Elaida, affacciata alla finestra ad arco a circa ottanta spanne di altezza, quasi in cima alla Torre Bianca, poteva vedere il paesaggio oltre Tar Valon per chilometri fino alle pianure e le foreste ondulate intorno all’ampio fiume Erinin che scendeva da nordovest prima di biforcarsi attorno alle mura bianche della grande città-isola. Le lunghe ombre del mattino dovevano aver già cominciato a screziare la città, ma da lassù tutto sembrava chiaro e luminoso. Nemmeno le leggendarie torri senza cima di Cairhien avevano mai rivaleggiato in altezza con la Torre Bianca. Di sicuro nessuna delle altre costruite a Tar Valon la superava nonostante tutti gli uomini parlassero con ammirazione delle torri e dei ponti sospesi nel cielo di Tar Valon.
A quell’altezza un venticello quasi costante smorzava leggermente il caldo innaturale che stava opprimendo il mondo. La festa delle Luci era ormai passata e il terreno avrebbe dovuto essere coperto di neve, ma il clima pareva quello di un’estate torrida. Un altro segno, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l’Ultima Battaglia era ormai vicina e il Tenebroso adesso toccava il mondo. Elaida naturalmente non permetteva che il caldo la turbasse nemmeno quando si aggirava ai piani inferiori. La brezza non era il motivo per cui aveva trasferito i propri alloggi in quelle semplici stanze e per giunta con la seccatura di tutti quegli scalini.
Le mattonelle ordinarie color ruggine e le pareti di marmo bianco adornate da alcuni arazzi variopinti non reggevano il confronto con la grandiosità dello studio dell’Amyrlin e delle altre stanze ai piani inferiori che le appartenevano. Di tanto in tanto Elaida le usava ancora — nella mente di alcune donne quelle stanze erano associate al potere dell’Amyrlin Seat — ma aveva spostato la sua residenza lassù e vi svolgeva la maggior parte del suo lavoro. Lo aveva fatto per la veduta. Non sulla città, sul fiume o sulla foresta, ma sui lavori avviati in prossimità della Torre.
Grandi scavi e fondamenta si stendevano in quello che un tempo era stato il cortile delle esercitazioni dei Custodi, insieme ad alte gru di legno e pile di lastre di marmo e granito. Muratori e carpentieri sciamavano come formiche e una processione infinita di carri varcava i cancelli per accedere alla zona dei lavori e depositare altra pietra. A un’estremità di quello spazio si ergeva il ‘modello’ di legno, come lo chiamavano i muratori, grande abbastanza da consentire agli uomini di entrarvi carponi e osservarne ogni dettaglio, il posto esatto di ogni pietra. La maggior parte di loro non sapeva leggere — né le parole né le piante degli architetti. Il modello era grande quanto una casa di campagna.
Se re e regine possedevano palazzi, perché mai l’Amyrlin Seat doveva essere relegata in poche stanze, appena migliori di quelle delle altre Sorelle ordinarie? Il palazzo di Elaida avrebbe eguagliato in splendore la Torre Bianca, con una grande guglia, dieci spanne più alta della stessa Torre. Il capo cantiere era impallidito quando ne era stato messo al corrente: la Torre Bianca era stata costruita dagli Ogier con la collaborazione delle Sorelle che avevano usato il Potere. Tuttavia, era stata sufficiente una sola occhiata al volto di Elaida perché mastro Lerman cominciasse a inchinarsi e balbettare che ovviamente tutto sarebbe stato fatto come lei desiderava. Non che ci fossero stati dubbi in proposito.
Elaida tese le labbra esasperata. Avrebbe voluto che quel lavoro fosse eseguito dagli Ogier, ma questi si erano rinchiusi nei loro stedding per chissà quale motivo. La sua richiesta a quello più vicino, lo stedding Jenotine sulle colline Nere, era stata respinta. In maniera educata, ma pur sempre respinta, e senza spiegazioni, nemmeno all’Amyrlin Seat. Gli Ogier erano quanto meno solitari. O forse si stavano allontanando da quel mondo in tumulto. Quelle creature si tenevano alla larga dai conflitti degli umani.
Elaida scacciò con fermezza gli Ogier dalla propria mente. Era molto orgogliosa della sua capacità di saper separare il possibile dall’impossibile. Gli Ogier erano una questione insignificante. Non avevano più alcun ruolo nella vita del mondo, dai tempi in cui avevano costruito le città che adesso visitavano raramente, di solito per effettuare degli interventi di restauro.
La vista degli uomini che si affaccendavano nel cantiere simili a scarafaggi le fece aggrottare leggermente le sopracciglia. La costruzione procedeva a rilento. Magari gli Ogier erano fuori questione, ma forse l’Unico Potere avrebbe potuto essere usato di nuovo. Erano poche le Sorelle davvero abili a rinsaldare i flussi di Terra, ma non era necessaria una grande forza per fortificare la pietra o per cementare i mattoni l’uno con l’altro. Sì. Nella sua mente, Elaida vedeva già il palazzo completato, i viali affiancati dai colonnati, le grandi cupole che risplendevano dorate e quella guglia protesa verso il firmamento. Sollevò gli occhi verso il cielo terso, dove la spira avrebbe svettato, e sospirò profondamente. Sì. Avrebbe dato gli ordini in giornata.
L’enorme orologio alle sue spalle batté la terza levata e i gong e le campane della città gli fecero eco battendo anch’essi l’ora. Lassù il suono giungeva attutito. Elaida si allontanò dalla finestra con un sorriso, lisciandosi il vestito di seta color crema screziata di rosso e sulle spalle l’ampia stola a strisce dell’Amyrlin Seat.
Sull’orologio dalle decorazioni dorate, le statuine d’oro, d’argento e di metallo smaltato si muovevano seguendo i rintocchi della terza levata. In un riquadro, dei Trolloc con corna e musi animaleschi fuggivano da un’Aes Sedai avvolta in un mantello; in un altro, un uomo, un falso Drago, cercava di schivare i fulmini d’argento che ovviamente erano stati scagliati da un’altra Sorella. E sopra il quadrante dell’orologio, oltre il capo di Elaida, un re e una regina incoronati si inginocchiavano al cospetto dell’Amyrlin Seat con la sua stola smaltata, mentre la Fiamma di Tar Valon, intagliata in una grande goccia di luna, si stagliava al centro di un arco dorato sopra la testa della statuina dell’Amyrlin.
Elaida non rideva spesso, ma non riuscì a trattenersi dal farlo alla vista di quell’orologio. Cemaile Sorenthaine, eletta dall’Ajah Grigia, lo aveva fatto realizzare sognando il ritorno dei tempi che avevano preceduto le Guerre Trolloc, quando nessun governante poteva mantenere il trono senza l’approvazione della Torre. I grandi progetti di Cemaile si erano rivelati inconsistenti, come la stessa Cemaile, e per tre secoli l’orologio era rimasto in una soffitta polverosa, un oggetto imbarazzante che nessuna osava esporre. Fino all’avvento di Elaida. La Ruota del Tempo girava. I tempi passati potevano ritornare. E sarebbero ritornati.
Il grande orologio era in armonia con la porta che conduceva al soggiorno e, da lì, alla camera da letto e allo spogliatoio. Alle pareti erano appesi arazzi raffinati, lavori variopinti di Tear, Kandor e dell’Arad Doman, intessuti con fili d’oro e d’argento che risplendevano tra quelli semplicemente tinti. Ogni arazzo era sistemato di fronte a un altro dello stesso stile. A Elaida era sempre piaciuto l’ordine. Il tappeto, che copriva quasi tutte le mattonelle del pavimento, proveniva da Tarabon ed era decorato con motivi rossi, verdi e dorati; i tappeti di seta erano fra i più preziosi. In ogni angolo della stanza era disposto un piedistallo di marmo decorato con delle sobrie linee verticali, sul quale era appoggiato un vaso di fragile porcellana del Popolo del Mare contenente una ventina di rose disposte con estrema cura. Per far fiorire le rose era ormai necessario l’Unico Potere, soprattutto con quella siccità e quel caldo, ma a parer suo ne valeva la pena. Sia l’unica sedia — adesso nessuno si sedeva al suo cospetto — che la scrivania erano interamente decorate con intagli dorati, ma nello stile severo di Cairhien. Una stanza semplice davvero, con il soffitto che raggiungeva appena le due spanne, ma che sarebbe stata perfetta fino a quando non fosse stato completato il suo palazzo. Con quel panorama, poteva bastare.
Nell’alto schienale della sedia era incastonata la Fiamma di Tar Valon, ricavata da una pietra di luna, che risaltò sopra i suoi capelli scuri dopo che Elaida si fu seduta. La superficie lucida della scrivania era quasi del tutto sgombra, vi erano appoggiate sopra solo tre scatole laccate dell’Altara, disposte in un ordine ben preciso. Elaida aprì quella decorata con i falchi d’oro fra le nuvole bianche e prese una striscia stretta di carta sottile che stava in cima a un mucchio di lettere e rapporti.
Per la centesima volta, lesse il messaggio arrivato da Cairhien con un piccione viaggiatore, circa dodici giorni addietro. Poche nella Torre sapevano di quel messaggio, e solo lei ne conosceva il contenuto. In ogni caso, anche se le altre lo avessero scoperto, non ne avrebbero comunque capito il significato. Il pensiero le fece quasi venire voglia di ridere di nuovo.
È stato messo l’anello al naso del toro.
Prevedo un viaggio piacevole per portarlo a vendere.
Non c’era alcuna firma, ma non era necessaria. Solo Galina Casban aveva ordine d’inviare quel messaggio glorioso. Galina, la donna di cui Elaida si fidava, alla quale aveva assegnato un incarico che non avrebbe affidato a nessun’altra se non sé stessa; non si fidava completamente di nessuna, ma la donna al comando dell’Ajah Rossa era la miglior risorsa disponibile. Anche Elaida aveva fatto parte dell’Ajah Rossa dopo tutto, e per molti versi si considerava ancora una Rossa.
È stato messo l’anello al naso del toro.
Rand al’Thor — il Drago Rinato, l’uomo che era parso sul punto di dominare il mondo intero, l’uomo che ne aveva già conquistato fin troppo — adesso era schermato, sottomesso al controllo di Galina. E nessuno di quelli che potevano aiutarlo ne era al corrente. Se vi fosse stata anche una sola possibilità che qualcuno avesse scoperto il fatto, le parole di Galina sarebbero state diverse. In base ai messaggi precedenti, quell’uomo aveva riscoperto come viaggiare, un Talento che le Aes Sedai avevano perso ai tempi della Frattura, ma che non l’aveva comunque salvato. Al contrario, aveva addirittura giocato a favore di Galina. Era evidente che al’Thor aveva l’abitudine di andare e tornare a suo piacimento, senza alcun preavviso. Chi avrebbe mai sospettato che stavolta non era andato via ma era stato sequestrato? A quel pensiero Elaida ebbe quasi l’impulso di ridacchiare.
Tra una settimana, due al massimo, al’Thor si sarebbe trovato nella Torre, strettamente sorvegliato e guidato fino a Tarmon Gai’don, non più libero di devastare il mondo. Era pura follia permettere a un qualsiasi uomo in grado di incanalare di andarsene in giro liberamente, ma era assai peggio se si trattava dell’uomo che, secondo le Profezie, avrebbe dovuto affrontare il Tenebroso durante l’Ultima Battaglia. Voglia la Luce che quel momento giunga tra molti anni, pensò Elaida, nonostante il clima impazzito. Serviva molto tempo per preparare il mondo correttamente, iniziando dal porre rimedio a quanto aveva già fatto al’Thor.
Per fortuna il danno che aveva causato non era nulla a confronto con quello che avrebbe potuto continuare a provocare da libero. Senza considerare che avrebbe potuto farsi ammazzare prima del momento in cui ci sarebbe stato bisogno di lui. Be’, quel problematico ragazzo sarebbe stato avvolto nelle fasce e tenuto al sicuro come un poppante fra le braccia della madre, fino a quando fosse giunto il tempo di portarlo a Shayol Ghul. Dopodiché, se fosse sopravvissuto...
Elaida increspò le labbra. Le Profezie del Drago dicevano che il Drago sarebbe morto, cosa che senza dubbio era assai auspicabile.
«Madre?» Elaida quasi sobbalzò nell’udire la voce di Alviarin. Era entrata senza nemmeno bussare! «Ho notizie dalle Ajah, Madre.» Snella e dal volto freddo, Alviarin indossava la piccola stola della Custode tinta di bianco e un abito dello stesso colore, per mostrare che era venuta dall’Ajah Bianca, ma nella sua bocca la parola ‘Madre’ sembrava più un titolo fra pari che uno onorifico.
La sola presenza di Alviarin fu sufficiente per intaccare il buon umore di Elaida. Il fatto che la Custode degli Annali fosse appartenuta all’Ajah Bianca e non alla Rossa era sempre un fastidioso promemoria della sua debolezza al momento dell’elezione. Debolezza che era stata eliminata, ma non del tutto. Non ancora. Elaida era stanca di rammaricarsi per lo scarso numero dei suoi informatori personali al di fuori di Andor, stanca di rimpiangere il fatto che le donne che avevano preceduto lei e Alviarin fossero fuggite — aiutate a fuggire, dovevano essere state aiutate! — prima che le chiavi della grande rete di spionaggio dell’Amyrlin venissero strappate dalle loro mani.
Elaida bramava quella rete che le spettava di diritto. Secondo una solida tradizione, le Ajah riferivano alla Custode qualsiasi minuzia che fossero disposte a condividere con l’Amyrlin una volta informate dai propri occhi e orecchie, ma Elaida era convinta che Alviarin le tenesse nascosta parte di quel flusso già di per sé esiguo. Tuttavia, non poteva chiedere informazioni direttamente alle Ajah. Era già un male essere tanto debole, non c’era bisogno anche di andare in giro a elemosinare informazioni al mondo intero. Alla Torre, che in fondo era la sola parte del mondo che contasse davvero.
Elaida mantenne un’espressione fredda quanto quella dell’altra donna, riconoscendo la sua presenza nella stanza con un semplice cenno del capo mentre faceva finta di esaminare le carte contenute nella scatola laccata. Sfogliò le pagine lentamente, una a una e, sempre con estrema lentezza, le ripose nella scatola. Senza leggere nemmeno una parola. Far attendere Alviarin la seccava perché era meschino, e le rammentava che quei sistemi erano l’unico modo in cui poteva dare una lezione a una donna che avrebbe dovuto essere la sua servitrice.
Un’Amyrlin poteva emanare qualsiasi decreto desiderasse, la sua parola era legge assoluta. Eppure, in realtà, senza il sostegno del Consiglio della Torre, molti di quei decreti diventavano solo uno spreco di carta e inchiostro. Certo, nessuna Sorella avrebbe disobbedito a un’Amyrlin, non apertamente, ma molti decreti richiedevano almeno un altro centinaio di azioni prima di essere messi in pratica. Nella migliore delle ipotesi il tutto accadeva lentamente, talvolta con una tale lentezza da renderlo alla fine inattuabile, e i presupposti di Elaida erano ben lungi dall’essere buoni.
Alviarin era rimasta in piedi, calma e immobile come un lago ghiacciato. Elaida chiuse la scatola laccata dell’Altara, lasciando fuori la striscia di carta che annunciava la sua vittoria ormai certa. La toccò istintivamente, come se fosse un talismano. «Teslyn e Joline si sono finalmente degnate di farci pervenire altre notizie oltre a quella di essere arrivate a destinazione sane e salve?»
Quella domanda serviva a ricordare ad Alviarin che nessuna di loro poteva considerarsi al di sopra della sua autorità. Non importava a nessuno cosa accadesse a Ebou Dar, a Elaida meno che alle altre; la capitale dell’Altara poteva anche sprofondare nel mare e, a parte i mercanti, nel resto della nazione non se ne sarebbe accorto nessuno. Ma Teslyn aveva fatto parte del Consiglio per quasi quindici anni prima che Elaida le ordinasse di dimettersi da quella posizione. Se Elaida poteva inviare un’Adunante — un’Adunante dell’Ajah Rossa — che aveva sostenuto la sua ascesa allo scranno a fare da ambasciatrice in un reame insignificante, senza che nessuna conoscesse il vero motivo mentre circolavano centinaia di voci, allora poteva infierire su chiunque. Joline invece era una questione diversa. Aveva occupato la posizione di Adunante per l’Ajah Verde solo per qualche settimana, e tutte erano certe che le Verdi l’avessero scelta per dimostrare che non si sarebbero lasciate intimidire dalla nuova Amyrlin, che le aveva in precedenza assegnato una punizione esemplare. Quell’insolenza ovviamente non poteva essere tollerata, come di fatto era stato. E anche di questo potevano essere certe tutte.
La domanda era servita a ricordare ad Alviarin che anche lei era vulnerabile, ma la donna snella si limitò a sorriderle con freddezza. Fino a quando il Consiglio fosse rimasto com’era, lei sarebbe stata immune. La Custode rovistò fra le carte che aveva in mano, estraendone infine una.
«Nessuna notizia da Teslyn o Joline, Madre, no, anche se con le notizie che hai ricevuto sinora dagli altri regni...» Il sorriso della donna divenne più profondo e assunse una luce pericolosamente prossima al divertimento. «A quanto pare i governanti vogliono provare tutti a usare le proprie ali, per vedere se sei forte quanto lo era... la donna che ti ha preceduta.» Anche Alviarin era abbastanza intelligente da non pronunciare il nome di Siuan Sanche in sua presenza. Tuttavia, aveva ragione: tutti i re e le regine, anche i semplici nobili, pareva stessero mettendo alla prova i limiti del suo potere. Doveva dare qualche esempio.
Dopo aver lanciato un’occhiata al foglio selezionato, Alviarin proseguì. «Abbiamo comunque ricevuto notizie da Ebou Dar. Tramite l’Ajah Grigia.» Aveva forse usato un’enfasi particolare, magari per far penetrare più a fondo quella spina? «A quanto pare Elayne Trakand e Nynaeve al’Meara si trovano lì. Fanno finta di essere Sorelle a pieno titolo, con la benedizione della... ‘ambasciata ribelle’ presso la regina Tylin. Ci sono anche altre due donne non ancora identificate che forse stanno facendo la stessa cosa. Gli elenchi di chi si è unita alle ribelli sono incompleti. Forse sono solo amiche di Elayne e Nynaeve. Le Grigie non ne sono sicure.»
«E perché, per la Luce, si troverebbero a Ebou Dar?» chiese Elaida noncurante. Teslyn le avrebbe di sicuro inviato notizie in quel caso. «Con ogni probabilità le Grigie hanno cominciato a riferire anche i pettegolezzi. Il messaggio di Tarna diceva che quelle ragazze sono a Salidar con le ribelli.» Tarna Feir aveva riferito che anche Siuan Sanche si trovava con le ribelli. E con loro c’era Logain Ablar, il quale stava diffondendo quelle bugie maligne che nessuna delle Sorelle Rosse poteva abbassarsi a riconoscere, tanto meno a negare. C’era di sicuro lo zampino di quella Sanche in una tale oscenità, o domani il sole sarebbe sorto a occidente. Perché non si era limitata a strisciare via e morire da qualche parte, convenientemente lontano, come facevano tutte le altre donne quietate?
Non sospirare fu uno sforzo. Logain avrebbe potuto essere impiccato senza tanto clamore non appena il problema delle ribelli fosse stato risolto: la maggior parte del mondo lo reputava già morto. La sporca calunnia secondo la quale era stata l’Ajah Rossa a fare di lui un falso Drago sarebbe morta con quell’uomo. Una volta sistemate le ribelli, Siuan Sanche sarebbe stata costretta a cedere la chiave della rete di occhi e orecchie dell’Amyrlin, e a fare i nomi delle traditrici che l’avevano aiutata a fuggire. Elaida sperava scioccamente che fra quelli sarebbe apparso anche il nome di Alviarin. «Non riesco a immaginare quell’al’Meara che scappa fino a Ebou Dar sostenendo di essere un’Aes Sedai, ancor meno Elayne, non ti pare?»
«Hai ordinato che Elayne venisse trovata, Madre. Hai detto che era importante quanto mettere un guinzaglio attorno al collo di al’Thor. Quando si trovava fra trecento ribelli a Salidar era impossibile fare qualcosa, ma adesso non sarà certo così ben protetta nel palazzo di Tarasin.»
«Non ho tempo da sprecare con i pettegolezzi e le voci infondate.» Elaida aveva pronunciato ogni parola caricandola di disprezzo. Che Alviarin sapesse più di quanto doveva, visto che aveva parlato di al’Thor e di un guinzaglio? «Ti suggerisco di leggere di nuovo il rapporto di Tarna e poi di chiederti se persino le ribelli potrebbero mai permettere a un’Ammessa di portare lo scialle.»
Alviarin attese con pazienza che Elaida finisse di parlare, quindi esaminò di nuovo il fascicolo di carte che aveva in mano ed estrasse altri quattro fogli. «L’agente delle Grigie ha inviato dei disegni» ripose con calma porgendole le pagine. «Non è un artista, ma Elayne e Nynaeve sono riconoscibili.» Dopo un momento, vedendo che l’altra donna non prendeva quei ritratti, li ripose di nuovo fra le sue carte.
Elaida sentì che le si stavano infuocando le guance per la rabbia e l’imbarazzo. Alviarin l’aveva guidata volontariamente verso quell’argomento non consegnandole da subito i disegni. Ignorò il fatto — qualsiasi altra cosa sarebbe stata ulteriormente imbarazzante — ma la voce divenne fredda. «Voglio che vengano prese e portate da me.»
La mancanza di curiosità sul volto di Alviarin indusse Elaida a chiedersi di nuovo quanto ne sapesse l’altra donna di cose che in teoria non avrebbe dovuto conoscere. La giovane al’Meara poteva essere utile per controllare al’Thor, visto che provenivano dallo stesso villaggio. Lo sapevano tutte le Sorelle, come sapevano anche che Elayne era l’erede al trono di Andor e che sua madre era morta. Le voci vaghe che collegavano Morgase ai Manti Bianchi erano del tutto infondate, perché la regina non avrebbe mai chiesto aiuto ai Figli della Luce. Era morta, il corpo introvabile ed Elayne sarebbe stata regina, se Elaida fosse riuscita a strapparla dalle mani delle ribelli prima che le casate andorane mettessero Dyelin sul trono del Leone. Non tutti sapevano cosa rendesse Elayne più importante di qualsiasi altro nobile con un forte diritto di successione. A parte il fatto che un giorno sarebbe stata un’Aes Sedai, ovviamente.
Talvolta Elaida aveva delle premonizioni, un Talento che molte avevano considerato scomparso prima di riscoprirlo in lei, e aveva previsto, ormai da molto tempo, che la casata reale di Andor aveva in pugno la chiave per vincere l’ultima Battaglia. Erano ormai trascorsi più di venticinque anni da quando era diventato chiaro che Morgase Trakand avrebbe ottenuto il trono ed Elaida si era incollata a lei, che all’epoca era ancora una ragazza. Non aveva alcuna idea di come Elayne potesse essere cruciale, ma le predizioni non mentivano mai. A volte Elaida arrivava al punto di odiare il proprio Talento. Odiava gli eventi sui quali non aveva alcun controllo.
«Le voglio tutte e quattro, Alviarin.» Le altre due non erano importanti, ma non voleva correre alcun rischio. «Invia subito i miei ordini a Teslyn. Dille — e anche a Joline — che se d’ora in poi non manderanno dei resoconti regolari, si pentiranno di essere nate. Includi anche le informazioni di quella donna, Macura.» Nel pronunciare quest’ultimo nome, Elaida distorse le labbra.
Anche Alviarin si agitò, a disagio, e non c’era da meravigliarsi. L’orribile infuso di Ronde Macura era un pensiero sgradevole per qualsiasi Sorella. La radice della forca non era letale — ci si risvegliava, almeno se se ne era bevuta abbastanza da dormire — ma un tè che annientava l’abilità di incanalare in una donna sembrava destinato troppo apertamente alle Aes Sedai. Era un peccato che non avesse ricevuto quell’informazione prima che partisse Galina; se la radice della forca funzionava anche sugli uomini, avrebbe reso il suo incarico molto più facile.
Il disagio di Alviarin durò solo un momento; appena un istante e la donna recuperò subito l’autocontrollo, inflessibile come una parete di ghiaccio. «Come desideri, Madre. Sono sicura che obbediranno.»
Il volto di Elaida fu travolto da un improvviso lampo d’ira, come un fuoco su un pascolo arido. Aveva il destino del mondo fra le mani e degli impedimenti insignificanti continuavano a ostacolarle il cammino. Era già un problema dover gestire quelle ribelli e quei sovrani recalcitranti, ma ora fin troppe Adunanti complottavano e si lamentavano alle sue spalle, dando ad Alviarin un terreno fertile per affondare il proprio aratro. Solo sei donne erano fermamente sotto il controllo di Elaida, e lei sospettava che fossero almeno in sei quelle che prima di votare ascoltavano con estrema attenzione la Custode. Senza dubbio, nulla d’importante veniva approvato dal Consiglio a meno che Alviarin non fosse d’accordo. Non apertamente, non vi era alcuna prova che la donna avesse più influenza o potere di quanto spettava a una Custode, ma se Alviarin si opponeva... Almeno non erano ancora giunte al punto di respingere le proposte di Elaida. Le Adunanti si limitavano ad andare a rilento e, fin troppo spesso, lasciavano languire in un angolo le sue richieste. Un piccolo, pietoso compromesso di cui essere contenta. Alcune Amyrlin erano diventate poco più che marionette una volta che il Consiglio aveva preso gusto a respingere le loro proposte.
Elaida serrò i pugni, e dalla striscia di carta venne un debole crepitio.
È stato messo l’anello al naso del toro.
Alviarin aveva la compostezza di una statua di marmo, ma a Elaida non importava più. Il pastore era in marcia per raggiungerla. Le ribelli sarebbero state schiacciate, il Consiglio intimidito, Alviarin costretta a inginocchiarsi e ogni governante stizzoso ridotto alla ragione, da Tenobia della Saldea, che si nascondeva per evitare l’emissaria di Elaida, fino a Mattin Stepanoes di Illian, che stava cercando di schierarsi con tutte le parti simultaneamente, di raggiungere un accordo con lei, con i Manti Bianchi e, per quel che ne sapeva, anche con al’Thor. Elayne sarebbe stata messa sul trono a Caemlyn, senza intromissioni del fratello, e con la piena consapevolezza di chi l’aveva aiutata. Un breve periodo trascorso di nuovo nella Torre avrebbe trasformato quella ragazza in morbida argilla da modellare nelle mani di Elaida.
«Voglio che quegli uomini vengano eliminati, Alviarin.» Non c’era bisogno di specificare a chi si riferiva; metà della Torre non parlava d’altro se non di ‘quegli uomini’ e della loro Torre Nera, mentre l’altra metà ne discuteva furtivamente nascosta negli angoli.
«Ho ricevuto notizie inquietanti, Madre.» Alviarin controllò ancora una volta le sue carte, ma Elaida pensava fosse solo una scusa per avere qualcosa da fare. La Custode non tirò fuori altri fogli, e per quanto nulla potesse turbare a lungo quella donna, di sicuro l’empia accozzaglia nei dintorni di Caemlyn non la lasciava indifferente.
«Altre voci? Credi alle favole che parlano di migliaia di persone che si precipitano a Caemlyn in risposta a quell’amnistia oscena?» Di certo non era il minore dei danni causati da al’Thor, ma nemmeno costituiva una vera fonte di preoccupazione. Solo un cumulo di sporcizia che doveva essere eliminato con la massima cautela prima che Elayne venisse incoronata a Caemlyn.
«Ovviamente no, Madre, ma...»
«Toveine dev’essere a capo della spedizione; quest’incarico appartiene di diritto alle Rosse.» Toveine Gazal aveva abbandonato la Torre da quindici anni, e non vi aveva fatto più ritorno fino al giorno in cui Elaida l’aveva convocata di nuovo. Le altre due Sorelle Rosse che si erano ritirate in ‘esilio volontario’ durante lo stesso periodo adesso avevano sguardi carichi di nervosismo ma, a differenza di Lirene e Tsutama, Toveine si era indurita durante il proprio esilio. «Le devono essere assegnate cinquanta Sorelle.» Non potevano esserci più di due o tre uomini capaci di incanalare in quella Torre Nera, Elaida ne era certa. Cinquanta Sorelle avrebbero preso facilmente il sopravvento. Ma avrebbero potuto esserci anche altri soggetti con cui vedersela. Parassiti, seguaci esterni, fanatici pieni di futili speranze e ambizioni insane. «E dovrà portare con sé cento... no, duecento soldati.»
«Sei certa che sia saggio? Le dicerie su migliaia di uomini sono di sicuro una follia, ma un agente delle Verdi a Caemlyn sostiene che siano oltre quattrocento in quella Torre Nera. Un tipo furbo. Ha contato i carri delle provvigioni che escono dalla città. E di sicuro sei al corrente delle voci secondo le quali Mazrim Taim si trova con loro.»
Elaida si sforzò di rimanere inespressiva, riuscendoci a malapena. Aveva proibito di nominare Taim, e le bruciava non rendersi conto che non osava — non osava! — imporre la punizione ad Alviarin per averlo fatto. La donna la guardò dritto negli occhi; l’assenza dell’appellativo ‘Madre’, per quanto fittizio, stavolta fu evidente. E con quale coraggio le aveva chiesto se la sua era una decisone saggia! Lei era l’Amyrlin Seat! Non la prima fra eguali, ma l’Amyrlin Seat!
Elaida aprì la scatola laccata più grande, che conteneva miniature d’avorio disposte su del velluto grigio. Spesso il solo osservare la sua collezione la faceva calmare, ma ancor più, come il lavoro a maglia che amava molto, serviva a far capire a tutti quelli davanti a lei quale fosse il loro posto; se prestava maggior attenzione alle miniature che a quanto gli altri avessero da dire... Prima carezzò un gatto finemente lavorato, liscio e sinuoso, poi una donna vestita in maniera elaborata, con uno strano animaletto — un’invenzione dello scultore — simile a un uomo coperto di peli appollaiato su una spalla. Alla fine Elaida scelse un pesce ricurvo, così finemente intagliato da sembrare quasi vero, nonostante il colore ingiallito dell’avorio vecchio.
«Quattrocento canaglie, Alviarin.» Si sentiva già più calma, poiché le labbra di Alviarin erano tese. Solo per una frazione di secondo, ma Elaida assaporava ogni minima incrinatura nella facciata dell’altra donna. «Se ce ne sono così tanti. Solo una sciocca può credere che più di uno o due siano in grado di incanalare. Al massimo! In dieci anni ne abbiamo trovati solo sei con questa capacità. Ventiquattro negli ultimi vent’anni. E tu sai bene con quale attenzione abbiamo rastrellato ogni nazione. Per quanto riguarda Taim...» Il nome le bruciava la lingua; il solo falso Drago che fosse mai riuscito a evitare di essere domato una volta preso in custodia dalle Aes Sedai. Un evento che Elaida non voleva vedere negli Annali riguardanti il suo periodo da Amyrlin, di sicuro non prima che avesse deciso come avrebbe dovuto registrarlo. Al momento, gli Annali non riportavano altro che la cattura di quell’uomo.
Elaida fece scorrere il pollice lungo le squame del pesce. «È morto, Alviarin, altrimenti ne avremmo sentito parlare già da parecchio tempo. Quindi non è al servizio di al’Thor. Pensi che una persona simile possa essere passata dal dichiarare di essere il Drago Rinato a servirlo? Credi davvero che potrebbe trovarsi a Caemlyn, senza che Davram Bashere quanto meno provi a ucciderlo?» Il pollice si mosse più veloce sul pesce d’avorio mentre Elaida si ripeteva che il maresciallo generale della Saldea si trovava a Caemlyn agli ordini di al’Thor. A cosa mirava Tenobia?
Elaida tenne per sé quelle riflessioni, però restando calma in viso, come una delle sue miniature.
«Ventiquattro è un numero pericoloso da dire ad alta voce» osservò Alviarin con una sinistra serenità. «Pericoloso quanto duemila. Gli Annali ne riportano solamente sedici. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento è che quegli anni tornino a imperversare. O che le Sorelle al corrente solo di ciò che era stato detto loro scoprano la verità. Anche quelle che hai fatto tornare mantengono il silenzio.»
Elaida assunse un’espressione pensierosa. Per quanto ne sapeva lei, Alviarin aveva scoperto la verità su quegli anni solo dopo essere stata eletta Custode, mentre la sua conoscenza personale era di tipo più approfondito. Ovviamente Alviarin non poteva esserne al corrente. Non con certezza. «Figlia, qualsiasi cosa ne dovesse scaturire, non ho timori. Chi potrebbe impormi una punizione e con quale accusa?» Con questa frase era riuscita a girare intorno alla verità con una discreta grazia, ma era evidente che non aveva sortito alcun effetto sull’altra donna.
«Gli Annali elencano un diverso numero di Amyrlin che hanno subito pene pubbliche per motivi di solito poco chiari, ma io ho sempre pensato che apparissero tali perché così desiderava l’Amyrlin in questione, una volta trovatasi senza altra scelta se non far registrare la propria condanna...»
Elaida colpì forte il tavolo con una mano. «Basta, Figlia! Io ‘sono’ la legge della Torre! Ciò che è stato omesso rimarrà nascosto, per la stessa ottima ragione degli ultimi vent’anni: il bene della Torre Bianca.» Solo a quel punto sentì che il palmo cominciava a farle male. Sollevò la mano e vide il pesce spezzato in due. Quant’era vecchio? Cinquecento anni? Mille? Riuscì appena a non tremare dalla rabbia. Ma parlò con voce senza dubbio più dura. «Toveine deve condurre cinquanta Sorelle e duecento soldati della Torre fino a Caemlyn, a questa Torre Nera, dove domeranno e impiccheranno tutti gli uomini capaci di incanalare che troveranno, assieme a tutti quelli che riusciranno a prendere vivi.» Alviarin non batté ciglio a quella violazione delle leggi della Torre. Elaida aveva detto la verità, o almeno quella che lei voleva fosse la verità: in fondo in merito a quella faccenda, come per tutto il resto, lei ‘era’ la legge della Torre. «Anzi, ti dirò di più. Farà impiccare anche i morti. Che siano di monito per ogni uomo che pensa anche solo di toccare la Vera Fonte. Fai venire Toveine da me. Voglio sentire il suo piano.»
«Ai tuoi ordini, Madre.» La risposta della donna fu calcolata e distaccata come la sua espressione. «Ma, se mi permetti di darti un suggerimento, forse dovresti riconsiderare l’idea di far allontanare così tante Sorelle dalla Torre. È evidente che le ribelli non hanno trovato allettante la tua proposta. Non si trovano più a Salidar. Sono in marcia. Questi rapporti provenivano dall’Altara, ma ormai credo che le ribelli si trovino già nel Murandy. Si sono anche scelte un’Amyrlin.» Alviarin studiò il foglio in cima al fascicolo di carte che aveva tra le mani come per cercare il nome della donna. «Pare si tratti di Egwene al’Vere.»
Il fatto che Alviarin aveva tralasciato così a lungo proprio la notizia più importante di tutte avrebbe dovuto far esplodere di rabbia Elaida, che invece reclinò il capo e si mise a ridere. Solo una presa ferrea sulla propria dignità le permise di non battere anche i piedi in terra. La sorpresa sul volto di Alviarin la fece ridere ancora di più, fino alle lacrime.
«Tu non capisci» rispose quando riuscì a parlare tra uno scoppio di ilarità e un altro. «È un bene che tu sia la Custode e non un’Adunante. Nel Consiglio, cieca come sei, nell’arco di un mese le altre ti terrebbero chiusa in un armadio per usarti solo al momento del bisogno, per un voto.»
«Capisco abbastanza, Madre.» Il tono di Alviarin non era arrabbiato; al contrario, avrebbe potuto ricoprire le pareti con uno strato di ghiaccio. «Capisco che sono trecento Aes Sedai ribelli, forse anche più, con un esercito guidato da Gareth Bryne, un noto capitano e condottiero. Se anche non si tiene conto dei rapporti meno affidabili, quell’esercito dovrebbe contare circa ventimila elementi e, con Bryne a guidarli, troveranno nuovi uomini in ogni villaggio e città che attraverseranno. Non dico che abbiano alcuna speranza di conquistare la città di Tar Valon, ma di sicuro non è una questione da prendere sotto gamba. Bisognerebbe ordinare al gran capitano Chubain di reclutare altri soldati per la Torre.»
Elaida rivolse uno sguardo amareggiato sulla miniatura del pesce ormai rotta, quindi si alzò e si diresse alla finestra più vicina volgendo le spalle ad Alviarin. Il palazzo in costruzione le tolse l’amaro di bocca, quello e la striscia di carta che ancora teneva stretta in pugno.
Sorrise guardando la sua futura residenza. «Trecento ribelli, vero, ma dovresti rileggere il rapporto di Tarna. Almeno un centinaio sono già sul punto di crollare.» Si fidava abbastanza di Tarna, una Rossa che non concedeva alcuno spazio alle sciocchezze, e aveva riferito che le ribelli erano già pronte a spaventarsi anche delle ombre. Le aveva definite pecore disperate alla ricerca di un pastore. Certo, Tarna era una selvatica, ma abbastanza sensata. Presto avrebbe fatto ritorno e sarebbe stata in grado di offrirle un resoconto dettagliato. Non che ce ne fosse bisogno. I piani di Elaida avevano già iniziato a funzionare fra le ribelli, ma questo era uri suo segreto.
«Tarna è sempre stata sicura di poter indurre le persone a fare ciò che palesemente non vogliono fare.» Alviarin aveva messo una certa enfasi su quella frase. Che fosse significativo? Elaida decise di ignorarla. Doveva ancora tollerare troppo da quella Custode, ma presto sarebbe giunto il giorno del sollievo. Presto.
«Per quanto riguarda l’esercito, figlia, Tarna ha riferito che si tratta al massimo di due o tremila uomini. Se ne avessero avuti di più a disposizione, si sarebbero accertate che li vedesse tutti in modo che la notizia potesse intimorirci.» Secondo Elaida, gli informatori esageravano sempre, per rendere le loro notizie più importanti. Ci si poteva fidare solo delle Sorelle. Delle Rosse, almeno. Alcune di loro. «Comunque non m’importerebbe nemmeno se ne avessero ventimila, cinquantamila o centomila. Riesci a immaginare perché?» Quando Elaida si girò, il volto di Alviarin era sereno e composto, una maschera che copriva la sua assoluta ignoranza. «Sembri essere pratica di tutte le leggi della Torre. Qual è la punizione che dovranno affrontare le ribelli?»
«Quelle a capo del gruppo» rispose lentamente Alviarin «verranno quietate.» Aggrottò leggermente le sopracciglia e la gonna si mosse appena mentre cambiava posizione. Bene. Anche le Ammesse lo sapevano e Alviarin non capiva perché mai Elaida le avesse rivolto una simile domanda. Molto bene. «E anche parecchie delle altre.»
«Forse.» Le donne al comando forse si sarebbero salvate, la maggior parte, se si fossero sottomesse nel modo giusto. La punizione minima secondo la legge era la fustigazione nella Grande Sala davanti a tutte le Sorelle, seguita poi da almeno un anno e un giorno di penitenza pubblica. Ma non era scritto da nessuna parte che la pena dovesse essere scontata consecutivamente: avrebbe assegnato loro un mese di castighi di tanto in tanto, in modo da costringerle a fare ammenda per i loro crimini per almeno dieci anni. Un promemoria costante di ciò che accadeva a chi le opponeva resistenza. Alcune ovviamente sarebbero state quietate — Sheriam e qualcuna di quelle cosiddette Adunanti più in vista — ma solo in numero sufficiente a far temere alle altre di mettere di nuovo un piede in fallo, non abbastanza da indebolire la Torre. La Torre Bianca doveva essere integra e doveva anche essere forte. Forte e fermamente in suo pugno.
«Un solo crimine fra quelli che hanno commesso esige la quietatura.» Alviarin aprì la bocca. C’erano già state ribellioni in passato, seppellite così profondamente che solo poche Sorelle ne erano al corrente; gli Annali non ne facevano menzione, gli elenchi delle donne quietate e giustiziate confinati in documenti accessibili solo all’Amyrlin, alla Custode e alle Adunanti, oltre alle poche bibliotecarie che ne erano a conoscenza per via del proprio incarico. Elaida non concesse ad Alviarin nessuna opportunità di parlare. «Qualsiasi donna che rivendichi falsamente il titolo di Amyrlin Seat dev’essere quietata. Se avessero creduto di avere una qualsiasi possibilità di successo, la loro Amyrlin sarebbe stata Sheriam, Lelaine, Carlinya o una delle altre.» Tarna aveva riferito che Romanda Cassin era tornata dal proprio ritiro; Romanda avrebbe di sicuro afferrato la stola con entrambe le mani se solo avesse visto un decimo di possibilità di vittoria. «Invece hanno scelto un’Ammessa.»
Elaida scosse il capo, divertita. Era in grado di enunciare tutti i passi della legge che determinava i criteri di scelta per la posizione di Amyrlin — dopo tutto ne aveva fatto un buon uso lei stessa — e sapeva che mai, in nessun punto, veniva detto che la donna dovesse essere una Sorella a tutti gli effetti. Era ovvio che lo fosse, per cui coloro che avevano scritto la legge non l’avevano mai specificato, e le ribelli ne avevano approfittato. «Sanno che la loro causa è senza speranza, Alviarin. Di sicuro hanno in mente di venire qui piene di sussiego e spavalderia nel tentativo di crearsi qualche forma di protezione contro le punizioni, poi sacrificheranno la ragazza consegnandola a me.» E questo era un peccato. La giovane al’Vere era un altro possibile appiglio con al’Thor e, quando avesse sviluppato in pieno il proprio potenziale nell’Unico Potere, sarebbe stata una delle Aes Sedai più forti degli ultimi mille anni e più. Un vero peccato.
«Farsi accompagnare da Gareth Bryne e un esercito non mi sembra un modo di agire sussiegoso. Impiegheranno da cinque a sei mesi per raggiungere Tar Valon. Durante questo periodo il gran capitano Chubain potrà veder crescere il numero dei suoi soldati...»
«Il loro ‘esercito’» la schernì Elaida. Alviarin era una tale sciocca. Anche se esteriormente fredda, in fondo era un coniglio. Adesso avrebbe anche tirato fuori tutte le idiozie di quella Sanche sui Reietti di nuovo liberi. Ovviamente lei non era al corrente del segreto, eppure...
«Contadini con le picche in mano, macellai con gli archi e sarti a cavallo! Che a ogni passo pensano alle Mura Lucenti, che hanno trattenuto Artur Hawkwing.» No, non un coniglio. Una donnola. Ma prima o poi sarebbe diventata un colletto di pelliccia per il mantello di Elaida. Prima, con l’aiuto della Luce. «Che a ogni passo perderanno un uomo, se non dieci. Non rimarrei sorpresa se le nostre ribelli si presentassero qui solo con i loro Custodi.» Troppe persone erano al corrente della divisione all’interno della Torre. Senza dubbio, una volta sedata la ribellione avrebbero potuto farla apparire un complotto, forse una mossa per acquisire il controllo sul giovane al’Thor. Uno sforzo lungo anni e anni, e sarebbero passate generazioni prima che ne svanisse il ricordo. Per questo, ogni ribelle avrebbe pagato, in ginocchio.
Elaida strinse il pungo come se la mano fosse serrata attorno alla gola di tutte le ribelli. O di Alviarin. «Ho intenzione di spezzarle, figlia. Si spaccheranno come meloni marci.» Il suo segreto lo rendeva una certezza, indipendentemente da quanti contadini e sarti avesse rastrellato lord Bryne, ma lasciò che l’altra donna pensasse pure ciò che voleva. A un tratto fu travolta da una premonizione, e seppe con certezza l’esito di eventi che non poteva ancora conoscere, ma che erano chiari come se si stessero svolgendo davanti a lei. Era disposta a camminare bendata sull’orlo di un burrone, sostenuta da quella certezza. «La Torre Bianca sarà di nuovo integra, a parte le poche cacciate via e schernite, integra e più forte che mai. Rand al’Thor affronterà l’Amyrlin Seat e conoscerà la sua ira. La Torre Nera sarà dilaniata da sangue e fiamme, e le Sorelle cammineranno sul suo suolo. Questo io prevedo.»
Come sempre, la predizione l’aveva lasciata tremante e senza fiato. Elaida si costrinse a rimanere dritta, immobile, e a respirare con lentezza; non permetteva mai a nessuno di vedere la sua debolezza. Ma Alviarin... Aveva gli occhi sgranati e le labbra aperte come se avesse dimenticato le parole che stava per pronunciare. Un foglio scivolò dal mucchio che aveva fra le mani, cadendo quasi a terra prima che lei riuscisse a riprenderlo. Questo le fece recuperare il controllo. In un attimo assunse di nuovo la sua maschera di serenità, l’immagine perfetta della calma Aes Sedai, ma di sicuro era stata scossa dalla testa ai piedi. Oh, molto bene. Che rimuginasse pure sulla certezza della vittoria di Elaida. E che le venisse mal di testa.
Elaida trasse un profondo respiro e si mise a sedere dietro la scrivania, sistemando da un lato il pesce d’avorio rotto in modo da non doverlo guardare. Era giunto il momento di sfruttare la propria vittoria. «C’è del lavoro da fare oggi, figlia. Il primo messaggio dev’essere inviato a lady Caraline Damodred...»
Elaida espose i suoi piani, dilungandosi su ciò che Alviarin già sapeva e rivelando alcune cose di cui non era al corrente, perché in fondo l’Amyrlin doveva operare tramite la Custode, per quanto la odiasse. Provò comunque piacere nell’osservare gli occhi di Alviarin, fissando la donna che si chiedeva di cos’altro non fosse al corrente. Ma, anche mentre ordinava, divideva e assegnava le terre fra l’oceano Aryth e la Dorsale del Mondo, Elaida aveva in testa l’immagine del giovane al’Thor che arrivava da lei chiuso in gabbia come un orso, per essere addestrato a ballare per guadagnarsi il pasto.
Gli Annali non potevano riportare il periodo dell’Ultima Battaglia senza citare il Drago Rinato, ma Elaida sapeva che un nome sarebbe stato scritto più grande di tutti gli altri. Elaida do Avriny a’Roihan, la figlia più giovane di una casata minore del nord del Murandy sarebbe entrata nella storia come la più grandiosa e la più potente Amyrlin Seat di tutti i tempi. La donna più potente nella storia del mondo. La donna che aveva salvato l’umanità.
Gli Aiel in piedi in un avvallamento profondo fra le basse colline coperte d’erba marrone parevano immagini scolpite e ignoravano le nuvole di polvere sollevate dal forte vento. In questo periodo dell’anno la neve avrebbe dovuto essere alta, ma ciò non sembrava disturbarli; nessuno di loro l’aveva mai vista, e il caldo torrido, anche con il sole che non aveva ancora raggiunto il proprio picco, era meno forte di quello delle loro terre d’origine. La loro attenzione rimaneva focalizzata sul pendio a sud, in attesa del segnale che avrebbe annunciato l’arrivo del destino degli Aiel Shaido.
Sevanna esteriormente appariva come le altre, anche se era circondata da un anello di Fanciulle accovacciate a loro agio, con i veli scuri che già nascondevano i loro volti fino agli occhi. Anche lei attendeva, con maggior impazienza di quella che lasciava trapelare, ma non aveva escluso tutto il resto. Era il primo dei motivi per cui lei comandava e gli altri eseguivano. Il secondo era che aveva visto cosa poteva accadere a chi si lasciava legare le mani da usanze sorpassate e tradizioni stantie.
Con un guizzo degli occhi verdi vide alla sua sinistra dodici uomini e una donna, tutti armati di scudo rotondo in pelle di toro e tre o quattro lance corte, e vestiti con i cadin’sor grigi e marroni che si mimetizzavano altrettanto bene lì, quanto nella Terra delle Tre Piegature. Efalin, con i corti capelli quasi grigi nascosti dallo shoufa avvolto attorno al capo, talvolta lanciava delle occhiate a Sevanna; se mai una Fanciulla della Lancia era stata a disagio, questa era proprio Efalin. Alcune Fanciulle Shaido si erano dirette a sud unendosi agli sciocchi che saltellavano intorno a Rand al’Thor e Sevanna non aveva dubbi che anche altre stessero prendendo in considerazione la stessa idea. Con ogni probabilità Efalin si stava chiedendo se per bilanciare quella situazione poteva essere utile la scorta di fanciulle che aveva procurato a Sevanna, come se una volta anche questa fosse stata una Far Dareis Mai. Efalin almeno non aveva dubbi su chi deteneva il potere.
Anche gli uomini che guidavano le società guerriere Shaido si lanciavano sguardi sporadici mentre tenevano d’occhio la collina. Specialmente il massiccio Maeric, un Seia Doon, e Bendhuin dal volto sfregiato, un Far Aldazar Din. Dopo gli eventi di quel giorno, nulla avrebbe trattenuto gli Shaido dall’inviare un uomo nel Rhuidean, per essere marchiato come capoclan. Fino ad allora, Sevanna avrebbe parlato in veste di capo, visto che era la vedova dell’ultimo capoclan. Degli ultimi due. E quelli che la accusavano di portare sfortuna potevano anche strozzarsi.
I suoi braccialetti d’oro e d’avorio tintinnarono leggermente quando Sevanna si sistemò lo scialle sulle braccia e aggiustò le collane. Anche queste erano quasi tutte d’oro e avorio, ma una era fatta di perle e rubini, dei quali uno era grande come un uovo di piccione e le scendeva fra i seni, e un tempo era appartenuta a una nobile delle terre bagnate — la donna adesso indossava il bianco e serviva insieme agli altri gai’shain, sulla montagna chiamata il Pugnale del Kinslayer. Le terre bagnate riservavano dei ricchi bottini. Il grande smeraldo che portava al dito colse la luce risplendendo come fuoco verde; gli anelli erano un’usanza degli abitanti delle terre bagnate che valeva la pena di adottare, non le importava quante occhiate avesse attirato. Ne avrebbe indossati altri, se avessero eguagliato in bellezza quello che aveva ora.
Quasi tutti gli uomini pensavano che Maeric o Bendhuin sarebbero stati i primi a ricevere il permesso delle Sapienti per tentare l’avventura del Rhuidean. In quel gruppo Efalin era l’unica a sospettare che nessuno dei due l’avrebbe ottenuto, e il suo era solo un sospetto; era anche abbastanza furba da dar voce ai suoi pensieri solo con Sevanna e nessun altra. Le loro menti non potevano comprendere la possibilità di liberarsi dal passato e, in verità, per quanto Sevanna fosse impaziente di abbracciare il futuro, era anche consapevole del fatto che avrebbe dovuto condurli a esso con lentezza. Molte delle vecchie usanze erano già cambiate da quando gli Shaido avevano oltrepassato il Muro del Drago per entrare nelle terre bagnate — comunque bagnate, a confronto con la Terra delle Tre Piegature — ma ci sarebbero stati ancora molti altri cambiamenti. Una volta che Rand al’Thor fosse stato fra le sue mani, una volta che lei avesse sposato il Car’a’carn, il capo dei capi di tutti gli Aiel — quest’idiozia del Drago Rinato era una follia degli abitanti delle terre bagnate — ci sarebbe stato un nuovo metodo per eleggere i capoclan e i caposetta. Forse anche i capi delle varie società guerriere. Li avrebbe nominati Rand al’Thor. Seguendo ovviamente le sue indicazioni. Quello sarebbe stato solo l’inizio. Poi, per esempio, avrebbero potuto accogliere l’usanza di passare il rango ai discendenti diretti come facevano nelle terre bagnate.
Il vento soffiò più forte per un momento, spirando verso sud. Avrebbe coperto il rumore dei cavalli e dei carri degli abitanti delle terre bagnate.
Sevanna si sistemò di nuovo lo scialle, quindi represse una smorfia. Non doveva apparire nervosa. Un’occhiata verso destra stroncò la sua preoccupazione sul nascere. In quel punto erano raccolte più di duecento Sapienti Shaido, e di solito almeno alcune l’avrebbero guardata con l’avidità di un avvoltoio, ma i loro occhi erano tutti puntati sulla collina. Più di una si aggiustava lo scialle a disagio o lisciava la gonna ingombrante. Sevanna abbozzò un sorriso. Alcuni di quei volti erano imperlati di sudore. Sudore! Dov’era andato a finire l’onore se mostravano nervosismo a ogni sguardo?
Si irrigidirono tutti leggermente quando un giovane Sovin Nai apparve sopra le loro teste, abbassando il velo mentre discendeva la collina. Andò dritto da lei, com’era giusto, ma la irritò parlando a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti. «Uno dei loro esploratori è fuggito. Era ferito, ma è rimasto a cavallo.»
I capi delle società incominciarono a muoversi prima ancora che il messaggero avesse finito di parlare. Non poteva permetterlo. Avrebbero avuto il comando nei combattimenti — in tutta la sua vita Sevanna aveva solo tenuto in mano una lancia e niente più — ma non avrebbe permesso a quegli uomini di dimenticare, anche solo per un momento, chi fosse lei e quale fosse la sua posizione. «Mandategli contro tutte le lance, fino all’ultima,» ordinò Sevanna ad alta voce «prima che abbiano tempo di prepararsi.» Si voltarono tutti insieme verso di lei.
«Tutte le lance?» domandò incredulo Bendhuin. «Intendi dire a parte le difese...»
Maeric, torvo, parlò subito a ridosso di Bendhuin: «Se non teniamo con noi alcuna riserva potremmo essere...»
Sevanna li interruppe entrambi. «Tutte le lance! Stiamo danzando contro le Aes Sedai. Dobbiamo sopraffarle immediatamente!» Efalin e molti altri si costrinsero a rimanere inespressivi, ma Bendhuin e Maeric aggrottarono le sopracciglia, pronti a discutere. Sciocchi. Dovevano affrontare alcune dozzine di Aes Sedai, qualche centinaio di soldati delle terre bagnate, eppure con più di quarantamila algai’d’siswai che avevano insistito nel portarsi appresso ancora volevano le difese, gli esploratori e le lance di riserva, come se avessero dovuto affrontare altri Aiel o un’armata delle terre bagnate. «Parlo come capoclan degli Shaido.» Non era necessario ribadirlo, ma di sicuro non faceva male. «Sono solo una manciata.» Adesso Sevanna pronunciava ogni parola con disprezzo. «Possono essere sopraffati se le lance si muovono velocemente. Stamattina all’alba eravate pronti a vendicare Desaine. Sento forse odor di paura adesso? Paura di alcuni abitanti delle terre bagnate? L’onore ha forse abbandonato gli Shaido?»
Queste parole trasformarono i loro volti in pietra, proprio come voleva lei. Persino Efalin aveva gli occhi che brillavano come gemme grigie lucidate mentre si velava il viso. Le dita della donna scattarono nel linguaggio a gesti delle Far Dareis Mai, e quando i capisocietà corsero su per il pendio, le Fanciulle che circondavano Sevanna li seguirono. Non era ciò che lei voleva, ma almeno le lance adesso erano in movimento. Anche dal fondo della valle era in grado di vedere quello che prima era sembrato un terreno spoglio trasformarsi in una moltitudine di figure vestite di cadin’sor che si dirigevano verso sud più veloci di un cavallo. Non c’era tempo da perdere. Dopo aver deciso che più tardi avrebbe dovuto scambiare qualche parola con Efalin, Sevanna si voltò verso le Sapienti.
Scelte fra le più forti delle Sapienti Shaido che potevano maneggiare il Potere, ce n’erano sei o sette per ogni Aes Sedai attorno a Rand al’Thor, eppure Sevanna le vedeva ancora titubanti. Le donne cercavano di nascondere i propri dubbi dietro espressioni dure, eppure erano lì, negli sguardi sfuggenti, nelle lingue che inumidivano le labbra. Quel giorno stavano crollando molte tradizioni, antiche e forti come le leggi. Le Sapienti non prendevano parte alle battaglie. Le Sapienti si tenevano alla larga dalle Aes Sedai. Conoscevano le vecchie leggende, secondo le quali gli Aiel erano stati mandati nella Terra delle Tre Piegature per aver fallito con le Aes Sedai e che sarebbero stati distrutti se l’avessero fatto di nuovo. Avevano sentito delle storie, quelle che Rand al’Thor aveva raccontato prima di ogni altra cosa, nelle quali si diceva che come parte dei loro servigi per le Aes Sedai, gli Aiel avevano giurato di non commettere alcuna violenza.
Sulle prime Sevanna era stata certa che queste storie fossero menzogne, ma di recente aveva iniziato a credere che le Sapienti sapessero che erano vere. Ovviamente nessuna glielo aveva confermato, ma non importava. Lei non aveva mai fatto i due viaggi nel Rhuidean richiesti per diventare Sapiente, ma le altre l’avevano accettata, anche se alcune erano state molto riluttanti. Adesso non avevano altra scelta se non continuare ad accettarla. Le tradizioni inutili sarebbero state sostituite dalle nuove.
«Aes Sedai» disse sottovoce. Le Sapienti si sporsero verso di lei con un tintinnio di braccialetti e collane, attente a cogliere le sue parole bisbigliate. «Loro hanno Rand al’Thor, il Car’a’carn. Dobbiamo prenderlo.» La conseguenza fu una serie di sguardi accigliati. La maggior parte di loro credeva che Sevanna volesse il Car’a’carn vivo per avere modo di vendicare la morte di Couladin, il suo secondo marito. Potevano capirlo, ma non sarebbero andate fin lì solo per questo. «Le Aes Sedai» sibilò lei furiosa. «Noi abbiamo rispettato la nostra promessa, ma quelle donne hanno infranto le loro. Noi non abbiamo violato nulla, loro tutto. Sapete com’è stata uccisa Desaine.» Ovviamente lo sapevano. Gli occhi che osservavano Sevanna divennero d’improvviso più intensi. Uccidere una Sapiente era un atto di estrema gravità; come uccidere una donna incinta, un bambino o un fabbro. Alcuni di quegli occhi erano ‘molto’ più intensi. Quelli di Therava, di Rhiale e di altre. «Se permettiamo a queste donne di farla franca, allora possiamo considerarci meno che animali, non avremo alcun onore. Io difendo il mio onore.»
Detto questo Sevanna sollevò la gonna con gran dignità e risalì il pendio a testa alta, senza guardare indietro. Era certa che le altre l’avrebbero seguita. Therava, Norlea e Dailin se ne sarebbero accertate, insieme a Rhiale, Tion, Meira e le altre che l’avevano accompagnata alcuni giorni addietro a vedere Rand al’Thor picchiato dalle Aes Sedai e chiuso in una cassa di legno. Il suo discorso era rivolto a queste tredici ancor più che alle altre, e di certo loro non avrebbero osato deluderla. La verità sulla morte di Desaine le legava a lei.
Le Sapienti, con le gonne raccolte tra le braccia per tenere libere le gambe, non potevano mantenere il passo degli algai’d’siswai in cadin’sor, per quanto corressero veloci. Dopo otto chilometri e mezzo lungo quelle basse colline, una distanza non eccessiva, giunte in cima a un declivio videro che la danza delle lance era già iniziata. In un certo senso.
Migliaia di algai’d’siswai creavano una pozza enorme di figure grigio-marroni velate intorno al circolo di carri degli abitanti delle terre bagnate, che a sua volta circondava uno dei piccoli gruppi di alberi disseminati in quella regione. Sevanna sbuffò furiosa. Le Aes Sedai avevano avuto persino il tempo di portare tutti i cavalli dentro la cerchia difensiva. Le lance avevano circondato i carri e facevano pressione su di loro, li stavano bersagliando con una grandinata di frecce, ma quelli in prima linea sembravano schiacciati contro un muro invisibile. All’inizio le frecce che erano salite alte in cielo avevano superato quel muro, ma poi anch’esse incominciarono a rimbalzare contro una barriera invisibile. Fra le Sapienti si levò un mormorio.
«Riuscite a vedere cosa stanno facendo le Aes Sedai?» chiese Sevanna, come se anche lei potesse vedere l’Unico Potere usato da quelle donne. Le venne da ridere: le Aes Sedai erano delle sciocche, con i loro tanto osannati Tre Giuramenti. Una volta che avessero finalmente deciso di usare l’Unico Potere come arma invece che come barriera, sarebbe stato troppo tardi. Sempre che le sue Sapienti non fossero rimaste imbambolate a guardare troppo a lungo. Da qualche parte in uno di quei carri c’era Rand al’Thor, forse ancora piegato in due dentro una cassa come un rotolo di seta. In attesa che lei lo prendesse. Se le Aes Sedai erano state in grado di controllarlo, sarebbe riuscita anche lei con l’aiuto delle Sapienti. È una promessa. «Therava, conduci la tua metà a occidente. Sii pronta ad attaccare quando lo faccio io. Per Desaine e il toh che ci devono le Aes Sedai. Le costringeremo a rispettare il toh come non ha mai fatto nessuno prima d’ora.»
Voler costringere qualcuno ad assolvere un obbligo che non aveva preso era una sciocca vanteria, eppure fra i mormorii rabbiosi delle altre donne Sevanna sentì altre promesse furiose su come avrebbero costretto le Aes Sedai ad assolvere il loro toh. Solo quelle che avevano ucciso Desaine su ordine di Sevanna rimasero in silenzio. Therava tese leggermente le labbra, ma alla fine disse: «Faremo come ordini, Sevanna.»
Mantenendo un’agile andatura, Sevanna guidò la sua metà delle Sapienti a est della battaglia, se quello scontro si poteva definire tale. Avrebbe preferito rimanere su una collina dalla quale potesse avere una buona visuale — era il modo in cui i capiclan o i condottieri in battaglia dirigevano la danza delle lance — ma in questo non aveva trovato alcun supporto, nemmeno da Therava e le altre con le quali condivideva il segreto della morte di Desaine. Le Sapienti crearono un netto contrasto con gli algai’d’siswai quando Sevanna le fece schierare con indosso le loro bluse di algode bianco e le gonne e gli scialli di lana scura, i braccialetti e le collane che luccicavano e i capelli lunghi fino alla vita tenuti indietro da una fascia ripiegata, anche questa scura. Benché avessero deciso che se dovevano prendere parte alla danza delle lance l’avrebbero fatto da vicino, non su un pendio distante, Sevanna non credeva che le Sapienti avessero capito che la vera battaglia l’avrebbero combattuta loro. Dopo quella giornata nulla sarebbe stato come prima, e mettere la cavezza a Rand al’Thor era la parte minore di questo grande evento.
Fra gli algai’d’siswai che fissavano i carri, solo l’altezza indicava la differenza fra uomini e Fanciulle. Veli e shoufa nascondevano teste e volti e i cadin’sor erano cadin’sor, a parte i diversi tagli che differenziavano i clan, le sette e le società. Quelli al margine esterno del gruppo di accerchiamento parevano confusi e borbottavano tra di loro mentre aspettavano che accadesse qualcosa. Si erano preparati a danzare contro i fulmini delle Aes Sedai e adesso si agitavano impazienti, troppo lontani anche per usare gli archi di corno, ancora riposti nelle custodie dietro le spalle. Ma non avrebbero dovuto aspettare ancora a lungo se le cose fossero andate come voleva Sevanna.
Con le mani piantate sui fianchi, si rivolse alle Sapienti: «Quelle a sud rispetto a me distruggeranno ciò che stanno facendo le Aes Sedai. Quelle a nord attaccheranno. Forza, lance!» Una volta impartito l’ordine, Sevanna si girò a guardare la sconfitta delle Aes Sedai che pensavano di dover affrontare solo l’acciaio.
Non accadde nulla. La massa di algai’d’siswai davanti a lei ribolliva inutilmente, e il rumore più forte era quello delle lance battute di tanto in tanto sugli scudi. Sevanna raccolse tutta la propria rabbia, come se stesse avvolgendo il filo di un arcolaio. Era così sicura che fossero pronte dopo che il corpo martoriato di Desaine era stato offerto alla loro attenzione, ma se ritenevano ancora che attaccare delle Aes Sedai fosse impensabile, avrebbe insistito nel convincerle a farlo, anche se avesse dovuto svergognarle fino a quando le avessero chiesto di indossare il bianco dei gai’shain.
A un tratto un globo di fuoco grande quanto la testa di un uomo ricadde verso i carri sfrigolando e sibilando, poi un altro, poi furono dozzine. Il nodo che Sevanna aveva allo stomaco si allentò. Altre sfere fiammeggianti arrivarono da occidente, dal gruppo di Therava. Dai carri incendiati incominciò a salire il fumo, prima in, pennacchi grigi, quindi in colonne nere che si facevano sempre più spesse; i mormorii degli algai’d’siswai cambiarono di tonalità, e anche se quelli direttamente davanti a lei si mossero appena vi fu un’improvvisa sensazione di pressione in avanti. Dai carri si levarono delle grida di rabbia; uomini che urlavano e gemevano di dolore. Qualsiasi fosse la barriera che avevano elevato le Aes Sedai, adesso era stata abbattuta. La danza era iniziata e poteva esserci una sola fine. Rand al’Thor sarebbe stato suo, le avrebbe consegnato gli Aiel, avrebbero conquistato tutte le terre bagnate e, prima di morire, le avrebbe dato figlie e figli affinché guidassero gli Aiel dopo di lei. Poteva anche piacerle: era un bell’uomo, forte e giovane.
Sevanna non si aspettava che le Aes Sedai sarebbero state sconfitte facilmente e infatti non fu così. Fra le lance piovvero dei globi di fuoco, trasformando in torce quelle figure anonime in cadin’sor, e i fulmini scesero dal cielo terso, scagliando in aria gli uomini e la terra. Le Sapienti imparavano da ciò che vedevano, o forse già sapevano e avevano esitato in precedenza; molte incanalavano così di rado, soprattutto se qualcuno oltre le Sapienti poteva vederle, che solo loro sapevano ciò che ogni donna era o non era in grado di fare. Qualsiasi fosse il motivo, non appena i fulmini cominciarono a cadere fra le lance Shaido, altri colpirono i carri.
Non tutti gli attacchi raggiungevano il bersaglio. Le palle di fuoco sfrecciavano a vuoto nell’aria, alcune adesso grandi come cavalli, i lampi d’argento si conficcavano nel terreno come lance scagliate dai cieli, talvolta guizzando all’improvviso da un lato, come se avessero colpito una barriera invisibile, oppure esplodevano con violenza a mezz’aria, o si limitavano a svanire. L’aria risuonava di boati e schianti, di grida e urla. Sevanna fissava il cielo deliziata. Era come gli spettacoli degli Illuminatori dei quali aveva letto.
A un tratto il mondo divenne un unico bagliore bianco e le sembrò di fluttuare. Quando poté vedere di nuovo, si ritrovò distesa al suolo a una dozzina di passi da dove era prima, coperta da zolle di terra, con tutti i muscoli doloranti e senza fiato. Sentiva come se i capelli volessero staccarsi dalla sua testa.
Anche altre Sapienti erano finite a terra come lei, attorno a una fossa irregolare larga una spanna. Dai vestiti di alcune delle donne si levavano sottili fili di fumo. Non tutte erano cadute — la battaglia di fuoco e fulmini continuava a svolgersi in cielo — ma erano comunque troppe quelle atterrate. Doveva lanciarle di nuovo nella danza.
Sevanna si costrinse a respirare, quindi si alzò barcollante, senza prendersi la briga di scrollarsi di dosso la terra. «Forza, lance!» gridò. Afferrò Estalaine per le spalle scarne e iniziò a sollevarla in piedi, poi dagli occhi azzurri ormai vitrei della donna si accorse che era morta e la lasciò ricadere al suolo. Allora rimise in piedi una stordita Dorailla, quindi afferrò una lancia caduta di mano a un Camminatore del Tuono ferito e l’agitò tenendola in alto. «Avanti le lance!» Alcune Sapienti dovettero prenderla alla lettera, perché si lanciarono nella massa di algai’d’siswai. Altre invece mantennero un maggior controllo, aiutando quelle che potevano alzarsi, e la tempesta di fuoco e fulmini continuò, mentre Sevanna camminava nervosamente avanti e indietro lungo la linea delle Sapienti, sempre agitando la lancia e gridando: «Forza, lance! Avanti le lance!»
Le veniva da ridere. E rise. Coperta di terra e con la battaglia che infuriava, non si era mai sentita tanto euforica in vita sua. Quasi si pentì di non aver scelto di diventare una Fanciulla della Lancia. Quasi. Nessuna Far Dareis Mai poteva diventare capoclan, come un uomo non poteva essere eletto Sapiente; il solo modo per una fanciulla di ottenere il potere era rinunciare alla lancia e diventare una Sapiente. In veste di moglie di un capoclan, Sevanna aveva avuto a che fare con il potere a un’età in cui le Fanciulle venivano appena investite della fiducia di impugnare una lancia, o a un’apprendista Sapiente veniva permesso di andare a prendere l’acqua. Adesso aveva tutto, era Sapiente e capoclan, anche se doveva ancora lavorare per ottenere quell’ultimo titolo ufficialmente. I titoli avevano poca rilevanza fintanto che avesse avuto il potere, ma perché non possedere entrambi?
Un grido improvviso la fece voltare di scatto e rimase a bocca aperta alla vista di un lupo grigio dal pelo arruffato che stava dilaniando la gola di Dosera. Gli conficcò la lancia, senza nemmeno pensare. Mentre la bestia si contorceva per azzannare l’asta della lancia, un altro animale che le arrivava fino alla vita la oltrepassò per balzare sulla schiena di un algai’d’siswai, quindi ne giunsero ancora altri, e ovunque Sevanna guardasse vedeva che riducevano a brandelli le figure vestite di cadin’sor.
Mentre liberava la lancia la pervase una paura dovuta alla superstizione. Le Aes Sedai avevano evocato i lupi perché combattessero al loro fianco. Sevanna non riusciva a distogliere lo sguardo dall’animale che aveva appena ucciso. Le Aes Sedai avevano... No! No! Non poteva cambiare nulla. Lei non lo avrebbe permesso.
Alla fine riuscì a distogliere lo sguardo, ma prima che potesse gridare qualche frase di incoraggiamento alle Sapienti, qualcos’altro le pietrificò la bocca e la lasciò a occhi sgranati. Un gruppo di cavalieri delle terre bagnate, con gli elmetti e i pettorali rossi, che si trovavano nella mischia brandendo le spade o affondando lunghe lance, proprio in mezzo al gruppo degli algai’d’siswai. Da dove erano spuntati?
Non si era accorta di aver parlato ad alta voce fino a quando Rhiale le rispose: «Ho cercato di avvisarti, Sevanna, ma tu non ascoltavi.» La donna con i capelli rosso fuoco lanciò un’occhiata disgustata alla lancia imbrattata di sangue. Le Sapienti non dovevano usare le lance. Sevanna si appoggiò l’arma nell’incavo del braccio con ostentazione, proprio come aveva visto fare ai capi, mentre Rhiale proseguì: «Gli abitanti delle terre bagnate hanno attaccato da sud. Loro e i siswai’aman.» La Sapiente infuse in quelle parole tutto il suo disprezzo per quelli che si definivano Lance del Drago. «Ci sono anche delle Fanciulle e... delle Sapienti.»
«Che combattono?» chiese Sevanna incredula, prima di rendersi conto di che effetto facesse quello stupore nella sua bocca. Se lei poteva sbarazzarsi di usanze obsolete, di certo anche quegli sciocchi a sud accecati dal sole, che ancora si definivano Aiel, potevano fare lo stesso. Tuttavia, non se l’era aspettato. Senza dubbio li aveva guidati Sorilea; quella vecchia le rammentava una frana che fa precipitare una montagna, portandosi tutto appresso. «Dobbiamo attaccare immediatamente. Non possono avere Rand al’Thor. O rovinare la nostra vendetta per Desaine» aggiunse quando Rhiale sgranò gli occhi.
«Sono Sapienti» rispose atona l’altra donna, e Sevanna, molto amareggiata, capì. Unirsi alla danza delle lance era già sbagliato per le Sapienti, ma attaccare altre Sapienti era molto più di quanto anche Rhiale avrebbe tollerato. La donna aveva concordato sul fatto che Desaine dovesse morire — altrimenti come avrebbero convinto le altre Sapienti, per non parlare degli algai’d’siswai, ad attaccare le Aes Sedai e assumere il controllo su Rand al’Thor e, con lui, su tutti gli altri Aiel? — ma l’aveva fatto in segreto, circondata da donne che la pensavano allo stesso modo. Questo attacco invece sarebbe stato visto da tutti. Sciocche e codarde! Fino all’ultima!
«Allora combatti contro i nemici che pensi di poter affrontare, Rhiale.» Pronunciò ogni parola con durezza e infuse in esse tutto il disprezzo che poté, ma Rhiale si limitò ad annuire, si aggiustò lo scialle con un’altra occhiata alla lancia di Sevanna, e ritornò alla sua postazione.
Forse c’era il sistema di far fare la prima mossa alle altre Sapienti. Sarebbe stato meglio attaccare di sorpresa, ma l’importante era impedire alle altre di strapparle Rand al’Thor dalle mani. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di avere una donna in grado di incanalare che avesse fatto quanto lei ordinava, senza risponderle o tirarsi indietro. Sarebbe stata disposta a tutto per essere su un’altura da dove poter vedere come procedeva il combattimento.
Con la lancia pronta all’uso e tenendo d’occhio i lupi — quelli che riusciva a vedere Sevanna o stavano uccidendo uomini e donne in cadin’sor oppure erano morti —, riprese a incitare e incoraggiare le sue Sapienti. A sud il fuoco e i fulmini ricadevano fra gli Shaido, più fitti di prima, ma non le pareva che facesse una gran differenza. Quella battaglia, con le esplosioni di fiamme, terra ed esseri umani, continuava indisturbata.
«Forza lance!» gridò, agitando l’arma che impugnava. «Forza lance!» Fra la folla di algai’d’siswai non riusciva a distinguere nessuno di quegli schiocchi che si erano legati una fascia rossa attorno alla fronte e si erano denominati siswai’aman. Forse erano troppo pochi per alterare il corso degli eventi. I gruppi di abitanti delle terre bagnate di sicuro sembravano pochi e assai distanti tra loro. Mentre osservava, vide che uno di quei gruppi di cavalieri veniva travolto dai colpi delle lance. «Forza lance! Forza lance!» La voce di Sevanna era esultante. Anche se le Aes Sedai avessero chiamato diecimila lupi e Sorilea avesse portato con sé mille Sapienti e centomila lance, gli Shaido ne sarebbero comunque usciti vittoriosi. Gli Shaido e lei. Il nome di Sevanna degli Shaido Jumai sarebbe stato ricordato per sempre.
D’improvviso, nel clangore della battaglia, risuonò un boato sordo. Sembrava provenisse dalla direzione dei carri delle Aes Sedai, ma nulla indicava se fossero state loro o le Sapienti a causarlo. Le cose che non capiva non le piacevano, ma non avrebbe chiesto a Rhiale o alle altre per non mostrare la propria ignoranza. E la mancanza del talento che lì tutte avevano a parte lei. Fra loro non contava affatto, ma un’altra cosa che non piaceva a Sevanna era che altri avessero poteri che lei non possedeva.
Con la coda dell’occhio notò un lampo di luce fra gli algai’d’siswai, la sensazione di qualcosa che si rivoltava, ma quando si girò a guardare non vide nulla. Accadde di nuovo la stessa cosa, un lampo di luce visto con la coda dell’occhio, e di nuovo quando si voltò per guardare non vi fu nulla da vedere. Erano troppe le cose che non capiva.
Continuando con le frasi d’incoraggiamento Sevanna lanciò un’occhiata alla fila delle Sapienti Shaido. Alcune erano sporche, le fasce sul capo erano sparite e i capelli lunghi erano sciolti, le gonne e le bluse coperte di terra o addirittura bruciate. Almeno dodici erano distese in fila e si lamentavano, altre sette erano immobili, lo scialle sul volto. A Sevanna interessavano quelle ancora in piedi. Rhiale e Alarys, con i suoi radi capelli neri tutti in disordine. Someryn, che aveva iniziato a indossare la blusa slacciata per mostrare una scollatura anche più generosa di quella di Sevanna, e Meira, con il viso lungo anche più cupo del solito. La robusta Tion, la magra Belinde, e Modarra, alta quanto la maggior parte degli uomini.
Una di loro l’avrebbe avvisata se avessero tentato qualcosa di nuovo. Il segreto di Desaine le legava a lei; anche per una Sapiente, una tale rivelazione avrebbe portato a una vita di dolori — e, peggio, vergogna — nel tentativo di assolvere il toh, sempre che non fosse semplicemente stata abbandonata a sé stessa nuda in una regione selvaggia, dove con ogni probabilità sarebbe stata uccisa come una bestia da chiunque l’avesse trovata. Ciò nonostante Sevanna era sicura che fossero contente quanto le altre nel tenerle nascoste le cose che una Sapiente imparava durante l’apprendistato e nei viaggi nel Rhuidean. Prima o poi avrebbe dovuto prendere dei provvedimenti a riguardo, ma non ora. Non avrebbe mostrato la sua debolezza chiedendo cosa stessero facendo.
Riportò di nuovo l’attenzione sulla battaglia e vide che l’equilibrio era mutato, a quanto pareva, in suo favore. I globi di fuoco e i fulmini a sud erano più intensi che mai, ma non era lo stesso per quelli davanti a lei e, era evidente, nemmeno per quelli a ovest o a nord. Quelli che cadevano in direzione dei carri continuavano a essere quasi sempre deviati, eppure vedeva che gli sforzi delle Aes Sedai si erano molto allentati. Adesso erano costrette a difendersi. Lei stava vincendo!
Mentre quel pensiero ancora la pervadeva come un’ondata di puro calore, le Aes Sedai si fermarono. Il fuoco e i fulmini cadevano ancora fra gli algai’d’siswai solo a sud. Sevanna aprì la bocca per proclamare a tutti la sua vittoria, quando una nuova constatazione la indusse a tacere. Il fuoco e i fulmini che grandinavano in direzione dei carri colpivano una protezione invisibile. Man mano che saliva, il fumo proveniente dai carri in fiamme cominciava a delineare la sagoma di una cupola e alla fine usciva a ondate da un buco al centro di quella barriera invisibile.
Sevanna ruotò su sé stessa per trovarsi faccia a faccia con la fila di Sapienti e la sua espressione spinse alcune di loro ad allontanarsi, da lei e forse dalla lancia che impugnava. Sevanna sapeva di sembrare pronta a usarla, e lo era davvero. «Perché avete lasciato che facessero una cosa simile?» chiese furiosa. «Perché? Il vostro compito era impedire alle Aes Sedai di difendersi, non permettere loro di erigere altre mura!»
Tion sembrava pronta a dare di stomaco, ma piantò le mani sui fianchi larghi e affrontò Sevanna apertamente. «Non sono state le Aes Sedai.»
«Non le Aes Sedai?» chiese sprezzante Sevanna. «Allora chi? Le altre Sapienti? Ve l’avevo detto che bisognava attaccarle!»
«Non è stata nessuna donna» rispose Rhiale con voce tremante. «Non è stata...» Deglutì, pallida in volto.
Sevanna si voltò con lentezza per osservare la cupola e solo allora si ricordò di respirare di nuovo. Era apparso qualcosa attraverso il buco dal quale usciva il fumo. Una della bandiere degli abitanti delle terre bagnate. Il fumo non era sufficiente a oscurarla del tutto. Una bandiera cremisi, con un disco metà nero e metà bianco, i due colori erano divisi da una linea sinuosa, simile alle fasce che portavano i siswai’aman. La bandiera di Rand al’Thor. Che fosse talmente forte da essersi liberato da solo, aver preso il sopravvento sulle Aes Sedai e aver issato la bandiera? Doveva essere così.
La pioggia di fulmini e globi infuocati ancora bersagliava la cupola, ma Sevanna sentiva dei mormorii alle sue spalle. Le altre stavano pensando alla ritirata. Non lei. Aveva sempre saputo che la via più facile verso il potere risiedeva nel conquistare gli uomini che lo detenevano e già da bambina sapeva di essere nata con le armi giuste per farlo. Suladric, capoclan degli Shaido, era caduto ai suoi piedi quando lei aveva solo sedici anni, e alla sua morte quelli che con ogni probabilità lo avrebbero sostituito. Muradin e Couladin erano entrambi convinti di aver catturato il suo interesse uno ai danni dell’altro. Quando Muradin non fece ritorno dal Rhuidean — come accadeva a tanti uomini — bastò un sol sorriso a convincere Couladin di essere lui quello che l’aveva conquistata. Ma il potere di un capoclan impallidiva di fronte a quello del Car’a’carn, e anche questo era nulla a confronto con ciò che vedeva con i propri occhi in quel momento. Sevanna fu scossa dai brividi come se avesse visto nella tenda della sauna il più bell’uomo che potesse immaginare. Una volta che Rand al’Thor fosse stato suo, avrebbe conquistato il mondo intero.
«Metteteci più energia» ordinò. «Più energia! Umilieremo le Aes Sedai in onore di Desaine!» E lei avrebbe avuto Rand al’Thor.
A un tratto si alzò un boato dalla prima linea della battaglia. Gli uomini gridavano, urlavano. Sevanna imprecò perché non poteva vedere cosa stesse accadendo. Incitò di nuovo le Sapienti a esercitare maggior pressione ma, al contrario, sembrò che la pioggia di fuoco e fulmini contro la cupola diminuisse. E alla fine riuscì a vedere qualcosa.
Vicino ai carri, le figure in cadin’sor esplosero in aria insieme alla terra, il tutto accompagnato da un frastuono fragoroso, non in un unico punto ma lungo tutta una fila. Il terreno esplose di nuovo, ancora e ancora, ogni volta un po’ più lontano dal circolo di carri. Non una linea, ma un solido anello di terreno, uomini e fanciulle che saltavano in aria, un anello che, Sevanna ne era sicura, correva compatto tutto intorno ai carri. Un’esplosione dietro l’altra, sempre in espansione, e a un tratto gli algai’d’siswai iniziarono a passarle accanto per lanciarsi oltre la linea delle Sapienti, per fuggire.
Sevanna li colpì con la lancia, flagellò teste e spalle, senza scomporsi quando la lama della sua arma diventava più rossa di prima. «Fermatevi e combattete! Fermatevi, per l’onore degli Shaido!» Gli uomini la oltrepassarono senza prestarle attenzione. «Ma non avete onore? Fermatevi e combattete!» Colpì nella schiena una Fanciulla in fuga, ma il gruppo che la seguiva si limitò a scavalcarla. Sevanna si accorse a un tratto che alcune delle Sapienti erano sparite e altre stavano rialzando i feriti. Rhiale si voltò per fuggire e Sevanna l’afferrò per un braccio, minacciandola con la lancia. Non le importava che sapesse incanalare. «Dobbiamo resistere! Possiamo ancora prenderlo!»
Il volto dell’altra donna era una maschera di paura. «Se restiamo moriremo! O forse finiremo incatenate fuori la tenda di Rand al’Thor! Rimani pure e muori se lo desideri, Sevanna. Io non sono un Cane di Pietra!» Liberò il braccio con uno strattone e si diresse di corsa verso levante.
Sevanna rimase immobile per un altro momento, lasciando che uomini e Fanciulle la spingessero da una parte all’altra mentre la superavano in preda al panico, quindi scagliò in terra la lancia e toccò il sacchetto che portava appeso alla cintura, dov’era riposto un piccolo cubo di pietra scolpita con un motivo intricato. Era un bene che avesse esitato a gettarlo via. Aveva ancora un’altra freccia al suo arco. Sollevò la gonna per scoprire le gambe e si unì a quella fuga caotica, ma mentre gli altri correvano terrorizzati, lei aveva già una serie di piani che le turbinavano in testa. Avrebbe avuto Rand al’Thor in ginocchio davanti a lei, insieme alle Aes Sedai.
Alla fine Alviarin lasciò gli appartamenti di Elaida, fredda e controllata in superficie come sempre. Interiormente si sentiva strizzata come uno straccio umido. Riuscì a mantenere le gambe stabili lungo la serie di scalini che curvavano verso il basso, di marmo anche lassù. Gli inservienti in livrea si inchinarono o le fecero la riverenza mentre si affrettavano nelle loro faccende, vedendo solo la Custode in tutta la sua serenità da Aes Sedai. Man mano che scendeva incominciarono ad apparire delle Sorelle, molte portavano lo scialle con le frange del colore dell’Ajah d’appartenenza come per sottolineare formalmente il fatto che erano Sorelle a pieno titolo. Molte la guardavano a disagio mentre le oltrepassava. La sola a ignorarla fu Danelle, una Sorella Marrone dagli occhi sognanti. Aveva partecipato al complotto per deporre Siuan Sanche ed eleggere Elaida ma, persa nei propri pensieri, una donna solitaria senza amiche nemmeno fra la sua stessa Ajah, sembrava inconsapevole di essere stata messa da parte. Altre invece ne erano fin troppo consapevoli. Berisha, una Grigia snella e dallo sguardo duro, e Kera, con i capelli chiari, gli occhi azzurri che talvolta si vedevano fra i Tarenesi e tutta l’arroganza tanto comune tra le Verdi, si limitarono a farle la riverenza. Norine accennò a salutarla ma poi cambiò idea. Con gli occhi grandi e talvolta sognanti quasi quanto quelli di Danelle, anche lei senza amiche, era offesa con Alviarin: se la Custode doveva appartenere all’Ajah Bianca, secondo lei avrebbe dovuto essere Norine Dovarna.
Alla Custode non erano dovute particolari cerimonie, non da una Sorella, ma senza dubbio molte speravano che Alviarin avrebbe interceduto presso Elaida se fosse diventato necessario. Le altre si chiedevano solamente quali ordini avesse con sé, se quel giorno un’altra Sorella sarebbe stata scelta dal gruppo per chissà quale fallimento agli occhi dell’Amyrlin. Nemmeno le Rosse si avvicinavano a meno di cinque piani dai nuovi appartamenti dell’Amyrlin a meno che non venissero convocate, e più di una Sorella si andava a nascondere quando Elaida scendeva. L’aria stessa sembrava surriscaldata, densa di una paura che non aveva nulla a che vedere con le ribelli o con gli uomini che incanalavano.
Diverse Sorelle cercarono di parlarle, ma Alviarin le oltrepassò quasi sgarbatamente, senza notare il fiorire di sguardi preoccupati quando si rifiutava di fermarsi. La sua mente, come quella di tutte le altre, era concentrata su Elaida. Era complessa, Elaida. A prima vista si scorgeva una donna bellissima piena di dignitoso riserbo, a un secondo sguardo rivelava una donna d’acciaio, austera come una lama sguainata. Lei sopraffaceva dove le altre persuadevano, bastonava dove altre tentavano con la diplomazia o con il Gioco delle Casate. Chiunque la conoscesse vedeva la sua intelligenza, ma dopo un po’ ci si accorgeva che, per quanto fosse brillante, Elaida vedeva solo ciò che voleva e cercava di far diventare vero ciò che desiderava lo fosse. Aveva due caratteristiche senza dubbio spaventose: la minore era che spesso riusciva nei propri intenti; la più grande era la sua capacità di predire gli eventi.
In molte lo dimenticavano, poiché questa sua capacità si manifestava di rado. Era trascorso molto tempo dalla sua ultima premonizione, e proprio questa imprevedibilità, dava al suo talento la forza di un fulmine. Nessuna era in grado di dire quando si sarebbe manifestato, nemmeno Elaida, e nessuna era in grado di dire cosa avrebbe rivelato. Alviarin quasi sentiva aleggiare la presenza della donna che la seguiva e l’osservava.
Forse sarebbe stato necessario ucciderla. Non sarebbe stato il suo primo assassinio in segreto, eppure Alviarin esitava a fare quel passo senza ricevere un ordine, o almeno il permesso.
Quando Alviarin entrò nei suoi appartamenti provò un senso di sollievo, come se l’ombra di Elaida non potesse varcare quella soglia. Un pensiero sciocco. Se quella donna avesse sospettato la verità, neppure mille leghe l’avrebbero tenuta lontana dalla gola di Alviarin. Elaida si aspettava che lei in quel momento stesse lavorando sodo, scrivendo di proprio pugno gli ordini per la firma e il sigillo dell’Amyrlin — ma quali di quegli ordini sarebbero davvero stati eseguiti era ancora da decidere. Ovviamente non da Elaida. E nemmeno da lei.
Le sue stanze erano più piccole di quelle che occupava l’Amyrlin, ma i soffitti erano più alti e un balcone affacciava sulla grande piazza davanti alla Torre, circa trenta metri più in basso. Talvolta Alviarin usciva fuori per guardare Tar Valon stesa davanti ai suoi occhi, la città più grande del mondo, piena di migliaia e migliaia di persone che erano meno che pedine su una scacchiera. L’arredamento era in stile domanese, legno chiaro con venature, intarsiato di madreperla e ambra, tappeti dai colori brillanti con motivi floreali e spirali, e arazzi ancora più brillanti che rappresentavano foreste, fiori e cervi al pascolo. Erano tutti appartenuti all’ultima occupante di quelle stanze e il solo motivo per cui lei li aveva tenuti, a non voler sprecare tempo nel sceglierne di nuovi, era per ricordare sempre il prezzo del fallimento. Leane Sharif aveva sguazzato nei complotti e aveva fallito, e adesso era tagliata fuori dall’Unico Potere per sempre, una profuga inerme che dipendeva dalla carità altrui, destinata a una vita di miseria fino a quando non vi avesse posto fine lei stessa o non fosse morta naturalmente. Alviarin aveva sentito parlare delle poche donne quietate che erano riuscite a sopravvivere, ma lei avrebbe continuato a dubitare della veridicità di tali voci fino a quando non l’avesse visto succedere con i suoi occhi. Non che ne avesse il minimo desiderio.
Dalla finestra vedeva il chiarore del primo pomeriggio, ore prima che lei raggiungesse il centro del soggiorno, la luce divenne scura come quella del crepuscolo. L’oscurità non la sorprese. Si voltò e si inginocchiò immediatamente. «Somma signora, vivo per servirti.» Una donna alta, dal volto fatto di ombre buie e luci d’argento stava in piedi davanti a lei. Mesaana.
«Dimmi cos’è accaduto, bambina.» La voce risuonò come campanelli di cristallo.
Sempre in ginocchio, Alviarin ripeté ogni parola che aveva detto Elaida, anche se si chiedeva perché fosse necessario. Le prime volte aveva omesso le parti irrilevanti, e Mesaana aveva voluto conoscere ogni intonazione, aveva preteso di sentire ‘ogni’ parola, ogni gesto e ogni espressione. Era chiaro che la donna spiasse durante quegli incontri. Alviarin aveva cercato di dedurre quale logica si nascondesse dietro tutto ciò e aveva fallito. Alcune cose non funzionavano usando la logica.
Aveva incontrato anche altri Prescelti, quelli che chiamavano Reietti. Lanfear e Graendal avevano visitato la Torre, donne imperiose, consapevoli delle proprie forze e conoscenze e avevano reso ben chiaro, senza parole, che Alviarin era ben al di sotto di loro, una sguattera che doveva sbrigare in fretta le sue commissioni e uggiolare di gioia se riceveva una parola gentile. Be’lal aveva rapito Alviarin durante la notte, mentre dormiva — lei non aveva ancora capito dove l’avesse portata; si era risvegliata nel suo letto e questo l’aveva terrorizzata anche più dell’essere stata in presenza di un uomo in grado di incanalare. Per Be’lal, lei non era nemmeno un verme, neppure un essere vivente, solo la pedina di un gioco da muovere a suo piacimento. Il primo a farle visita era stato Ishamael, anni prima degli altri, l’aveva scelta nel gruppo segreto dell’Ajah Nera per metterla al comando dello stesso.
Alviarin si era inginocchiata davanti a ognuno di loro, dicendo che viveva per servirli e, intendendolo sul serio, obbedire ai loro ordini, qualsiasi fossero. Dopo tutto erano un solo gradino al di sotto del Sommo Signore delle Tenebre, e se voleva essere ricompensata per i propri servigi, con l’immortalità che sembrava i Prescelti già possedessero, era meglio obbedire. Si era inginocchiata davanti a ognuno di essi, ma solo Mesaana era apparsa con sembianze inumane. Quel manto d’ombra e luce doveva essere intessuto con l’Unico Potere, ma Alviarin non vedeva alcuna trama. Aveva percepito la forza di Lanfear e di Graendal, aveva capito fin dal primo momento quanto erano più forti di lei nell’uso del Potere, ma con Mesaana percepiva... il nulla. Come se la donna non potesse incanalare affatto.
La conseguenza logica era chiara e sbalordente. Mesaana si nascondeva perché poteva essere riconosciuta. Quindi doveva risiedere proprio nella Torre. La cosa sembrava impossibile, ma non c’erano altre risposte. E, se Alviarin aveva ragione, allora di sicuro la Prescelta indossava le vesti di una delle Sorelle; di certo non si era andata a nascondere fra la servitù, destinata a lavorare e sudare. Ma chi? Troppe donne avevano vissuto fuori dalla Torre per molti anni prima della convocazione di Elaida, e troppe che non avevano amiche intime, o addirittura nessuna amica. Mesaana doveva essere una di queste. Alviarin voleva davvero scoprirlo. Anche se non avrebbe potuto farne alcun uso, il sapere era sempre sinonimo di potere.
«E così la nostra Elaida ha avuto una premonizione» osservò Mesaana, e Alviarin si accorse sobbalzando di avere raggiunto la fine del proprio racconto. Le ginocchia le dolevano, ma sapeva bene di non doversi alzare senza permesso. Un dito fatto di ombra tamburellò su labbra argentee in maniera pensierosa. Aveva mai notato qualche Sorella fare quel gesto? «È molto strano che sia così chiara eppure così irregolare allo stesso tempo. È sempre stato un Talento raro, e la maggior parte di quelle che lo hanno avuto parlavano in un modo tale che solo i poeti potevano capirle. E di solito ci riuscivano quando era troppo tardi perché avesse importanza. A quel punto, tutto diventava chiaro.» Alviarin rimase in silenzio. Nessuno dei Prescelti faceva conversazione; ordinavano o esigevano. «Previsioni interessanti. Le ribelli spaccate — come un melone marcio — erano parte della predizione?»
«Non ne sono certa, somma signora» rispose lei con lentezza — ponendosi la stessa domanda — ma Mesaana si limitò a scrollare le spalle.
«Che sia o meno così, può esserci utile in ogni caso.»
«Elaida è pericolosa, somma signora. Il suo Talento potrebbe rivelare cose che non dovrebbero essere svelate.»
In risposta le giunse una risata cristallina. «E cosa? Riguardo a te? Alle tue Sorelle dell’Ajah Nera? O forse pensi di dover proteggere me? A volte sei davvero dolce, bambina.» Quella voce argentina era divertita. Alviarin sentì di avere il viso in fiamme e sperò che Mesaana l’interpretasse come vergogna, non rabbia. «Stai forse suggerendo che la nostra Elaida dovrebbe essere eliminata, bambina? Non ancora. Continua ad avere una sua utilità. E sarà così almeno fino a quando il giovane al’Thor non ci raggiungerà e, molto probabilmente, anche dopo. Scrivi pure i suoi ordini e accertati che vengano eseguiti. Vederla mettere in atto i suoi piccoli giochi è senz’altro divertente. Talvolta voi bambine eguagliate quasi le Ajah del passato. Riuscirà a far rapire il re di Illian e la regina di Saldea? Voi Aes Sedai un tempo lo facevate, vero? Ma si tratta di... quanto? Duemila anni fa? Chi cercherà di mettere sul trono di Cairhien? L’offerta di essere il re di Tear riuscirà a indurre il sommo signore Darlin a superare il suo disgusto per le Aes Sedai? La nostra Elaida soffocherà in preda alla frustrazione, prima di avere una risposta? È un peccato che opponga resistenza all’idea di un esercito più grande. Credevo che la sua ambizione ne sarebbe stata assai stimolata.»
L’incontro stava per finire — non duravano mai più del tempo necessario ad Alviarin per riferire tutto e ricevere nuovi ordini — ma lei aveva ancora una domanda da porre. «La Torre Nera, somma signora» Alviarin si inumidì le labbra. Aveva scoperto molte cose da quando Ishamael le era apparso, non ultimo che i Prescelti non erano onnipotenti né onniscienti. Lei era avanzata di posizione perché Ishamael, in un impeto d’ira, aveva ucciso la donna che l’aveva preceduta, Jarna Malari, quando aveva scoperto a cosa avesse dato il via, eppure la cosa non si era conclusa se non dopo altri due anni, in seguito alla morte di un’altra Amyrlin. Alviarin si chiedeva spesso se Elaida avesse avuto parte nella morte di quella donna, Sierin Vayu; di sicuro l’Ajah Nera non c’entrava nulla. Jarna aveva ucciso Tamra Ospenya, l’Amyrlin che aveva preceduto Sierin, spremendola come un grappolo d’uva — ottenendo, come avevano scoperto poi, poco succo — e facendo quindi sembrare che fosse morta nel sonno, ma Alviarin e le altre dodici Sorelle del Gran Consiglio avevano sofferto a lungo prima di riuscire a convincere Ishamael che loro non ne erano responsabili. I Prescelti non erano onnipotenti e non erano al corrente di tutto, eppure talvolta sapevano cose che nessun altro conosceva. Tuttavia, chiedere poteva essere pericoloso. Soprattutto chiedere ‘perché’: ai Prescelti non piaceva ricevere quel tipo di domande. «È sicuro inviare cinquanta Sorelle a occuparsi di loro, somma signora?»
Occhi lucenti come due lune piene la studiarono in silenzio, e la schiena di Alviarin fu percorsa da un brivido. Il destino di Jarna le balenò nella mente. Ufficialmente parte dell’Ajah Grigia, Jarna non aveva mai mostrato alcun interesse nei ter’angreal di cui nessuna conosceva il funzionamento — fino al giorno in cui non rimase intrappolata in uno che non era stato usato per centinaia di anni. Come attivarlo era ancora un mistero. Nessuna era riuscita a raggiungerla per dieci giorni, si sentivano solo le sue grida gutturali. La maggior parte della Torre pensava che Jarna fosse un modello di virtù. Quando ciò che riuscirono a recuperare fu seppellito, tutte le Sorelle a Tar Valon e quelle che poterono raggiungere la città in tempo, parteciparono al funerale.
«Tu hai della curiosità, bambina» rispose alla fine Mesaana. «Potrebbe essere un vantaggio, diretta opportunamente. Se usata in maniera errata...» Quella minaccia rimase sospesa in aria come un pugnale luccicante.
«L’indirizzerò come tu comandi, somma signora» Alviarin ansimava. Aveva la bocca secca come polvere. «Solo come tu comandi.» Ma si sarebbe comunque accertata che nessuna dell’Ajah Nera andasse con Toveine. Mesaana si mosse, torreggiando su di lei e costringendola a reclinare indietro la testa per guardare quel volto di luce e ombra, e a un tratto Alviarin si chiese se la Prescelta non era in grado di leggere i suoi pensieri.
«Se vuoi servirmi, allora devi servire e obbedire me. Non Semirhage o Demandred. Nemmeno Graendal o chiunque altro. Solo me. E il Sommo Signore ovviamente, ma me al di sopra di tutti, escluso lui.»
«Io vivo per servirti, somma signora.» La voce era simile a un gracidio, ma Alviarin riuscì comunque a infondere una certa enfasi alle parole.
Per un lungo istante gli occhi d’argento la fissarono immobili, poi Mesaana disse: «Bene. Allora ti istruirò. Ma ricorda che un’allieva non è un’insegnate. Io decido chi impara cosa e io decido quando può farne uso. Se dovessi scoprire che hai a tua volta insegnato anche la più piccola minuzia a qualcun’altra, o che hai usato anche un filo di ciò che hai appreso senza le mie istruzioni, ti distruggerò.»
Alviarin deglutì. Non c’era rabbia in quelle parole musicali, solo certezza. «Io vivo per servirti, somma signora. Vivo per obbedirti, somma signora.» Alviarin aveva appena imparato qualcosa riguardo i Prescelti e a malapena riusciva a crederci. La conoscenza era potere.
«Tu hai un po’ di forza, bambina. Non molta, ma abbastanza.»
Un’onda apparve come dal nulla.
«Questo» disse Mesaana «si chiama passaggio.»
Pedron Niall sbuffò quando Morgase piazzò una pedina bianca sulla scacchiera con un sorriso di trionfo. Dei giocatori meno abili sarebbero andati avanti per un’altra decina di mosse, ma Niall aveva già capito il corso inevitabile della partita, come anche Morgase. All’inizio la donna dai capelli color oro seduta dall’altro lato del tavolino aveva giocato per perdere, in modo da rendere la partita interessante per lui, ma non ci aveva messo molto a capire che questo l’avrebbe portata alla distruzione. Inoltre, sapeva che Niall era abbastanza furbo da riconoscere quei sotterfugi e non li avrebbe tollerati. Adesso Morgase usava tutte le sue astuzie e riusciva a vincere quasi la metà delle partite. Nessuno lo aveva battuto così spesso negli ultimi anni.
«Hai vinto» le disse, e la regina di Andor annuì. Be’, sarebbe stata di nuovo regina, se ne sarebbe occupato lui. Morgase indossava un abito di seta verde con il collo alto di merletto che le sfiorava il mento e sembrava in tutto e per tutto una regina, nonostante il velo di sudore che le copriva le guance lisce. Ma non mostrava affatto gli anni necessari per avere una figlia dell’età di Elayne, men che mai un figlio dell’età di Gawyn.
«Tu non te ne sei accorto, ma io avevo notato la trappola che mi stavi tendendo quando hai mosso la trentunesima pedina, lord Niall, e hai scambiato la mia finta con la quarantatreesima per un vero attacco.» Gli occhi azzurri della donna rilucevano di emozione. A Morgase piaceva vincere. Le piaceva giocare per vincere.
Ovviamente, quelle partite e la cortesia che lei gli mostrava erano mirate a tenerlo buono. Morgase sapeva di essere prigioniera nel Palazzo della Luce, in tutto e per tutto tranne che nominalmente, anche se era una prigioniera di lusso. Una prigioniera segreta. Niall aveva permesso che si spargessero delle voci sulla sua presenza a palazzo, ma non aveva fatto alcuna dichiarazione. Da sempre Andor si era fortemente opposta ai Figli della Luce. Pedron Niall non avrebbe annunciato nulla fino a quando le sue legioni non fossero entrate in quel regno, con Morgase a fare da apripista. Ovviamente la regina lo sapeva. E con ogni probabilità sapeva anche che Niall era consapevole dei suoi tentativi di ammansirlo. Il trattato che lei stessa aveva firmato dava ai Figli dei diritti in Andor che non avevano mai avuto in nessun altro luogo, se non lì nell’Amadicia, e Niall si aspettava che Morgase stesse già progettando come togliergli di nuovo la propria terra da sotto le mani non appena avesse potuto. Aveva firmato solo perché Niall l’aveva chiusa in un angolo, eppure, anche confinata in quell’angolo, combatteva con la stessa perizia che mostrava sulla scacchiera. La sua durezza era una caratteristica sorprendente in una donna di tale bellezza. Anzi, era sorprendente in generale. Si lasciava prendere dal puro piacere del gioco, ma Niall non poteva fargliene una colpa perché gli regalava tanti momenti piacevoli.
Forse, se avesse avuto vent’anni di meno, Niall avrebbe giocato di più al vero gioco di quella donna. Aveva alle spalle molti anni da vedovo, ed essendo il lord capitano comandante dei Figli della Luce non aveva molto tempo da trascorrere con le donne, non aveva tempo per essere altro che il lord capitano Comandante. Se lui avesse avuto vent’anni di meno — be’, venticinque — e se lei non fosse stata addestrata dalle streghe di Tar Valon... Era facile dimenticarlo in sua presenza. La Torre Bianca era un baratro di ingiustizie e il regno dell’Ombra, e Morgase ne era di certo stata toccata profondamente. Rhadam Asunawa, il sommo Inquisitore, l’avrebbe processata per quei mesi trascorsi alla Torre Bianca e l’avrebbe impiccata senza indugi, se Niall glielo avesse premesso. Sospirò con rammarico.
Morgase aveva ancora in volto il suo sorriso vittorioso, ma i grandi occhi studiavano il volto di Niall con un’intelligenza che la donna non poteva nascondere. Lui riempì di vino le coppe usando la caraffa d’argento riposta in un secchio d’acqua fredda che fino a poco prima era ancora ghiaccio.
«Mio lord Niall...» L’esitazione fu prolungata al punto giusto, la mano sottile protesa verso di lui, il rispetto mostrato nel titolo che gli concedeva. Prima lo chiamava semplicemente Niall, con più disprezzo di quanto ne avrebbe riservato a uno stalliere ubriaco. Quell’esitazione sarebbe stata perfetta, se lui non si fosse fatto un’idea precisa della donna. «Mio lord Niall, di certo potrai ordinare a Galad di recarsi ad Amador affinché io possa vederlo. Solo per un giorno.»
«Temo» le rispose lui in tono suadente «che i doveri di Galad lo trattengano a nord. Dovresti esserne fiera: è uno dei nostri migliori giovani ufficiali.» Il figliastro della regina era un argomento da usare per far leva su di lei in caso di bisogno, ancor più adesso che era lontano. Quel giovane era davvero un buon ufficiale, forse il migliore che i Figli avessero avuto durante il comando di Niall, e non era necessario mettere alla prova la sua fedeltà lasciandogli sapere che sua madre era lì, ‘ospite’ solo per cortesia.
La delusione della donna fu tradita solamente da una leggera tensione delle labbra, che si dissipò in un istante. Non era la prima volta che faceva questa richiesta e non sarebbe stata l’ultima. Morgase Trakand non si arrendeva solo perché era stata chiaramente battuta. «Come dici tu, mio lord Niall» rispose, con tale remissività che a lui andò quasi di traverso il vino. La sottomissione era una nuova tattica, che doveva costarle molta fatica. «È solo il desiderio di una madre...»
«Mio lord capitano Comandante?» La voce profonda e sonora veniva dal vano della porta. «Temo di avere notizie urgenti che non possono aspettare, mio signore.» Abdel Omerna era alto e indossava il tabarro bianco e oro da lord capitano dei Figli della Luce, il volto duro incorniciato da ali di bianco sulle tempie grigie, gli occhi scuri profondi e pensierosi. Un’immagine di coraggio e autorità. Era anche un idiota, sebbene questa sua caratteristica non fosse altrettanto evidente.
Morgase si ritrasse alla vista di Omerna, un movimento rapido e lieve che pochi avrebbero notato. Come chiunque altro, credeva che quell’uomo fosse il capo delle spie dei Figli, un individuo da temere quasi quanto Asunawa, forse anche di più. Nemmeno Omerna stesso sapeva di essere solo uno specchietto per le allodole, un modo per tenere l’attenzione lontana dal vero capo delle spie, un uomo noto solo a Niall in persona. Sebban Balwer, il suo piccolo e magro segretario. Tuttavia, che fosse o meno un fantoccio, di tanto in tanto Omerna gli forniva informazioni utili. E, in rare occasioni, gli sottoponeva anche questioni davvero urgenti. Niall non aveva dubbi su cosa avesse spinto l’uomo a fargli visita. Solo Rand al’Thor davanti ai cancelli poteva spingerlo a una tale invadenza. Voglia la Luce che si tratti solo delle chiacchiere di un venditore di tappeti impazzito, pensò Niall.
«Temo che le nostre partite per oggi siano finite» disse a Morgase mente si alzava. Le fece un piccolo inchino mentre anche lei si metteva in piedi, e la donna ricambiò chinando il capo.
«Forse possiamo vederci di nuovo stasera.» La voce di Morgase aveva ancora quel tono quasi docile. «Se vorrai cenare con me.»
Naturalmente Niall accettò. Non sapeva dove Morgase volesse arrivare con questa nuova tattica — di certo non dove uno sciocco avrebbe supposto — ma scoprirlo sarebbe stato divertente. Quella donna era piena di sorprese. Era un vero peccato che fosse stata contaminata dalle streghe.
Omerna avanzò fino al grande sole d’oro incastonato nel pavimento, consumato nel corso dei secoli da piedi e ginocchia. Per il resto, la stanza era semplice, se si escludevano le bandiere degli sconfitti allineate lungo le pareti in alto, vicino al soffitto, vecchie e logore. Omerna guardò Morgase che gli passava davanti senza neanche dar segno di vederlo e, quando la porta si chiuse alle spalle della donna, disse: «Non ho ancora trovato né Elayne né Gawyn, mio signore.»
«Sono queste le tue notizie urgenti?» chiese Niall irritato. Balwer aveva riferito che la figlia di Morgase si trovava a Ebou Dar, ancora invischiata fino al collo con le streghe; a Jaichim Carridin erano già stati inviati ordini riguardo alla ragazza. Anche l’altro figlio della regina lavorava ancora con le streghe, a Tar Valon, dove persino Balwer aveva pochi informatori. Niall bevve un lungo sorso di vino fresco. Da qualche tempo, si sentiva le ossa vecchie, fragili e fredde, eppure quel clima torrido generato dall’Ombra lo faceva sudare e gli seccava la bocca.
Omerna sobbalzò. «Ah... no, mio signore.» Rovistò in una tasca della giubba bianca e ne estrasse un piccolo cilindro d’osso con tre strisce rosse che ne percorrevano la lunghezza. «Volevi che questo ti venisse portato non appena il piccione lo avesse consegnato e...» Si interruppe quando Niall glielo strappò di mano.
Era ciò che aspettava, il motivo per cui la legione non era già in viaggio per Andor con Morgase in testa, se non alla guida. Se non si trattava solo della follia di Varadin, delle farneticazioni di un uomo distrutto dal crollo di Tarabon nell’anarchia, Andor avrebbe dovuto aspettare. Andor, e forse anche altro.
«Ho avuto conferma che la Torre Bianca è davvero spezzata» proseguì Omerna. «La... L’Ajah Nera ha preso Tar Valon.» Non c’era da meravigliarsi se sembrava nervoso, visto che stava pronunciando un’eresia. Non esisteva l’Ajah Nera; tutte le streghe erano Amiche delle Tenebre.
Niall lo ignorò e ruppe il sigillo di cera con l’unghia del pollice. Aveva usato Balwer per far circolare queste voci, e adesso ritornavano a lui. Omerna credeva in ogni pettegolezzo che sentiva, e li sentiva tutti.
«E alcuni rapporti dicono anche che le streghe stanno facendo trattative con il Falso Drago al’Thor, mio signore.»
Ma era ovvio che si accordassero con lui! Era una loro creatura, la loro marionetta. Niall ignorò le chiacchiere di quell’idiota e tornò verso la scacchiera mentre estraeva un sottile rotolo di carta dal cilindro. Non lasciava mai che gli altri conoscessero il contenuto di quei messaggi, ed erano comunque pochi anche quelli al corrente della loro mera esistenza. Srotolò il foglio con mani tremanti. Non gli succedeva da quando era stato un. ragazzino alla sua prima battaglia, più di settant’anni addietro. Ora quelle mani parevano poco più che un ammasso di nervi e ossa, ma erano ancora abbastanza forti per ciò che doveva fare.
La calligrafia non era quella di Varadin ma di Faisar, inviato a Tarabon per un motivo diverso. Leggendo, Niall sentì un nodo allo stomaco. Il messaggio era chiaro, non cifrato come quelli di Varadin. I rapporti di quest’ultimo erano il lavoro di un uomo sull’orlo della follia se non già pazzo, eppure Faisar ne confermava le ipotesi peggiori e andava anche oltre. Assai oltre. Al’Thor era una bestia furiosa, un distruttore che andava fermato, ma ora era apparso uri secondo animale, uno che forse poteva essere anche più pericoloso delle streghe di Tar Valon con il loro falso Drago addomesticato. Ma come avrebbe fatto lui, per la Luce, a combatterli entrambi?
«Sembra che la regina Tenobia abbia lasciato la Saldea, mio signore. E... e i fautori del Drago stanno mettendo a ferro e fuoco Altara e Murandy. Ho sentito dire che il Corno di Valere è stato ritrovato a Kandor.» .
Ancora in parte distratto, Niall sollevò lo sguardo e vide che Omerna gli era accanto, si stava inumidendo le labbra e tamponava il sudore della fronte con il dorso della mano. Senza dubbio sperava di riuscire a dare un’occhiata al messaggio. Be’, tutti lo avrebbero saputo abbastanza presto.
«Sembra che una delle tue fantasie più sfrenate non fosse poi tanto folle» osservò Niall, e fu allora che sentì il pugnale penetrargli fra le costole.
Il violento stupore lo paralizzò abbastanza a lungo da permettere a Omerna di liberare il pugnale e affondarlo di nuovo. Altri lord capitani comandanti erano morti in questo modo prima di lui, ma Niall non avrebbe mai pensato che l’assassino potesse essere Omerna. Cercò di bloccarlo, ma non aveva forza nelle braccia. Rimase aggrappato a lui, che resse il suo peso, e si ritrovò a fissarlo negli occhi.
Il volto di Omerna era rosso, sembrava sull’orlo delle lacrime. «Era necessario. Era necessario. Hai lasciato che le streghe se ne stessero indisturbate a Salidar e...» Come se si fosse accorto di colpo che stava abbracciando la sua vittima, lo spinse via.
Ora Niall non aveva più forza neppure nelle gambe. Cadde pesantemente contro il tavolo da gioco, facendolo capovolgere. Le pedine bianche e nere si sparsero intorno a lui sul pavimento di legno lucidato; la caraffa d’argento cadde versando il vino.. Il freddo che aveva sentito nelle ossa adesso stava espandendosi in tutto il corpo.
Niall non capì se fosse la sua percezione del tempo a rallentare o se tutto stesse accadendo così in fretta. Sentì il rumore di passi che risuonavano sul pavimento e sollevò il capo per vedere Omerna a bocca aperta e con gli occhi sgranati che si ritraeva da Eamon Valda. Proprio come Omerna, anche questi era l’immagine perfetta di un lord capitano, con il tabarro bianco e oro e la giubba bianca. Non era altrettanto alto e nemmeno così imperioso, ma il suo volto scuro era duro come non mai, e aveva un’arma fra le mani, la spada con il marchio dell’airone che gli era tanto cara.
«Tradimento!» gridò, per affondare poi la lama nel petto di Omerna.
Se avesse potuto, Niall avrebbe riso. Era difficile respirare, e sentiva il sangue che gli gorgogliava in gola. Valda non gli era mai piaciuto — in effetti, lo disprezzava — ma qualcuno doveva sapere. Cercò con lo sguardo la striscia di carta arrivata da Tanchico, che era caduta non molto lontano dalla sua mano; poteva passare inosservata, ma non se il suo cadavere l’avesse stretta tra le dita. E; quel messaggio andava letto. La mano sembrò strisciare lentamente sul pavimento, sfiorò la carta, spingendola lontano mentre cercava di afferrarla. La vista si stava annebbiando. Niall cercò di costringersi a vedere bene. Doveva... La nebbia si era ispessita. Una parte di lui cercò di ignorare quel pensiero; non c’era nebbia. La nebbia era più densa, e là fuori c’era un nemico, invisibile, nascosto, pericoloso quanto al’Thor e forse anche di più. Il messaggio. Cosa? Quale messaggio? Era tempo di montare a cavallo e sguainare la spada, era giunto il momento dell’ultimo attacco. Per la Luce, vincere o morire, stava arrivando! Niall cercò di ringhiare.
Valda pulì la lama sul tabarro di Omerna, poi si accorse che il vecchio lupo ancora respirava, un rumore graffiante e gorgogliante. Con una smorfia, si piegò per finirlo e... una mano scarna dalle dita lunghe lo afferrò per un braccio.
«Sarai tu adesso il lord capitano Comandante, figlio mio?» Il volto emaciato di Asunawa era quello di un martire, eppure gli occhi scuri bruciavano di un fervore che avrebbe intimorito anche quelli che non sapevano chi fosse. «Potresti benissimo esserlo, dopo che avrò testimoniato che hai ucciso l’assassino di Pedron Niall. Ma non se dovrò dire che hai squarciato anche la gola di Niall.»
Snudando i denti in quello che poteva essere anche un sorriso, Valda si tirò su. Asunawa aveva una strana forma di amore per la verità. Poteva legarla, appenderla e frustarla mentre gridava ma, per quanto ne sapeva lui, quell’uomo non aveva mai mentito. Uno sguardo agli occhi vitrei di Niall e alla pozza di sangue che si allargava sotto di lui bastò a Valda. Il vecchio stava morendo.
«Hai detto ‘potresti’, Asunawa?»
Il sommo Inquisitore si fece indietro allontanando il candido mantello dal sangue di Niall, e i suoi occhi erano più ardenti che mai. Neppure un lord capitano avrebbe dovuto trattarlo con tanta familiarità. «Esatto, figlio mio. Sei stato stranamente riluttante nel concordare che la strega Morgase dev’essere consegnata alla Mano della Luce. A meno che non mi assicuri...»
«Morgase ci serve ancora.» Interrompere Asunawa diede a Valda un grande piacere. Non gli piacevano gli Inquisitori, la Mano della Luce, come si facevano chiamare. Chi poteva apprezzare uomini che non incontravano mai un nemico se non disarmato e in catene? Si tenevano lontani dai Figli, separati. Sul mantello di Asunawa c’era solo il pastorale scarlatto degli Inquisitori, non il sole raggiato dei Figli che adornava il suo tabarro. Peggio ancora, gli Inquisitori parevano convinti che il lavoro con la ruota e le pinze roventi fosse il solo vero compito dei Figli. «Morgase ci darà Andor, quindi non ve la daremo prima di aver messo le mani su quel regno. E non potremo prendere Andor fino a quando non riusciremo a schiacciare la teppaglia del Profeta.» La precedenza spettava al Profeta, che predicava la venuta del Drago Rinato e, con la sua plebaglia, incendiava i villaggi restii a schierarsi con al’Thor. Il torace di Niall si sollevava a malapena, ormai. «A meno che tu non voglia barattare l’Amadicia con Andor invece di averle entrambe. Ho intenzione di vedere al’Thor impiccato e la Torre Bianca ridotta in polvere, Asunawa, e non mi sono unito al tuo piano solo per vederti mandarlo a monte in pieno svolgimento.»
Asunawa non fu colto alla sprovvista; non era facile intimorirlo. Non lì, con centinaia di Inquisitori nella Fortezza e quasi tutti i Figli attenti a non fare passi falsi con loro. Ignorò la spada fra le mani di Valda, e su quel volto da martire apparve un velo di tristezza. Le gocce di sudore sembravano lacrime di rammarico. «In questo caso, visto che il lord capitano Canvele crede che la legge vada rispettata, penso che...»
«Temo che Canvele sia d’accordo con me, Asunawa.» Lo era dall’alba di quel giorno, da quando si era accorto che Valda aveva portato mezza legione nella fortezza. Canvele non era uno sciocco. «La questione non è se io sarò il lord capitano Comandante col tramontare del sole, ma chi guiderà la Mano della Luce nella sua ricerca della verità.»
Asunawa non era un codardo, ed era persino meno sciocco di Canvele. Non tentennò, e non chiese nemmeno come Valda avesse intenzione di rendere concreta quella sua minaccia. «Capisco» rispose dopo un momento, quindi aggiunse sereno: «Vuoi ignorare la legge in tutto e per tutto, figlio mio?»
Valda scoppiò quasi a ridere. «Puoi vedere Morgase, ma non potrai sottoporla ai tuoi interrogatori fin quando non avrò finito con lei.» E per questo non sarebbe bastata una notte. Trovare un rimpiazzo per il trono del Leone, una donna che capisse qual era il suo giusto rapporto con i Figli della Luce come lo intendeva re Ailron in Amadicia, poteva richiedere del tempo.
Forse Asunawa lo capiva, e forse no. Aprì bocca, e dalla soglia giunse un sussulto. Era il segretario di Niall, nodoso e con il suo viso puntuto; teneva le labbra increspate e gli occhi socchiusi cercavano di guardare tutto tranne i corpi stesi al suolo.
«Un giorno triste, mastro Balwer» intonò Asunawa, con la voce dura ma addolorata. «Il traditore Omerna ha ucciso il nostro lord capitano Comandante Pedron Niall, che la Luce illumini la sua anima.» Non aveva alterato la verità. Il petto di Niall non si muoveva più, e ucciderlo era stato un tradimento. «Il lord capitano Valda è arrivato troppo tardi per salvarlo, ma ha ucciso Omerna proprio mentre commetteva il suo peccato.»
Balwer sobbalzò e incominciò a strofinarsi le mani.
Valda era irritato da quell’uomo simile a un uccello. «Visto che sei qui, Balwer, tanto vale che ti renda utile.» Non amava le persone inutili, e quello scrivano era l’inutilità fatta persona. «Porta questo messaggio a tutti i capitani comandanti nella Fortezza. Di’ loro che il lord capitano Comandate è stato ucciso e che convoco una riunione del Consiglio degli Unti.» Come prima cosa dopo essere stato eletto lord capitano Comandante, avrebbe cacciato quell’ometto rinsecchito dalla Fortezza, lo avrebbe scaraventato tanto lontano da farlo rimbalzare due volte e si sarebbe scelto un segretario meno irritante. «Che Omerna fosse al soldo delle streghe o del Profeta, intendo vendicare Pedron Niall.»
«Ai tuoi ordini, mio signore.» La voce di Balwer era secca e meschina. «Farò come ordini.» Alla fine riuscì a guardare il corpo di Niall; mentre se ne andava profondendosi in inchini spasmodici, non guardò altro che il cadavere.
«A quanto pare, sarai il prossimo lord capitano Comandante, dopo tutto» osservò Asunawa quando Balwer se ne fu andato.
«Così pare.» Rispose asciutto Valda. Vicino alla mano di Niall c’era una sottile striscia di carta, del tipo usato per i messaggi inviati con i piccioni viaggiatori. Valda si piegò e lo raccolse, poi emise un verso disgustato. Il rotolino era finito in una pozza di vino; qualsiasi cosa vi fosse stata scritta, era andata perduta. L’inchiostro era una macchia sfocata.
«E la Mano avrà Morgase quando lei non ti servirà più.» Non era affatto una domanda.
«Te la consegnerò io in persona.» Forse avrebbe potuto organizzare qualcosa in modo da soddisfare l’appetito di Asunawa per un po’. Poteva anche servire ad assicurare che Morgase continuasse a essere docile. Valda lasciò cadere il pezzo di carta ormai inservibile sul corpo di Niall. Col passare degli anni il vecchio lupo aveva perso scaltrezza e ardimento. Adesso toccava a Eamon Valda imbrigliare le streghe e il loro falso Drago.
Steso ventre a terra in cima a una collina, Gawyn osservava il disastro che si stendeva sotto il sole pomeridiano. I Pozzi di Dumai si trovavano chilometri a sud, oltre pianure ondulate e basse colline, ma ancora riusciva a vedere il fumo che saliva dai carri in fiamme. Non sapeva cosa fosse accaduto in quel luogo dopo che aveva condotto in salvo tutti i Cuccioli che era riuscito a riunire.
Al’Thor stava vincendo, lui e quegli uomini in giubba nera che a quanto era parso stavano incanalando, abbattendo Aes Sedai e Aiel allo stesso modo. Gawyn aveva capito che era giunto il momento di allontanarsi quando aveva visto delle Sorelle fuggire.
Gli sarebbe piaciuto uccidere al’Thor. Lo avrebbe fatto per vendicare la morte di sua madre: Egwene negava che fosse stato Rand, ma non aveva prove. E lo avrebbe fatto per sua sorella. Se Min aveva detto la verità — avrebbe dovuto costringerla a lasciare l’accampamento insieme a lui, anche se la ragazza non voleva; erano troppe le cose che avrebbe dovuto fare in maniera diversa quel giorno —, se Min aveva ragione ed Elayne amava al’Thor, quel destino terribile era un motivo sufficiente per ucciderlo. Forse l’avevano fatto gli Aiel per lui. Ma ci sperava poco.
Sollevò il cannocchiale con una risata amara. Su una delle bande dorate era incisa un’iscrizione: ‘Da Morgase, regina di Andor, al suo adorato figlio, Gawyn. Che sia sempre una spada vivente in difesa di sua sorella e di Andor.’ Quelle parole adesso erano tristi.
Non c’era molto da vedere oltre l’erba secca e i piccoli gruppi di alberi sparsi. Il vento ancora soffiava, alzando ondate di polvere. Di tanto in tanto, un movimento in una fenditura tra bassi crinali gli suggeriva la presenza di uomini in marcia. Aiel, ne era sicuro. Si confondevano troppo bene con il paesaggio per essere dei Cuccioli in giubba verde. Che la Luce volesse che se ne fossero salvati altri, a parte quelli che lui aveva condotto in ritirata.
Si sentiva uno sciocco. Avrebbe dovuto uccidere al’Thor. Doveva ucciderlo, ma non ci riusciva. Non perché quell’uomo era il Drago Rinato, ma perché aveva promesso a Egwene di non alzare un dito contro di lui. Egwene era svanita da Cairhien come un’umile Ammessa, lasciandogli solo una lettera che aveva letto e riletto fino a consumare la carta lungo le linee della piegatura, e non sarebbe rimasto sorpreso se avesse scoperto che era andata ad aiutare al’Thor in qualche modo. Gawyn non poteva infrangere una promessa, men che mai una fatta alla donna che amava. Qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare, avrebbe mantenuto la parola data. Sperava che Egwene avrebbe accettato il compromesso che lui aveva fatto con il proprio onore: non aveva alzato un dito per fare del male ad al’Thor, ma nemmeno per aiutarlo. La Luce volesse che Egwene non gli chiedesse mai una cosa simile. Si diceva che l’amore faceva marcire il cervello di un uomo, e lui ne era la prova.
A un tratto si schiacciò il cannocchiale contro l’occhio: una donna si era lanciata al galoppo in sella a un grande cavallo nero, allo scoperto. Non riuscì a scorgerne il viso, ma nessuna servitrice poteva indossare un abito diviso per cavalcare. Quindi almeno una delle Aes Sedai era riuscita a fuggire. Se le Sorelle erano uscite vive da quella trappola, forse ce l’avevano fatta anche altri Cuccioli. Con un po’ di fortuna li avrebbe trovati prima che venissero uccisi in piccoli gruppi dagli Aiel. Ma per ora doveva risolvere la questione di quella Sorella. Per molti versi avrebbe di gran lunga preferito proseguire senza di lei, ma non poteva permettersi di lasciarla lì da sola, magari per essere trafitta da una freccia che non avrebbe neppure visto arrivare. Mentre lui si alzava per farle cenno con un braccio, il cavallo inciampò e cadde, facendola volare sopra la propria testa.
Gawyn imprecò, e lo fece di nuovo quando il cannocchiale gli mostrò una freccia che spuntava dal fianco del cavallo. Ispezionò velocemente le colline e soffocò un’altra imprecazione; circa venti Aiel velati erano in piedi su una cresta e fissavano il cavallo e l’Aes Sedai, a meno di cento passi di distanza. Subito Gawyn si guardò alle spalle. La Sorella si alzò barcollante. Se avesse mantenuto il controllo e usato il Potere, quei pochi Aiel non avrebbero potuto farle del male in alcun modo, soprattutto se si fosse nascosta dietro al cavallo per evitare altre frecce. Ciò nonostante, lui si sarebbe sentito meglio una volta che l’avesse portata al sicuro. Si allontanò dal promontorio per evitare che gli Aiel lo vedessero e scivolò dal pendio opposto fino a quando poté alzarsi.
Era partito verso sud portando con sé cinquecentottantuno Cuccioli, quasi tutti quelli che avevano avuto un addestramento sufficiente a lasciare Tar Valon, ma adesso nella vallata lo aspettavano meno di duecento uomini a cavallo. Prima che i Pozzi di Dumai fossero travolti dal disastro, Gawyn aveva saputo con certezza che c’era un complotto per uccidere lui e i Cuccioli e non farli tornare alla Torre Bianca. Non ne conosceva il motivo, né sapeva se il piano fosse di Elaida o Galina, ma era stato abbastanza efficace, anche se non proprio nel modo in cui era stato progettato. Non c’era da meravigliarsi se avesse preferito non avere la compagnia delle Aes Sedai, potendo scegliere.
Si fermò vicino a un alto castrone grigio e al giovane che lo cavalcava. Giovane, come lo erano tutti i Cuccioli — molti ancora avevano bisogno di radersi ogni tre giorni, e alcuni lo facevano solo per darsi delle arie — ma Jisao aveva sul colletto la torre d’argento che lo denotava come veterano dei combattimenti scoppiati quando Siuan Sanche era stata deposta, e una serie di cicatrici su tutto il corpo per tutti gli scontri che erano seguiti dà allora. Era uno di quelli che poteva fare a meno di radersi il più delle volte, ma gli occhi scuri erano quelli di un uomo di trent’anni più vecchio. Gawyn si chiese come apparissero i suoi occhi.
«Jisao, c’è una Sorella che dobbiamo tirare fuori da...»
I circa cento Aiel che superarono correndo la bassa collina a ovest ebbero un attimo di sorpresa quando trovarono i Cuccioli nella vallata sottostante, ma né la sorpresa né la superiorità numerica dei Cuccioli furono sufficienti a trattenerli. Calarono i veli in un lampo e si precipitarono lungo il pendio, facendo scattare le lance e infilzando cavalli e persone, muovendosi in coppie. Tuttavia, se gli Aiel avevano imparato a combattere contro gli uomini a cavallo, di recente i Cuccioli avevano avuto dure lezioni su come combattere contro gli Aiel, e quelli lenti ad apprendere non vivevano a lungo nelle loro fila. Alcuni avevano delle lance sottili, che terminavano in una lunga punta d’acciaio munita di crociera per evitare che la lama penetrasse troppo a fondo, e tutti erano in grado di maneggiare la spada quasi con la stessa perizia di un mastro spadaccino.
Combattevano in gruppi di due o tre, guardandosi le spalle a vicenda e mantenevano i cavalli in movimento in modo che i nemici non potessero azzopparli. Solo gli Aiel più veloci riuscivano a entrare in quei vortici di acciaio. Anche i cavalli da combattimento erano delle vere e proprie armi, spaccavano crani con gli zoccoli, afferravano gli uomini con i denti e li scuotevano come fanno i cani con i topi, squarciavano facce con le loro fauci. I cavalli nitrivano durante il combattimento e gli uomini sbuffavano per lo sforzo e gridavano in preda a quella febbre che travolge i soldati in battaglia, quella febbre che li dichiarava ancora vivi e pronti a sopravvivere per vedere una nuova alba, anche se avrebbero dovuto guadare fiumi di sangue. Gridavano mentre uccidevano, gridavano mentre morivano. Non sembrava vi fosse una gran differenza.
Ma Gawyn non aveva tempo di guardare o ascoltare. Era il solo Cucciolo a piedi, e attirava l’attenzione. Tre figure vestite di cadin’sor schivarono gli uomini a cavallo caricandolo con le lance sollevate. Forse lo credevano una facile preda, tre contro uno, ma Gawyn li disilluse. La spada lasciò il fodero muovendosi fluida, e con la stessa fluidità lui passò da Il falco in picchiata a Il rampicante abbraccia la quercia, per poi finire con La luna sorge sui laghi. Per tre volte Gawyn sentì nel polso l’urto della lama che penetra la carne e in breve gli Aiel velati furono a terra; due ancora si muovevano debolmente, ma erano fuori combattimento come l’altro, immobile. Il quarto che lo affrontò fu un avversario più duro.
Un uomo magro e di un palmo più alto di lui, si muoveva come un serpente, la lancia danzava mentre lo scudo scattava in avanti e respingeva i colpi della spada con una forza che Gawyn sentiva fin nelle spalle. La danza del gallo cedrone divenne Ripiega l’aria che a sua volta si trasformò in La cortigiana agita il ventaglio e l’Aiel sostenne tutti e tre gli attacchi riportando solo un taglio lungo le costole, mentre Gawyn ricevette uno squarcio su una coscia e grazie a un rapido movimento evitò che la lancia trapassasse la gamba da parte a parte.
Giravano in tondo, inconsapevoli di ciò che accadeva intorno a loro. Il sangue colava caldo lungo la coscia di Gawyn. L’Aiel fece una finta sperando di farlo sbilanciare, poi ne fece un’altra. Gawyn passava da una posizione all’altra, la spada ora alta ora bassa, sperando che l’uomo azzardasse un affondo un po’ più profondo.
Alla fine fu il caso a risolvere il duello. All’improvviso, l’Aiel inciampò e Gawyn gli trapassò il cuore prima ancora di vedere il cavallo che l’aveva spinto da dietro.
Un tempo avrebbe provato rimpianto; era cresciuto credendo che se due uomini combattevano, dovevano sfidarsi con onore e correttezza. Più di sei mesi di battaglie e schermaglie gli avevano impartito insegnamenti diversi. Appoggiò un piede sul petto dell’Aiel e tirò via la spada. Un gesto non molto cavalleresco, ma rapido, e in battaglia la lentezza spesso significava morte.
Solo quando ebbe liberato l’arma si accorse che non c’era più bisogno di essere veloci. Gli uomini erano a terra, Cuccioli e Aiel, alcuni si lamentavano, altri erano immobili, e gli Aiel superstiti si stavano dirigendo velocemente verso est, inseguiti da una ventina di Cuccioli, inclusi alcuni che avrebbero dovuto sapere che non era una mossa intelligente. «Fermi!» gridò Gawyn. Se quegli idioti si fossero separati dal resto del gruppo, gli Aiel li avrebbero fatti a pezzi.. «Nessun inseguimento! Fermi, ho detto! Fermi! Che siate folgorati!» I Cuccioli si arrestarono con riluttanza.
Jisao fece girare il suo castrone. «Pensavano di aprirsi un varco fra di noi per raggiungere la loro meta, qualsiasi fosse, mio signore.» La sua spada era imbrattata di sangue.
Gawyn afferrò le redini dello stallone baio e montò in sella, senza fermarsi a pulire e rinfoderare la spada. Non c’era tempo neppure per controllare chi fosse morto e chi sopravvissuto. «Dimenticatevi di loro. Quella Sorella ci sta aspettando. Hal, rimani con la tua truppa per controllare i feriti e tenete d’occhio anche quegli Aiel; solo perché stanno morendo non significa che si arrenderanno. Il resto mi segua.» Hal lo salutò con la spada, ma Gawyn aveva già affondato gli speroni nei fianchi del suo cavallo.
La schermaglia non era durata molto, ma era comunque stata troppo lunga. Quando Gawyn raggiunse la cresta vide solo il cavallo morto e le bisacce da sella capovolte. Guardò con il cannocchiale ma non trovò segno della Sorella, degli Aiel o di qualsiasi altro essere vivente. Le sole cose in movimento erano le nuvole di polvere e un vestito che sventolava a terra vicino al cavallo. La donna doveva aver corso per scomparire così in fretta.
«Non può essere andata lontano, anche correndo» osservò Jisao. «Possiamo trovarla, se ci sparpagliamo.»
«La cercheremo dopo aver accudito i feriti» rispose Gawyn con fermezza. Non avrebbe separato i suoi uomini con gli Aiel in giro. Mancavano poche ore al tramonto, e prima di sera lui voleva montare il campo su una collina. Gli avrebbe fatto comodo trovare una Sorella o due: qualcuno avrebbe dovuto spiegare questa catastrofe a Elaida e preferiva che fosse un’Aes Sedai ad affrontare la sua ira, non lui.
Fece voltare il cavallo baio sospirando e tornò indietro per vedere quale conto aveva lasciato questa volta il macellaio. Era stata la sua prima vera lezione da soldato. Bisogna sempre pagare il macellaio. Aveva la sensazione che presto ci sarebbero stati conti assai più cari. Con le incombenti tragedie, il mondo avrebbe dimenticato i Pozzi di Dumai.