungeva mai gli occhi fece ritorno. «Spero che sceglierai di prestare il giuramento, Morgase, e governerai Andor nel nome dell’imperatrice, possa vivere per sempre.» Per la prima volta Morgase fu assolutamente certa che la donna aveva mentito. «Ti parlerò di nuovo domani, o forse dopodomani, se avrò tempo.»
Dopo essersi voltata, Suroth passò accanto alla ballerina solitaria per dirigersi verso la sedia. Mentre si accomodava, sistemandosi con grazia la gonna, Alwhin gridò un nuovo ordine. Non sembrava avere nessun altro modo di esprimersi. «Tutti! La posizione del cigno!» I giovani, uomini e donne, inginocchiati contro la parete balzarono in avanti per unirsi a Thera, eseguendo gli stessi movimenti in una fila ordinata proprio davanti alla sedia di Suroth. Solo il lopar era ancora concentrato sulla presenza di Morgase, alla quale non sembrava di essere mai stata congedata in maniera tanto chiara in vita sua. Se ne andò raccogliendo la propria dignità insieme alla gonna.
Naturalmente non fece molta strada da sola. I soldati con l’armatura rossa e nera l’aspettavano nell’anticamera immobili come statue, con le lance dai tasselli rossi e neri, i volti impassibili sotto gli elmi laccati, gli occhi duri che parevano fissarla da dietro le mandibole di un insetto mostruoso. Uno di loro, non molto più alto di lei, l’affiancò senza dire una parola e la scortò di nuovo alle sue stanze, dove due uomini di Tarabon armati di spada montavano di guardia vicino alla porta; avevano armature d’acciaio, ma sempre con le strisce orizzontali dipinte sul petto. Fecero un profondo inchino, con le mani sulle ginocchia, e Morgase pensò che fosse per lei fino a quando la sua scorta parlò per la prima volta.
«Onore raggiunto» disse l’uomo con voce rauca e asciutta, e i Tarabonesi si addrizzarono, senza mai guardarla. Poi il soldato che l’aveva scortata disse: «Fatele la guardia per bene. Non ha prestato giuramento.» Gli occhi scuri scattarono verso di lei da sopra i veli d’acciaio, ma gli inchini di consenso furono per il Seanchan.
Morgase cercò di non entrare di corsa, ma una volta che la porta si chiuse alle sue spalle si appoggiò contro di essa provando a mettere ordine tra i propri pensieri. Seanchan e damane, imperatrice, giuramenti e la gente che diventava una proprietà. Lini e Breane erano in piedi in mezzo alla stanza e la guardavano.
«Che cosa hai scoperto?» chiese Lini paziente, con lo stesso tono con cui un, tempo interrogava la bambina Morgase sui libri che leggeva.
«Incubi e follia» rispose lei. A un tratto si raddrizzò guardandosi intorno con ansia. «Dov’è... Dove sono gli uomini?»
Breane rispose alla domanda che Morgase non aveva fatto usando un tono derisorio. «Tallanvor è andato a vedere cosa riusciva a scoprire.» Con le mani sui fianchi e il volto mortalmente serio, aggiunse: «Lamgwin lo ha accompagnato, e anche mastro Gill. Tu cos’hai scoperto? Chi sono questi... Seanchan?» Breane pronunciò quel nome goffamente, aggrottando le sopracciglia. «Questo l’abbiamo sentito anche noi.» Fece finta di non notare lo sguardo tagliente di Lini. «Che cosa facciamo adesso?»
Morgase passò fra le due donne per andare a una delle finestre. Non era stretta come quelle della sala delle udienze e si affacciava sul lastricato del cortile, sette metri più giù. Alcuni uomini a capo nudo e malconci, alcuni con delle bende insanguinate, camminavano stancamente nel cortile in una disordinata colonna sotto lo sguardo attento dei Tarabonesi con la lancia. Alcuni Seanchan si trovavano sulla torre attigua e guardavano in lontananza, fra le merlature. Uno di loro aveva l’elmo decorato con tre piume sottili. Alla finestra dall’altro lato del cortile apparve una donna, aveva il tassello rosso con il fulmine ricamato sul petto e guardava torva i Manti Bianchi prigionieri. Gli uomini parevano sorpresi, incapaci di credere a quanto era accaduto.
Che cosa dovevano fare? Una decisone che Morgase temeva. Negli ultimi mesi tutte quelle che aveva preso, si trattasse anche solo della frutta da mangiare a colazione, erano finite in un disastro. Suroth le aveva proposto una scelta. Aiutare questi Seanchan a prendere Andor o... un ultimo servigio che poteva rendere al suo regno. La coda della colonna entrò nel suo campo visivo seguita da altri tarabonesi, ai quali si unirono i loro connazionali. Un volo di sette metri e Suroth avrebbe perso la sua leva. Forse era una soluzione da vigliacchi, ma lei sapeva già di esserlo. Eppure la regina di Andor non poteva morire a quel modo.
Sottovoce, pronunciò le parole irrevocabili che erano state usate solo due volte in duemila anni di storia di Andor. «Testimone la Luce, rinuncio a essere la somma signora della casata Trakand e cedo il titolo a Elayne Trakand. Testimone la Luce, rinuncio alla corona di rose e cedo il trono del Leone a Elayne Trakand, somma signora della casata Trakand. Testimone la Luce, mi rimetto alla volontà di Elayne di Andor, come sua suddita obbediente.» Niente di tutto ciò rendeva Elayne regina, ma le facilitava il cammino.
«Che cos’hai da sorridere?» chiese Lini.
Morgase si voltò lentamente. «Pensavo a Elayne.» Non credeva che la sua vecchia nutrice fosse abbastanza vicina da aver sentito quelle parole che non avevano bisogno di testimoni.
Lini sgranò gli occhi e rimase senza fiato. «Vieni via da quella finestra adesso!» disse bruscamente, facendo seguire le azioni alle parole. L’afferrò per un braccio e la tirò indietro.
«Lini, dimentichi la tua posizione! Hai smesso di essere la mia nutrice da molto...» Morgase respirò profondamente e addolcì la voce. Sostenere quello sguardo spaventato non era facile, nulla spaventava Lini. «Ciò che faccio è per il meglio, credimi» le disse gentilmente.
«Non c’è altro modo di...»
«Nessun altro modo?» La interruppe arrabbiata Breane, stringendo le mani sulla gonna fino a tremare. Ovviamente avrebbe preferito stringerle intorno alla gola di Morgase. «Di quale idiozia parli adesso? Che cosa succede se questi Seanchan pensano che ti abbiamo uccisa noi?» Morgase serrò le labbra; era diventata tanto trasparente?
«Fai silenzio, donna!» Lini non si arrabbiava mai e non alzava mai la voce, ma adesso aveva fatto entrambe le cose e aveva le guance rosse. Sollevò una mano ossuta. «Tieni la bocca chiusa, o ti prendo a schiaffi fino a farti diventare più sciocca di quello che sei!»
«Prendi lei a schiaffi, se proprio devi!» gridò Breane in risposta, con tanta fierezza che sputò. «La ‘regina’ Morgase! Manderà te, me e il mio Lamgwin alla forca, e anche il suo prezioso Tallanvor, perché non ha nemmeno il coraggio di un topo!»
La porta si aprì e apparve Tallanvor, ponendo fine alla discussione bruscamente. Nessuna avrebbe gridato davanti a lui. Lini finse di esaminare la manica del vestito di Morgase, come se avesse bisogno di essere rammendata, e mastro Gill e Lamgwin entrarono nella stanza dopo Tallanvor. Breane sorrise e si sistemò il vestito. Naturalmente gli uomini non notarono nulla.
Morgase invece notò molto. Per prima cosa Tallanvor aveva il cinturone con la spada, come mastro Gill e Lamgwin, anche se quella di quest’ultimo era più simile a un pugnale. Morgase aveva sempre avuto la sensazione che quell’uomo fosse più a suo agio con i propri pugni che con un’arma. Prima che potesse chiedere com’era possibile, l’uomo magro in fondo alla processione chiuse la porta alle sue spalle.
«Maestà,» disse Sebban Balwer «perdona quest’intrusione.» Anche l’inchino e il sorriso parevano asciutti e calcolati, ma quando l’uomo spostò lo sguardo da lei alle altre donne, Morgase decise che se anche gli altri uomini non avevano percepito l’atmosfera nella stanza, quello che una volta era stato il segretario di Pedron Niall aveva capito tutto.
«Sono sorpresa di vederti, mastro Balwer» osservò Morgase. «Ho sentito dire che si sono verificati eventi sgradevoli con Eamon Valda.» In realtà Valda aveva detto che se mai avesse posato gli occhi su Balwer lo avrebbe sbattuto giù da uno dei muri della fortezza. Il sorriso di Balwer divenne teso; era al corrente anche lui delle minacce di Valda.
«Ha un piano per farci uscire tutti da qui» intervenne Tallanvor. «Oggi. Adesso.» Non guardò Morgase da suddito rispettoso. «Abbiamo accettato la sua offerta.»
«Come?» chiese Morgase lentamente, costringendosi a non piegare le ginocchia. Quale aiuto avrebbe potuto offrire quel lezioso ometto? Fuga. Morgase voleva sedersi, ma non l’avrebbe fatto, non con Tallanvor che la guardava in quel modo. Certo, ormai non era più la sua regina, ma lui ancora non lo sapeva. Le venne in mente un’altra domanda. «Perché? Mastro Balwer, non rifiuterò una sincera offerta d’aiuto, ma perché proprio tu dovresti correre il rischio in prima persona? Questi Seanchan te ne faranno pentire se dovessero scoprirlo.»
«Avevo un piano da prima che arrivassero» le rispose lui con cautela. «Sembrava... imprudente... lasciare la regina di Andor nelle mani di Valda. Consideralo il mio modo per ripagarlo. So che a guardarmi non sembro chissà cosa, maestà...» nascose dietro una mano un colpo di tosse di rammarico «...ma il piano funzionerà. Questi Seanchan per la verità lo rendono anche più facile. Se non fossero arrivati loro, avrei dovuto aspettare ancora qualche giorno. Per aver appena conquistato una città, concedono grande liberà a chiunque presti il giuramento. Nemmeno un’ora dopo il sorgere del sole, ho ottenuto un lasciapassare che permetteva a me e ad altri dieci che hanno prestato giuramento di lasciare Amador. Credono che io voglia andare a comprare del vino da qualche parte a est, per cui ho anche dei carri per il trasporto.»
«Dev’essere una trappola.» Quelle parole avevano un sapore amaro. Meglio la finestra che finire in qualche trappola. «Non ti permetteranno di rivelare la loro presenza prima che il loro esercito avanzi.»
Balwer piegò la testa da un lato e iniziò a sfregarsi le mani, quindi si fermò di colpo. «In verità, maestà, ci ho pensato. L’ufficiale che mi ha concesso il lasciapassare ha detto che non ha importanza. Queste sono state le sue parole esatte: ‘Riferisci a chiunque incontrerai ciò che hai visto e lascia che sappiano di non potersi opporre alla nostra venuta. Le tue terre lo scopriranno presto in ogni caso.’ Ho visto diversi mercanti prestare il giuramento stamattina e partire con i loro carri.»
Tallanvor si avvicinò a lei. Troppo. Morgase poteva quasi sentire il suo respiro sul collo e ne avvertiva lo sguardo. «Accettiamo la sua offerta» disse solo per le sue orecchie. «Anche se dovessi legarti e imbavagliarti, credo che riuscirebbe comunque a trovare il sistema di farci andare via. Sembra un tipo pieno di risorse.»
Morgase sostenne lo sguardo di Tallanvor. La finestra o... una possibilità. Se solo Tallanvor fosse rimasto zitto, le avrebbe reso molto più facile ciò che stava per dire. «Accetto con gratitudine, mastro Balwer.» Si allontanò come se volesse guardare Balwer senza dover allungare il collo oltre Tallanvor. La turbava sempre essere troppo vicino a quell’uomo. Era troppo giovane. «Che cosa dobbiamo fare? Dubito che quelle guardie davanti alla porta accetteranno il tuo lasciapassare per noi.»
Balwer piegò il capo come se avesse previsto quella domanda. «Temo che saranno vittime di alcuni incidenti, maestà.» Tallanvor allentò la chiusura del fodero del pugnale e Lamgwin piegò le dita come aveva fatto il lopar con le unghie.
Morgase non credeva che sarebbe stato tanto facile, anche dopo che ebbero impacchettato tutto ciò che potevano portarsi dietro e che i due Tarabonesi finirono infilati sotto al suo letto. Davanti al cancello principale tenne chiuso il mantello contro la polvere — era difficile, per via del fagotto che aveva sulla schiena — e fece l’inchino, con le mani sulle ginocchia come le aveva mostrato Balwer, mentre lui spiegava alle guardie che loro avevano tutti giurato di obbedire, attendere e servire. Morgase stava pensando a un sistema per assicurarsi che non la prendessero viva. Fu solo quando si misero in marcia verso Amador, oltrepassati gli ultimi soldati, sui cavalli che Balwer aveva preparato, che Morgase incominciò a credere in quel piano. Naturalmente forse Balwer si aspettava una bella ricompensa per aver salvato la regina di Andor. Lei non aveva detto a nessuno che ormai quella fase era definitivamente conclusa; sapeva di aver pronunciato quelle parole, e non c’era bisogno che altri ne fossero al corrente. Rimpiangerle era inutile. Adesso avrebbe sperimentato che tipo di vita poteva trovare senza il trono. Una vita lontano da un uomo che era fin troppo giovane e inquietante.
«Perché hai un sorriso tanto triste?» le chiese Lini, tirando le redini della giumenta con i fianchi marroni. Quell’animale sembrava mangiato dalle tarme. Il baio di Morgase non stava meglio, nessuno dei cavalli era in buone condizioni. I Seanchan erano disposti a lasciare che Balwer andasse via, ma non che portasse con sé dei cavalli decenti.
«Ci aspetta ancora un lungo viaggio» rispose Morgase e spronò il cavallo a una specie di trotto per avvicinarsi a Tallanvor.