17 Il trionfo della logica

Quando finalmente Tylin lo lasciò andare, Mat si allontanò in fretta dal palazzo e, se avesse pensato che potesse servire a qualcosa, avrebbe corso. La pelle in mezzo alle scapole gli prudeva tanto che aveva quasi dimenticato i dadi che aveva in testa. Il momento peggiore — il più brutto tra una decina di pessimi momenti — era stato quando Beslan aveva iniziato a prendere in giro la madre, dicendole che avrebbe dovuto trovarsi un giovane per il ballo e Tylin, ridendo, aveva risposto che una regina non aveva tempo per i giovanotti, il tutto mentre guardava Mat con quei maledetti occhi da aquila. Adesso Mat sapeva perché i conigli erano tanto veloci. Attraversò la piazza di Mol Hara senza vedere nulla. Se Nynaeve ed Elayne si fossero trovate lì a fare le capriole con Jaichim Carridin ed Elaida dentro la fontana sotto la grande statua di qualche regina morta da secoli che indicava verso il mare, lui li avrebbe oltrepassati senza guardarli neppure.

La sala comune de La donna errante era illuminata e abbastanza fresca, a confronto con la calura all’esterno. Mat si tolse il cappello con grazia. In aria era sospesa una leggera foschia dovuta al fumo di pipa, ma i battenti intagliati con motivi complessi davanti alle grandi finestre arcuate facevano entrare abbastanza luce. Alcuni rami di pino striminziti erano stati legati sopra le finestre per la notte di Swovan. In un angolo, due donne con dei flauti e un uomo con un piccolo tamburo fra le ginocchia stavano suonando un tipo di musica ritmata che Mat aveva iniziato ad apprezzare. Anche a quell’ora del giorno c’erano alcuni avventori, mercanti forestieri che indossavano modesti vestiti di lana e qualche abitante di Ebou Dar, quasi tutti con le vesti delle varie gilde. Lì, così vicino al palazzo, non c’erano né apprendisti né viaggiatori. La donna errante non era un posto economico dove bere e mangiare, tanto meno per dormire.

Il rumore di dadi in un angolo fece eco a quello che lui aveva nella testa, ma Mat si girò dal lato opposto, dove tre dei suoi uomini erano seduti su delle panche attorno a un tavolo. Corevin, un Cairhienese muscoloso con un naso che faceva sembrare ancor più piccoli gli occhi già minuti, sedeva, nudo fino alla cintola, con le braccia tatuate sollevate sopra la testa mentre Vanin gli stava avvolgendo una benda intorno alla vita. Vanin tre volte più grosso di Corevin, ricordava un sacco traboccante di rognoni. Sembrava che avesse dormito con la giubba addosso per settimane; era sempre così, anche dopo un’ora che l’aveva ritirata dalle cameriere, lavata e stirata. Alcuni dei mercanti li osservavano a disagio, ma i cittadini li ignoravano. Uomini e donne avevano visto molte volte quella scena, e altre anche peggiori.

Harnan, un Tarenese con il volto lungo e il tatuaggio di un falco sulla guancia sinistra, stava rimproverando Corevin. «Non mi importa cosa ha detto il maledetto pescivendolo. Tu, rospo figlio di una capra, usa quel dannato manganello e non accettare stramaledetti duelli solo perché...» Si interruppe quando vide Mat e cercò di fare finta che non avesse detto nulla. Aveva la faccia di uno con il mal di denti.

Se Mat avesse fatto domande, avrebbe scoperto che Corevin era scivolato e caduto sul proprio pugnale o qualche sciocchezza simile cui avrebbe dovuto fare finta di credere, e così si limitò ad appoggiare le mani sul tavolo come se non vedesse nulla di strano. E, per certi versi, era davvero così. Vanin era l’unico che non si fosse già trovato in almeno una ventina di liti; per qualche motivo, gli uomini a caccia di rogne giravano alla larga da lui come da Nalesean. La sola differenza era che Vanin sembrava esserne contento. «Sono già arrivati Thom o Juilin?»

Vanin non distolse lo sguardo dalla fasciatura che stava eseguendo. «Non ne ho visto traccia. Ma Nalesean è stato qui per un po’.» Vanin non usava idiozie come ‘mio signore’. Non era un segreto che non gli piacessero i nobili. Con la sfortunata eccezione di Elayne. «Ha lasciato una cassa blindata in camera tua ed è uscito cianciando di ciondoli.» Fece il cenno di sputare fra i denti, quindi guardò una delle cameriere e ci ripensò. Comare Anan era spietata con chiunque sputasse sul suo pavimento, lanciasse le ossa del pranzo a terra o svuotasse la pipa. «Il ragazzo è nella stalla» proseguì prima che Mat lo chiedesse. «Con i suoi libri e una delle figlie della locandiera. Un’altra ragazza lo ha sculacciato per averla pizzicata.» Dopo aver fermato la benda lanciò a Mat uno sguardo d’accusa, come se fosse colpa sua.

«Povero piccolo» mormorò Corevin, voltandosi per vedere se le bende si muovevano. Su un braccio aveva il tatuaggio di un leopardo e un cinghiale, sull’altro un leone e una donna vestita solo dei propri capelli. «Stava piagnucolando, anche se gli è passato tutto quando Leral gli ha permesso di prenderlo per mano.» Gli uomini controllavano Olver come un branco di zii, anche se di sicuro nessuna madre avrebbe voluto vedere individui del genere vicino a suo figlio.

«Sopravviverà» rispose secco Mat. Il ragazzo con ogni probabilità stava imparando certe cose proprio dai suoi ‘zii’. La prossima mossa sarebbe stata farlo tatuare. Almeno Olver non era uscito di nascosto per scorrazzare in strada con gli altri monelli; gli piaceva quanto creare noie agli adulti. «Harnan, aspetta qui, e se vedi Thom o Juilin bloccali. Vanin, voglio che tu scopra tutto ciò che puoi sul palazzo di Chelsaine, vicino al cancello delle tre torri.» Mat si guardò intorno, esitante. Le cameriere uscivano ed entravano dalla cucina con cibo e, più spesso, vino. Gli avventori sembravano quasi tutti concentrati sui boccali, anche se due donne con la veste della gilda delle tessitrici stavano discutendo sommessamente, ignorando i calici e sporgendosi sul tavolo una verso l’altra. Alcuni mercanti sembrava stessero negoziando, agitavano le mani e intingevano le dita nel vino per scrivere cifre sul tavolo. La musica avrebbe dovuto proteggere la sua voce dai curiosi, ma Mat la abbassò in ogni caso.

La notizia che Jaichim Carridin ricevesse visite dagli Amici delle Tenebre fece cambiare espressione a Vanin, che si corrucciò e parve pronto a sputare senza curarsi di chi stava a guardare. Harnan mormorò qualcosa sugli sporchi Manti Bianchi e Corevin suggerì di denunciare Carridin alla Guardia Civica. Quella proposta ottenne delle occhiate talmente disgustate dagli altri due che Corevin immerse il viso nel boccale di birra. Era uno dei pochi uomini che riusciva a bere la birra di Ebou Dar con quel caldo. Uno dei pochi che poteva berla in generale.

«Sii prudente» disse Mat a Vanin quando l’uomo si alzò. Non che fosse davvero preoccupato: Vanin si muoveva con sorprendente agilità per essere così grasso. Era il miglior ladro di cavalli di almeno due nazioni, e sarebbe passato inosservato anche agli occhi di un Custode, ma... «Sono un brutto gruppo di persone. Manti Bianchi e Amici delle Tenebre, tutti e due.» L’uomo grugnì e fece cenno a Corevin di prendere camicia e giubba e seguirlo.

«Mio signore?» disse Harnan mentre stavano andando tutti via. «Mio signore, ho sentito dire che ieri nel Rahad c’era nebbia.»

Mat era sul punto di allontanarsi, ma si fermò. Harnan sembrava preoccupato e non erano molte le cose che lo facevano preoccupare. «Che intendi dire con ‘nebbia’?» Con quel caldo la nebbia sarebbe durata poco anche se fosse stata densa come un budino.

Harnan sollevò le spalle e scrutò nel proprio boccale. «Nebbia. Ho sentito dire che c’erano... delle cose... nascoste dentro.» Guardò Mat. «Ho sentito dire anche che sono scomparse delle persone. Alcune sono state ritrovate mezze mangiate.»

Mat si sforzò per non rabbrividire. «La nebbia è scomparsa, vero? Tu non c’eri. Preoccupati quando succederà in tua presenza, è tutto ciò che puoi fare.» Harnan pareva dubbioso, ma quella era la pura e semplice verità. Le bolle di male — Rand le aveva chiamate così, e anche Moiraine — esplodevano quando e dove volevano e sembrava che nemmeno Rand potesse fermarle. Preoccuparsi di quelle bolle era come chiedersi se il giorno dopo una tegola sarebbe caduta sulla propria testa. Era peggio, visto che nel caso della tegola almeno si poteva decidere di rimanere a casa.

C’era comunque qualcosa di cui valeva la pena preoccuparsi. Nalesean aveva lasciato le loro vincite in camera. I maledetti nobili lasciavano l’oro in giro come fosse acqua. Dopo aver lasciato Harnan a fissare il boccale, Mat si diresse verso le scale sul retro della sala, ma prima che riuscisse a raggiungerle fu avvicinato da una delle cameriere.

Caira era snella, con le labbra carnose e gli occhi fumosi. «È venuto a cercarti un uomo, mio signore» disse giocando con la gonna e guardandolo attraverso le lunghe ciglia. Anche la voce era in qualche modo fumosa. «Ha detto di essere un Illuminatore, ma a me sembrava in cattive condizioni. Ha ordinato un pasto ma è andato via quando comare Anan glielo ha rifiutato. Voleva che fossi tu a pagare.»

«La prossima volta, piccioncina, dategli da mangiare» rispose Mat, infilando un marco d’argento nella scollatura della ragazza. «Parlerò con comare Anan.» Mat voleva trovare un Illuminatore — uno vero, non un tizio che vendeva fuochi d’artificio e segatura — ma in quel momento la cosa non gli importava molto. Non con l’oro incustodito. E la nebbia nel Rahad, gli Amici delle Tenebre, le Aes Sedai, la maledetta Tylin che si prendeva delle libertà e...

Caira rise e fece le fusa come un gatto che riceve le carezze. «Vuoi che ti porti del vino in camera, mio lord? O qualcos’altro?» La ragazza sorrise, speranzosa e invitante.

«Forse dopo» rispose Mat, toccandole la punta del naso. Lei rise di nuovo, lo faceva sempre. Caira si sarebbe cucita la gonna a metà coscia o anche più in alto per mostrare le sottovesti, se comare Anan glielo avesse permesso, ma la locandiera controllava le sue cameriere quasi con la stessa attenzione che prestava alle figlie. Quasi. «Forse dopo.»

Salì le scale di corsa e si tolse Caira di mente. Cosa doveva fare con Olver? IL ragazzo un giorno si sarebbe cacciato davvero in un bel guaio se avesse continuato a trattare le donne a quel modo. D’ora in poi avrebbe dovuto tenerlo il più possibile lontano da Harnan e gli altri. Anche questa ci mancava! Doveva portare Nynaeve ed Elayne fuori da Ebou Dar prima che succedesse qualcosa di grave.

La sua stanza nella parte frontale e della locanda, con le finestre che si affacciavano sulla piazza e, mentre stava per aprire la porta, sentì scricchiolare il pavimento alle sue spalle. In un centinaio di locande non se ne sarebbe nemmeno accorto, ma i pavimenti de La donna errante non scricchiolavano.

Si voltò indietro e... piroettò appena in tempo per far cadere il capello e afferrare con la mano sinistra il manganello che stava calando sulla sua testa. Il colpo gli tolse la sensibilità alla mano, ma oppose disperatamente resistenza mentre delle dita robuste gli affondavano nella gola, schiacciandolo contro la porta della sua stanza. La testa sbatté con un tonfo. Davanti agli occhi gli ballarono dei puntini argentati e neri che oscurarono il volto sudato davanti a lui. Mat vide solo un grosso naso e dei denti gialli, e anche quelli sembravano nebulosi. Si rese conto che stava per svenire: quelle dita stavano bloccando l’afflusso di sangue al cervello, oltre a impedirgli di respirare. Infilò la mano libera sotto la giubba, annaspando intorno all’elsa del pugnale come se le dita non ricordassero più a cosa servivano. Lasciò andare il manganello, lo vide sollevarsi, sapeva che gli avrebbe spezzato il cranio. Si concentrò e dopo aver estratto il pugnale dalla custodia tentò un affondo.

Al suo attacco fece eco un grido stridulo, e Mat si accorse appena del manganello che cadeva a terra, poiché l’uomo non aveva allentato la presa sulla sua gola. Mat, barcollante, lo spinse indietro cercando di allentare la stretta di ferro di quelle dita con una mano mentre continuava a colpire con il pugnale usando l’altra.

L’uomo cadde d’improvviso, scivolando dalla lama di Mat, che respirò boccate di aria dolcissima, quindi si appoggiò allo stipite di una porta per non cadere sul pavimento, da dove lo fissava un uomo dal volto e i baffi ricurvi tipici del Murandy, una giubba blu scuro che poteva essere quella di un ricco mercante. Non aveva affatto l’aspetto di un ladro.

Mat si accorse d’un tratto che erano passati oltre una porta aperta durante la colluttazione. Era una stanza più piccola della sua, senza finestre, con due lampade a olio su un tavolino accanto al letto che emanavano una luce soffusa. Un uomo dinoccolato e con i capelli chiari si alzò da una grande cassa aperta e fissò stranito il corpo. La cassa occupava quasi tutto lo spazio della stanza.

Mat aprì la bocca con l’intento di chiedere scusa per l’irruzione e l’altro afferrò un pugnale da dietro la cintura, un manganello da sotto al letto e balzò fuori dalla cesta per avventarsi contro di lui. Lo sguardo che aveva dato al cadavere non aveva mostrato nessuna sorpresa. Mat, ancora barcollante e appoggiato allo stipite, lanciò il pugnale e subito infilò la mano sotto la giubba per prenderne un altro. La lama si conficcò nella gola dell’uomo e Mat fu di nuovo sul punto di cadere, stravolta per il sollievo, mentre l’altro si divincolava, con il sangue che gli colava fra le dita, per ricadere poi nella cesta.

«È un bene essere fortunato» disse Mat rauco.

Ancora vacillante, liberò il pugnale, pulendolo sulla giubba grigia dello sconosciuto. Una giubba anche migliore dell’altra; sempre di lana, ma di taglio più elegante. Un signore di una casata minore non si sarebbe vergognato a indossarla. Andorano, a giudicare dal tipo di colletto. Mat ricadde sul letto guardando torvo l’uomo accasciato nella cesta. Un rumore gli fece alzare lo sguardo.

Vide il suo maggiordomo che stava cercando, con scarso successo, di nascondere una grossa padella, nera dietro la schiena. Nerim aveva sempre un assortiménto completo di pentole e di ogni altro oggetto che riteneva necessario al servitore di un lord durante un viaggio, il tutto stipato nella piccola stanza che condivideva con Olver accanto a quella di Mat. Era basso anche per essere Cairhienese, oltre che magrissimo. «Temo che il mio signore abbia di nuovo macchiato la giubba di sangue» mormorò melanconico. Il giorno che avesse avuto un tono di voce differente, il sole sarebbe sorto a ovest. «Mi piacerebbe che il mio signore fosse più accorto con i suoi indumenti. È molto difficile togliere il sangue da un abito senza che rimangano aloni, e gli insetti davvero non hanno bisogno di incoraggiamenti per mangiare la stoffa. In questo posto ce ne sono più di quanti ne abbia visti mai, mio signore.» Non fece parola dei due cadaveri, né di cosa aveva avuto intenzione di fare con quella padella.

Le grida avevano attirato l’attenzione di altri individui. La donna errante non era il tipo di locanda dove rientravano nella norma. Nel corridoio cominciò a sentirsi rumore di passi. Comare Anan spinse Nerim con fermezza e sollevò la gonna per scavalcare il corpo sul pavimento. Il marito la seguì, un uomo dal volto squadrato con i capelli grigi e il doppio orecchino al lobo sinistro dell’Antica e Onorevole Lega delle Reti. Le due pietre bianche nell’anello inferiore dicevano che possedeva altre barche oltre quella di cui era capitano. Jasfer Anan era uno dei motivi per cui Mat faceva attenzione a non sorridere troppo a nessuna delle figlie della locandiera. L’uomo portava un coltello da lavoro dietro la cintura e un pugnale con la lama ricurva, e la lunga veste verde e blu rivelava braccia e petto segnati da cicatrici di duelli: lui era vivo, mentre quasi tutti gli uomini che avevano causato quelle ferite non lo erano più.

Un altro motivo di prudenza era Setalle Anan, la locandiera in persona. Mat prima di quel momento non aveva mai distolto l’attenzione da una ragazza per via della madre, anche quando la madre in questione era la proprietaria del posto dove lui si trovava a dormire, ma comare Anan aveva i suoi metodi. I grandi anelli d’oro che portava alle orecchie dondolarono mentre osservava il cadavere senza battere ciglio. Era carina anche se aveva i capelli grigi, e il pugnale nuziale era infilato fra due rotondità che di solito avrebbero attirato il suo sguardo come una falena su una candela, eppure guardarla in quel modo sarebbe stato un po’ come guardare... no, non sua madre. Un’Aes Sedai forse — anche se le aveva guardate comunque — o la regina Tylin, che la Luce lo aiutasse. Mat non capiva bene perché. Erano i modi di quella donna. Era difficile pensare di fare qualcosa che potesse offendere Setalle Anan.

«Uno di loro mi ha assalito nel corridoio» Mat colpì leggermente la cassa; suonò vuota nonostante il corpo che conteneva, con le braccia e le gambe che penzolavano fuori. «In questa qui c’è solo un cadavere. Suppongo che intendessero riempirla con qualsiasi cosa fossero riusciti a rubare.» Forse il suo oro? Improbabile che avessero sentito parlare della vincita, era successo solo poche ore prima, ma avrebbe comunque chiesto a comare Anan di custodirlo in un posto sicuro.

La donna annuì con calma, gli occhi nocciola erano sereni. Due uomini pugnalati nella sua locanda non la sconvolgevano affatto. «Hanno insisto per portarla su da soli. Sostenevano che conteneva il loro campionario. Hanno preso la stanza poco prima che tu arrivassi. Hanno detto che era solo per poche ore, per dormire prima di imbarcarsi verso Nor Chasen.» Era un piccolo villaggio sulla costa est, ma era difficile che le avessero detto la verità. Il tono di voce di comare Anan implicava esattamente quello. La donna guardò i due cadaveri e sembrava volesse riportarli in vita per porre loro qualche domanda. «Ci hanno messo un po’ a scegliere la stanza. Quello con i capelli chiari era al comando. Ha rifiutato le prime tre che gli ho offerto, poi ha accettato questa, che in realtà è destinata ai servitori. Credevo che fosse solo tirchio.»

«Anche un ladro può avere le corde del borsellino corte» rispose distrattamente Mat. Adesso quei maledetti dadi nella sua testa — una testa che gli avrebbero spaccato di sicuro se quel tizio non avesse messo il piede sull’unico asse scricchiolante di tutta la locanda — avevano una ragione valida per fermarsi, ma rotolavano. Non gli piaceva per niente.

«Credi che si sia trattato di una coincidenza, mio signore?»

«Cos’altro?»

La donna non aveva risposte, ma aggrottò le sopracciglia guardando i corpi. Forse non era serena come aveva pensato lui. In fondo non era originaria di Ebou Dar.

«Ormai c’è troppa gentaccia in città.» Jasfer aveva la voce profonda, e quando parlava sembrava sempre che stesse dando ordini su un peschereccio. «Forse dovresti prendere in considerazione l’idea di assumere delle guardie.» Comare Anan si limitò a inarcare un sopracciglio, ma la mano dell’uomo si alzò con fare difensivo. «Che la pace sia con te, moglie mia. Ho parlato senza pensare.» Le dorme di Ebou Dar erano note per esprimere il loro scontento con il marito in maniera ‘tagliente’. Non era impensabile che alcune delle sue cicatrici fossero proprio opera della moglie. Il pugnale nuziale aveva diversi usi.

Ringraziando la Luce per non essere sposato con una donna di Ebou Dar, Mat ripose il proprio pugnale nella custodia insieme agli altri. Grazie alla Luce, lui non era affatto sposato. Sfiorò un pezzo di carta con le dita.

Comare Anan non aveva intenzione di perdonare in fretta il marito. «Lo fai spesso, marito mio» rispose, toccando l’elsa che le spuntava fra i seni. «Molte donne non te la lascerebbero passare liscia. Elynde mi dice sempre che non sono abbastanza ferma quando tu superi i limiti. Dovrei dare il buon esempio alle mie figlie.» Ma tutta l’amarezza si trasformò infine in un sorriso, anche se lieve. «Considerati castigato. Mi tratterò dal dirti chi dovrebbe tirare quale rete su quale imbarcazione.»

«Sei troppo buona per me, moglie mia» rispose lui asciutto. Non esisteva una gilda per le locandiere a Ebou Dar, ma ogni locanda della città era nelle mani di una donna; secondo gli abitanti di quella città, ogni tipo di sfortuna si sarebbe abbattuta su un uomo che avesse posseduto una locanda o su una donna al comando di un vascello. Nella gilda dei pescatori non c’erano donne.

Mat prese il pezzo di carta. Era bianco, costoso e rigido, ripiegato molte volte. Le poche linee erano scritte con lettere squadrate come quelle che usava Olver. O un adulto che non voleva far riconoscere la propria grafia.

Elayne e Nynaeve si stanno spingendo troppo oltre. Ricorda loro che sono ancora in pericolo per via della Torre. Avvisale di essere prudenti, o si dovranno inginocchiare per chiedere il perdono di Elaida.

Era tutto. Ancora in pericolo? Suggeriva che non fosse una novità e in qualche modo non si accordava con il loro impegno con le ribelli. No, era la domanda sbagliata. Chi gli aveva infilato quella nota in tasca? Ovviamente qualcuno che pensava di non potergliela consegnare personalmente. Chi ne aveva avuto l’opportunità da quando aveva indossato la giubba quella mattina? Quando l’aveva messa non c’era niente in quella tasca, ne era certo. Qualcuno che gli si era avvicinato molto. Qualcuno... Mat si accorse che stava canticchiando un pezzo di Mi ha abbagliato gli occhi e annebbiato la mente. Da quelle parti la canzone aveva parole diverse, e si chiamava Sottosopra e sempre intorno. Solo Teslyn o Joline avevano potuto farlo, e in entrambi i casi era impossibile.

«Cattive notizie?» chiese comare Anan. Mat infilò il messaggio in tasca. «Esiste un uomo che riesce a capire le donne? Non parlo solo delle Aes Sedai. Qualsiasi donna.»

Jasfer esplose in una gran risata e quando sua moglie gli lanciò un’occhiataccia rise anche più forte. Lo sguardo che la donna rivolse a Mat avrebbe fatto invidia a un’Aes Sedai per quanto era imperturbato. «Per gli uomini sarebbe molto facile, mio signore, se solo guardassero o ascoltassero. Sono le donne ad avere il compito più difficile. Noi dobbiamo cercare di capire gli uomini.» Jasfer si appoggiò allo stipite della porta con le lacrime che gli scendevano sul viso scuro. La moglie lo guardò di traverso piegando di lato la testa, quindi si voltò, fredda e calma — colpendolo così forte sotto le costole da fargli piegare le ginocchia. La risata venne rimpiazzata da uno sbuffo, senza interruzione. «A Ebou Dar abbiamo un detto, mio signore» disse comare Anan rivolgendosi di nuovo a Mat. «Un uomo è un labirinto di rovi nell’oscurità e nemmeno lui conosce la via d’uscita.»

Mat sbuffò. Bell’aiuto, quella donna. Be’, Teslyn, Joline o chiunque altro — doveva essere stato qualcun altro... se solo gli fosse venuto in mente chi — la Torre Bianca era molto lontana. Carridin invece era lì. Guardò torvo i due cadaveri. C’erano centinaia di altre canaglie in giro. Sarebbe riuscito a far uscire quelle due donne sane e salve da Ebou Dar. Il problema era che non sapeva come. Avrebbe tanto voluto che quei maledetti dadi smettessero di rotolare, avrebbe voluto farla finita con tutta quella faccenda.

Gli appartamenti che Joline condivideva con Teslyn erano abbastanza spaziosi. Includevano una camera da letto ciascuna e una per le cameriere, più un’altra che sarebbe andata bene per Blaeric e Fen, se Teslyn fosse riuscita a ottenere il permesso di avere con sé i suoi Custodi. Joline vedeva ogni uomo come un potenziale lupo rabbioso e non c’era verso di contraddirla quando voleva davvero qualcosa. Inesorabile come Elaida, abbatteva qualsiasi ostacolo lungo il suo percorso. Erano alla pari in tutti i modi possibili e non erano in molte a riuscire a prevalere su Teslyn senza avere un vantaggio netto. Era seduta allo scrittoio nel soggiorno quando entrò Joline, e la penna strideva sulla carta. Era sempre molto parsimoniosa con l’inchiostro.

Senza dire una parola, Joline passò dietro di lei e uscì in balcone, una lunga gabbia di ferro dipinto di bianco. La lavorazione era talmente fitta che gli uomini che stavano lavorando nel giardino tre piani più giù avrebbero avuto delle difficoltà a notare che qualcuno era uscito. I fiori in quella regione calda erano rigogliosi, con colori che superavano in brillantezza quelli usati per le pareti delle case, ma ormai a causa della siccità non fioriva più nulla. I giardinieri seguivano i vialetti di ghiaia con dei secchi d’acqua, ma le foglie erano quasi tutte gialle o marroni. Joline non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma quel caldo la spaventava. Il Tenebroso stava toccava il mondo e la loro sola speranza risiedeva in un ragazzo che stava diventando selvatico.

«Pane e acqua?» chiese di colpo Teslyn. «Inviare quel Cauthon alla Torre? Se devono esserci dei cambiamenti di programma, dovresti informarmi prima di comunicarli ad altri.»

Joline provò un leggero calore al viso. «Dovevo far abbassare le penne a Merilille. Dava lezioni quando io ero una novizia.» Anche Teslyn dava lezioni, all’epoca: un’insegnante severa che teneva le classi in una morsa di ferro. E le parole di Joline erano un promemoria, un avviso a non mettersi contro di lei, anche se le due erano alla pari nell’uso del Potere. E Merilille era di forza inferiore. «Ci faceva stare in piedi davanti alla classe e continuava a scavare alla ricerca della risposta che voleva, fino a quando non ci ritrovavamo a singhiozzare per la frustrazione davanti a tutte. Faceva finta di compatirci e forse era sincera, ma più ci consolava invitandoci a non piangere e più la situazione peggiorava.» La donna s’interruppe di colpo. Non era sua intenzione rivelare certe cose. Era colpa di Teslyn, la guardava sempre come se stesse per rimproverarla per una macchia sul vestito. Avrebbe dovuto immaginarlo, Merilille aveva insegnato anche a lei.

«Ci hai pensato per tutto questo tempo?» La voce di Teslyn era del tutto incredula. «Le Sorelle che ci hanno dato lezione hanno fatto solo il loro dovere. Talvolta penso che l’opinione che Elaida ha di te sia giusta.» Il rumore graffiante sulla carta riprese.

«Mi è... semplicemente venuto in mente quando Merilille ha iniziato a parlare come se lei fosse davvero un’ambasciatrice.» Era solo una ribelle. Joline guardò torva il giardino. Disprezzava tutte quelle donne che avevano spezzato la Torre sventolando al mondo intero la Frattura. Loro e rutti quelli che le aiutavano. Ma Elaida aveva preso delle cantonate enormi. Le Sorelle ora ribelli avrebbero potuto tornare all’ovile, con un piccolo sforzo. «Che ti ha detto di me, Teslyn?» Il rumore della penna continuò, come unghie che rigavano una lavagna. Joline rientrò. «Che cos’ha detto Elaida?»

Teslyn appoggiò un altro foglio sulla lettera, forse per asciugarla o per nasconderla agli occhi dell’altra, ma non rispose subito. Guardò torva Joline — o forse la guardò e basta, con lei talvolta era difficile capirlo — e alla fine sospirò. «Molto bene. Se vuoi saperlo, ha detto che ti comporti ancora come una bambina.»

«Una bambina?» La sorpresa di Joline non ebbe alcun effetto sull’altra donna.

«Alcune» aggiunse Teslyn con calma «cambiano poco dal giorno in cui hanno indossato l’abito da novizia. Altre non cambiano affatto. Elaida crede che tu non sia ancora cresciuta e che non lo sarai mai.»

Joline scosse il capo furiosa, non aveva voglia di parlare. Sentire una tale cosa da una la cui madre era ancora bambina quando lei aveva ottenuto lo scialle! Elaida era stata coccolata troppo da novizia, aveva ricevuto troppi complimenti per la sua forza e la notevole velocità nell’apprendimento. Joline sospettava che fosse il motivo per cui era tanto furiosa nei confronti di Elayne, Egwene e la selvatica, Nynaeve. Perché erano più forti di lei, perché avevano trascorso meno tempo da novizie, e non importava se erano state spinte avanti troppo in fretta. In realtà Nynaeve non era neppure stata novizia, una cosa di cui prima non si era mai sentito parlare.

«Visto che hai affrontato l’argomento,» proseguì Teslyn «forse dovremmo cercare di trarre vantaggio da questa situazione.»

«Che intendi dire?» Joline abbracciò la Vera Fonte e incanalò Aria per sollevare il boccale d’argento che si trovava sul tavolo di turchese lavorato e si versò da bere. Come sempre, la gioia di abbracciare saidar l’eccitò, calmandola quasi subito.

«È ovvio, mi sembra. Gli ordini di Elaida sono ancora validi: Elayne e Nynaeve devono essere riportate alla Torre non appena trovate. Ho accettato di aspettare, ma forse adesso non dovremmo più farlo. È un peccato che quella al’Vere non sia con loro, ma queste due ci faranno rientrare nelle grazie di Elaida, e se riusciamo ad aggiungere Cauthon al gruppo... Credo che se torniamo con questi tre, ci accoglierà come se le avessimo portato al’Thor in persona. Inoltre, quella Aviendha sarebbe un’ottima novizia, selvatica o meno.»

Il calice di Joline fluttuò su un flusso d’Aria e la donna rilasciò il Potere con riluttanza. Non aveva mai perso l’ardore della prima volta che aveva toccato la Fonte. Il vino al melone era un povero sostituto per saidar. La parte peggiore della sua penitenza prima di andare via dalla Torre era stata perdere il diritto a toccare saidar. Quasi la parte peggiore. L’aveva deciso lei stessa, ma Elaida aveva reso ben chiaro che se non si fosse scelta una punizione severa l’avrebbe fatto lei in persona. Non aveva dubbio che il risultato sarebbe stato ben peggiore. «Nelle sue grazie? Teslyn, ci ha umiliate per nessun’altra ragione se non per mostrare alle altre che poteva farlo. Ci ha spedite in questo buco infestato di mosche, il luogo meno importante di tutti da questo lato dell’oceano Aryth, ambasciatrici presso una regina meno potente di una dozzina di nobili, che potrebbero toglierle il trono domani se volessero prendersi l’incomodo. E tu vorresti ottenere di nuovo i suoi favori?»

«Lei è l’Amyrlin Seat.» Teslyn toccò la lettera con il foglio sopra, muovendo il pezzo di carta da una parte e dall’altra come se stesse facendo mente locale. «Rimanendo in silenzio per un po’ le abbiamo fatto capire che non siamo i suoi cagnolini, ma se continuiamo in questo modo troppo a lungo potremmo essere accusate di tradimento.»

Joline tirò su con il naso. «Ridicolo! Quando riporteremo indietro quelle ragazze, saranno solo punite per essere scappate e, ora che lo sappiamo, per aver fatto finta di essere Sorelle a pieno titolo.» Tese le labbra. Erano entrambi colpevoli, come lo erano quelle che avevano permesso loro di fare una cosa del genere, ma una delle due aveva dichiarato appartenenza alla sua stessa Ajah. Una volta che l’Ajah Verde avesse finito con lei, l’erede al trono di Andor sarebbe diventata una ragazza molto castigata, anche se forse sarebbe stato meglio se prima Elayne si fosse assicurata il trono del Leone. Il suo addestramento doveva essere completato, in un modo o nell’altro. Joline non aveva intenzione di vedere Elayne persa alla Torre, qualsiasi cosa avesse fatto.

«Non dimenticare che si sono unite alle ribelli.»

«Per la luce, Teslyn! Con ogni probabilità saranno rimaste prese nel mucchio come quelle ragazze che le ribelli hanno portato via dalla Torre. Importa davvero, tanto se iniziano a pulire le stalle domani o l’anno prossimo?» Di sicuro sarebbe stata questa la punizione per le novizie e le Ammesse andate con le ribelli. «Anche le Ajah possono aspettare di averle fra le mani. Non è proprio come se non fossero al sicuro. Dopo tutto sono Ammesse, e sembrano contente di stare dove possiamo raggiungerle ogni volta che vogliamo. Io direi di rimanere dove ci ha mandato Elaida e continuare a stare con le mani in mano e a bocca chiusa. Fino a quando non ci chiederà gentilmente cosa stiamo combinando.» Non disse che era pronta ad aspettare fino a quando Elaida non fosse stata deposta, com’era successo con Siuan. Il Consiglio di sicuro non avrebbe accettato per sempre le prepotenze e i pasticci di quella donna, ma Teslyn era una Rossa e non le sarebbe piaciuto sentire una cosa simile.

«Immagino che non ci sia alcuna urgenza» rispose lentamente Teslyn, ma la sua perplessità era chiara come la luce del sole.

Joline prese una sedia con un altro flusso d’Aria e cercò di convincere la compagna che il silenzio rimaneva la politica migliore. E così sono ancora una bambina, vero?, pensò. Se fosse riuscita a fare a modo suo, Elaida non avrebbe sentito una parola da Ebou Dar fino a quando non l’avesse implorata.

La dorma sul tavolo inarcò la schiena per quanto i legacci glielo consentivano. Aveva gli occhi sgranati, la gola straziata da un grido acuto che sembrava infinito. Poi il grido si trasformò in un verso strangolato e raschiante, la donna cadde in preda alle convulsioni, tremando dalla testa ai piedi, quindi crollò, silenziosa. Occhi ancora più sgranati fissavano ciechi il soffitto intricato del sotterraneo.

Lasciarsi andare alle imprecazioni era irrazionale, ma Falion si dimostrò degna del gergo di uno stalliere. Non per la prima volta, desiderò che con lei ci fosse Temaile invece di Ispan. Con Temaile, le domande ricevevano sempre risposta e nessuno moriva fino a quando non lo decideva lei. Certo, godeva troppo di quel lavoro, ma non era questo il punto.

Falion incanalò un’altra volta, raccolse dal pavimento sudicio i vestiti della donna e li lasciò ricadere sul corpo. La cintura rossa finì a terra, e lei l’afferrò e la scagliò di nuovo sulla pila d’indumenti. Forse avrebbe dovuto usare metodi diversi, ma cinghie, pinze e ferri roventi erano così... sudici. «Abbandonate il corpo in qualche vicolo. Squarciatele la gola così sembrerà che è stata derubata. Potete tenervi i soldi del borsellino.»

I due uomini accovacciati vicino al muro di pietra si scambiarono sguardi perplessi. Arnin e Nad sembravano fratelli, capelli neri, occhi piccoli e cicatrici, con più muscoli di tre uomini messi insieme. Erano abbastanza intelligenti da eseguire dei semplici ordini. Di solito. «Chiedo scusa, padrona,» disse Arnin esitante «ma nessuno crederà...»

«Fai ciò che ti è stato detto!» scattò la donna incanalando per sollevarlo in piedi e schiacciarlo contro il muro. La testa dell’uomo rimbalzò, ma di certo non gli aveva causato alcun danno.

Nad si precipitò verso il tavolo, farfugliando: «Sì, padrona. Come ordini, padrona.» Quando la donna rilasciò Arnin, questi non farfugliò ma barcollò senza aggiungere altre obiezioni e aiutò l’altro a prendere il corpo come se fosse spazzatura da buttare via. Be’, in effetti adesso era solo spazzatura. Falion si pentì del suo accesso d’ira. Lasciare che i nervi prendessero il sopravvento era irrazionale, anche se talvolta sembrava efficace. Dopo tutti quegli anni, ancora la sorprendeva.

«A Moghedien questo non piacerà» disse Ispan non appena gli uomini andarono via. Le perline blu e verdi delle sue mille treccine nere tintinnarono quando scosse il capo. Era rimasta in un angolo, nell’ombra per tutto il tempo, dietro un piccolo schermo che le impediva di ascoltare.

Falion riuscì a non guardarla in cagnesco. Ispan era l’ultima compagna che avrebbe scelto. Apparteneva all’Ajala Azzurra, o meglio, vi era appartenuta. Forse si sentiva ancora legata. Falion per esempio non si considerava meno Bianca di prima solo perché si era unita all’Ajah Nera. Le Azzurre erano troppo impulsive, si lasciavano guidare dalle emozioni in cose che invece avrebbero dovuto essere viste solo con gran distacco. Rianna, un’altra Bianca, sarebbe stata la sua scelta, anche se la donna aveva idee curiose e malsane su diversi punti della logica. «Moghedien si è dimenticata di noi, Ispan. O forse hai ricevuto qualche messaggio privato da lei? In ogni caso, sono convinta che questo nascondiglio non esiste.»

«Moghedien dice che esiste» rispose Ispan con fermezza, ma la voce cominciò presto ad accalorarsi. «Un magazzino di angreal, sa’angreal e ter’angreal. Una parte verrà data a noi. Angreal tutti per noi, Falion. Forse anche dei sa’angreal. Lo ha promesso.»

«Moghedien aveva torto.» Falion vide lo stupore dilatare gli occhi dell’altra donna. I Prescelti erano solo persone. Quella lezione aveva sconvolto anche Falion, ma alcune rifiutavano d’imparare. I Prescelti erano molto forti, avevano conoscenze infinitamente superiori e forse avevano già ricevuto la ricompensa dell’immortalità, ma, secondo tutte le prove che aveva, complottavano e lottavano uno contro l’altro come gli abitanti del Murandy quando si contendevano una coperta.

Lo stupore di Ispan si trasformò velocemente in rabbia. «Ci sono anche altre che lo cercano. Starebbero tutte lavorando per niente? Anche gli Amici delle Tenebre sono alla ricerca; devono aver ricevuto l’incarico da altri Prescelti. Se sono i Prescelti a dare ordini, come puoi dire che non c’è nulla?»

Ispan non capiva: se qualcosa non poteva essere trovata, il motivo più logico era che non esisteva. Falion attese. Ispan non era stupida, solo paurosa, e lei credeva che la gente dovesse imparare da sola le cose che avrebbe già dovuto sapere. Le menti pigre avevano bisogno d’esercizio.

Ispan camminava agitando la gonna e guardando torva la polvere e le ragnatele. «Questo posto puzza. Ed è lercio!» Rabbrividì nel vedere un grosso scarafaggio nero che si arrampicava sul muro. Il bagliore la circondò per un momento; un flusso schiacciò lo scarafaggio con un piccolo schiocco. Ispan si pulì le mani sul vestito con espressione disgustata, come se le avesse usate al posto del Potere. Era di stomaco delicato anche se, per fortuna, non quando aveva altri incarichi. «Non dirò a una dei Prescelti che abbiamo fallito, Falion. Ci farebbe invidiare la sorte di Liandrin, lo sai?»

Falion riuscì quasi a non rabbrividire, poi attraversò lo scantinato e si versò un calice di vino alla prugna. Le prugne erano vecchie e il vino troppo dolce, ma le sue mani rimasero ferme. Avere paura di Moghedien era perfettamente accettabile, ma cedere a quella paura non lo era affatto. Forse Moghedien era morta. Ormai avrebbe dovuto convocarle da tempo, o prenderle nel sonno e trascinarle nel tel’aran’rhiod per ricordare loro che non avevano ancora eseguito i suoi ordini. In ogni caso, fino a quando non ne avesse visto il corpo, la cosa più logica da fare era continuare a comportarsi come se Moghedien potesse apparire da un momento all’altro. «C’è un sistema.»

«Quale? Interrogare ogni Donna Sapiente di Ebou Dar? Quante ce ne sono? Un centinaio? Forse duecento? Penso che le Sorelle nel palazzo di Tarasin se ne accorgerebbero.»

«Dimentica i tuoi sogni di possedere un sa’angreal, Ispan. Non esiste alcun magazzino nascosto, nessun sotterraneo segreto in nessun palazzo.» Falion parlava in tono freddo, misurato, con una compostezza che pareva crescere con l’aumentare dell’agitazione di Ispan. Si era sempre divertita a incantare le classi di novizie con il suono della propria voce. «Quasi tutte le Donne Sapienti sono delle selvatiche, ed è molto difficile che siano al corrente di ciò che stiamo cercando. Non è mai stata trovata una selvatica con un angreal, meno ancora con un sa’angreal. Al contrario, secondo ogni documentazione, una selvatica che scopre un oggetto legato al Potere se ne libera al più presto per paura di attirare su di sé l’ira della Torre Bianca. Le donne che vengono mandate via dalla Torre, invece, non sembrano avere le stesse paure. Come ben saprai, quando vengono perquisite prima che vadano via, una su tre ha nascosto qualcosa su di sé, un oggetto del Potere o qualcosa di simile. Delle poche Donne Sapienti che un tempo erano state alla Torre, Callie era la scelta perfetta. Quando è stata mandata via, quattro anni fa, ha cercato di rubare un piccolo ter’angreal. Un oggetto inutile che ricrea immagini di fiori e il suono di una cascata, ma pur sempre un oggetto legato a saidar; inoltre, quella donna aveva cercato di scoprire tutti i segreti delle novizie, avendo quasi sempre successo. Se ci fosse stato anche un solo angreal a Ebou Dar, per non parlare di un magazzino pieno, pensi che se ne sarebbe stata quattro anni qui senza scoprirlo?»

«Anche io porto lo scialle, Falion» ripose Ispan con straordinaria severità. «E so tutto questo bene quanto te. Hai detto che c’era un altro sistema. Quale?» Non voleva proprio usare il cervello.

«Cosa farebbe felice Moghedien quanto la scoperta del magazzino?» Ispan la fissò battendo un piede a terra. «Nynaeve al’Meara, Ispan. Moghedien ci ha abbandonate per andarla a cercare, ma ovviamente quella donna è riuscita a sfuggirle. Se le consegniamo Nynaeve — e la giovane Trakand — ci perdonerà ogni altro fallimento.» E questo dimostrava chiaramente che i Prescelti potevano essere irrazionali. Era comunque bene essere assai prudenti con chi era sia irrazionale che più potente di te. Ispan non era più potente di lei.

«Avremmo dovuto ucciderla, come ho suggerito la prima volta che l’abbiamo vista» rispose amareggiata. Camminò nervosamente avanti e indietro agitando le mani, e la sporcizia sul pavimento scricchiolava sotto i suoi piedi. «Sì, sì, lo so. Le nostre Sorelle nel palazzo avrebbero potuto insospettirsi. Non vogliamo attirare la loro attenzione. Ma hai dimenticato Tanchico? E Tear? Ovunque appaiono quelle due ragazze, ci sono dei disastri. Io credo che se non possiamo ucciderle dovremmo rimanere ben alla larga da Nynaeve al’Meara ed Elayne Trakand. Quanto più alla larga possibile!»

«Calmati, Ispan, calmati.» La serenità della voce di Falion parve agitare ancora di più l’altra donna. Ma Falion era sicura: la logica doveva prevalere su ogni altra emozione.

Seduto su un barile capovolto nella relativa frescura di un vicolo stretto, studiò la casa dall’altro lato della strada trafficata. A un tratto si accorse che si stava di nuovo toccando la testa. Non aveva emicranie, ma talvolta si sentiva... strano. Succedeva spesso quando pensava a cose che non poteva ricordare.

Tre piani d’intonaco bianco, la casa apparteneva a un’orafa che aveva appena ricevuto la visita di due amiche che aveva incontrato durante un viaggio a nord qualche anno prima. Le amiche erano solo state intraviste all’arrivo, poi non erano più uscite. Scoprirlo era stato facile; scoprire che erano Aes Sedai era stato solo appena più difficile.

Un uomo snello con una veste stracciata, che fischiettava camminando con la mente piena di pessime intenzioni, si fermò quando lo vide sul barile. La giubba e il posto nell’ombra dove si era seduto — nonché il suo stesso aspetto, dovette ammettere a malincuore — erano con ogni probabilità una tentazione. Infilò una mano sotto la giubba. Le sue mani ormai non possedevano più la forza e la flessibilità di quelle di uno spadaccino, ma i due pugnali che aveva con sé da oltre trent’anni avevano sorpreso più di uno spadaccino. Forse dai suoi occhi trapelò qualcosa, perché il giovane ebbe un ripensamento e se ne andò continuando a fischiettare.

Accanto alla casa dell’orafa, il cancello che conduceva alle stalle sul retro si aprì e ne uscirono due uomini nerboruti che spingevano un carrettino pieno di letame e fieno. Che stavano combinando? Arnin e Nad non erano addetti alla pulizia delle stalle.

Decise che sarebbe rimasto nascosto in quel vicolo fino a quando fosse sceso il buio, poi avrebbe cercato di trovare di nuovo la graziosa assassina di Carridin.

Tolse di nuovo la mano dalla testa. Prima o poi avrebbe ricordato. Non gli era rimasto molto tempo, ma era tutto ciò che aveva. Questo almeno lo ricordava.

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