Un contadino di nome Wayne Sochsteiffer si svegliò nel sentire la radio trasmettere le notizie del mattino della WGN, sbadigliò, si stiracchiò, e andando alla finestra si chiese se avrebbe dovuto annaffiare il campo a nord, coltivato a fagioli. Ma quando fu dinnanzi alla finestra dalla bocca gli scaturì un rantolo di sorpresa. Il campo a nord non c’era più. Ciò che vide al suo posto era una distesa di cemento, recintata, abbastanza larga da poterci posteggiare un centinaio di macchine, e un edificio basso e lungo su cui campeggiava l’insegna: «NISSAN MOTORS — Concessionaria e Ricambi».

A quel Wayne Sochsteiffer venne quasi un colpo per la sorpresa.

Quel Wayne Sochsteiffer non provò tuttavia una sorpresa paragonabile a quella di un altro contadino, anch’egli di nome Wayne Sochsteiffer, che si svegliò nello stesso modo, guardò fuori dalla stessa finestra e vide proprio quel che si aspettava di vedere: il suo campo a nord, verde di pianticelle di fagioli nella luce del mattino. La sorpresa l’ebbe quando tornò a voltarsi verso il letto matrimoniale e vide, addormentata fra le lenzuola, una donna che non assomigliava neppure minimamente a sua moglie.


22 Agosto 1983
Ore 4,20 del mattino — Senatore Dominic DeSota

Il personale della Casa dei Gatti sembrava non aver notato che eravamo nel mezzo della notte. Per il prigioniero le cose stavano diversamente: dormiva della grossa. Il sergente telefonò dal reparto detenzione per informarci che l’uomo chiedeva il permesso di andare al gabinetto e farsi una doccia prima d’essere interrogato. — Perché no? — dissi, quando il colonnello Martineau mi gettò un’occhiata. — Non m’importa molto di veder vilipesa la mia autorevole persona. Specialmente da me stesso.

Lui aprì la bocca e rise in silenzio. Era quel genere di risatina che dedichereste a un controsenso, non a una battuta. Diede il permesso e ordinò del caffè, sia per noi che per il prigioniero, quindi ci mettemmo a sedere e nell’attesa ci fissammo l’un l’altro.

Sembrava che non ci fosse molto da dire.

Avremmo potuto parlare della persona che sembrava me, ma entrambi avevamo sviluppato l’abitudine di non parlare dei Gatti. In effetti non usavamo mai neppure quel termine, se non durante ristrettissime riunioni confidenziali. Per quanto ne potevo sapere la parola stessa non era mai apparsa né in documenti né in altre registrazioni. Era il segreto meglio custodito che vi fosse in tutte le diverse installazioni per le ricerche segrete americane. E si trattava di un segreto tale che ancora stentavo a credere che fosse vero.

Sandia non poteva definirsi un’installazione segreta. C’erano gli impianti di ricerca sull’energia solare, visibili a chiunque: occupavano oltre la metà dei mille acri su cui si estendeva la Base. La sezione Armi Nucleari esisteva e non era un segreto… lo era solo ciò che accadeva nel suo interno. Il mondo intero sapeva che da lì uscivano bombe «pulite» e testate per missili autopilotati.

A parte questo, nessuno sapeva altro. O almeno, si supponeva che nessuno sapesse che a Sandia si facevano anche ricerche di un genere molto più pericoloso. C’era una piccola sezione che studiava le modifiche artificiali del clima, come un’arma con cui annientare l’agricoltura di un eventuale paese nemico. E un’altra esplorava le possibilità della guerra genetica. Geni e cromosomi. Gli agenti che cercavano di sviluppare non erano chimici o batteriologici, da seminarsi sul territorio. Erano distruttori selettivi del DNA. Il loro scopo avrebbe dovuto essere quello di far nascere in un paese nemico bambini deboli o idioti.

Io ero solito giustificare me stesso dicendomi che, per quanto mi apparisse disgustoso e immorale, sembrava che quelle ricerche non avrebbero mai approdato a risultati concreti.

Poi c’era la sezione Spionaggio-Psi. Perfino più abnorme, perfino più dubbia. All’interno dell’edificio della sezione Spionaggio-Psi tenevamo un gregge d’individui dei due sessi, una ventina in totale, fra gli otto e i diciotto anni, tutti quanti molto strani. Ciascuno di loro dichiarava di avere una speciale capacità. Ce n’erano alcuni con proprietà «extracorporee», che dicevano di poter lasciare il proprio corpo e trasferirsi in un altro, anche distante migliaia di miglia, per vedere e udire con occhi e orecchi altrui. Meraviglioso! Costoro avrebbero potuto scorrazzare in ogni base nemica e risucchiarne fuori tutti i segreti meglio custoditi! Alcuni di loro affermavano d’averlo già fatto, sebbene dovessimo ancora vederlo un segreto che ci servisse a qualcosa, o che — quanto a questo — potesse servire a chiunque altro.

L’intero carrozzone di queste ricerche mi trovava molto ma molto scettico. Parte del motivo era puro e semplice cinismo. I sedicenti individui Psi erano maledettamente «sedicenti», e avevano la noiosissima abitudine di barare sui test. Se venivano pescati con le mani nel sacco una volta si beccavano una punizione. Alla seconda venivano sbattuti fuori. E prima o poi tutti facevano quella fine. Questo però non scoraggiava il personale che mandava avanti la sezione Spionaggio-Psi. Appena decidevano che uno dei soggetti era un truffatore e lo toglievano di torno, i loro talent-scout ne trovavano un altro in qualche paesino sperduto dell’Idaho o dell’Alabama e ce lo rifilavano per esaminarlo… senza interruzione, fino alla nausea.

L’altra ragione per cui ero scettico non era di carattere cinico. Al contrario, era tale che gli altri membri del comitato mi tacciavano d’idealismo quando ne accennavo.

Non volevo credere che avessimo veramente dei nemici.

Oh, i giapponesi e i tedeschi, certo. Erano in effettiva competizione con noi, e i nostri industriali e uomini d’affari li odiavano come Catone aveva odiato Cartagine. Ci facevano una concorrenza feroce sul mercato internazionale, ma volevamo forse dichiarar loro guerra? Per «nemico» io posso intendere solo un sanguinario guerrafondaio, come lo erano stati Hitler e Stalin decenni addietro. Ma erano scomparsi… a dire il vero nel corpo diplomatico russo c’era un nipote di Stalin, con cui facevo qualche mano di poker quando me la sentivo di correre il rischio. Un gran bravo tipo. Nemici di quel genere, mortali e irriducibili, semplicemente non esistevano. Questo non era stato tanto per merito della nostra saggezza e tolleranza quanto per la fortuna, naturalmente: se qualche anno prima la Guerra Fredda fosse diventata di pochi gradi più calda, sarebbe accaduto qualcosa di brutto. Ma ci eravamo salvati quando i russi e i cinesi avevano deciso di dirimere le loro controversie con la Guerra dei 40 Minuti. S’erano fermati molto prima d’aver lanciato tutti i loro missili atomici, ma dopo quell’evento né gli uni né gli altri erano in grado d’essere più un nemico per chiunque. Il loro solo problema era adesso di trovar qualcuno disposto a prestargli qualche dollaro, per non cadere ancora più in basso.

Per tutte queste ragioni sarebbe potuto sembrare incomprensibile che noi del Comitato per gli Armamenti e Ricerche non avessimo mai cercato di tagliare i fondi a sezioni tipo quella dello Spionaggio-Psi. C’era però una serie di motivi. Il primo era che progetti del genere costavano talmente poco che la questione non si poneva. Dato che la politica di base degli U.S.A. era di mantenere forti capacità difensive — e col Presidente Reagan alla Casa Bianca non c’erano dubbi su questo — doveva esserci qualcosa di equivalente a Sandia in ogni modo. Se lo Spionaggio-Psi e la guerra genetica e la Casa dei Gatti erano un totale spreco di denaro (come avevo sempre pensato che fossero) la spesa complessiva era sempre così bassa che quasi non meritava una seduta per decidere di mettervi fine. La sezione Psi e la Casa dei Gatti, messe insieme, in un anno costavano meno che attrezzare un silos per un missile.

E se mai da una di quelle sezioni fosse venuta fuori l’effettiva possibilità di una nuova arma…

Be’, il potenziale sarebbe stato semplicemente enorme, in specie per quel che riguardava la Casa dei Gatti.

La Casa dei Gatti aveva preso il nome da una teoria chiamata il Gatto di Schroedinger. Cos’era il gatto di Schroedinger? Ebbene, disse il fisico che avevamo chiamato a farci una relazione, Schroedinger era quello che aveva scoperto una cosa chiamata «Meccanica dei quanta». Ah, certo, ma cos’era la meccanica dei quanta? Be’, disse il fisico, in pratica si trattava di un nuovo tipo di approccio alla struttura delle particelle atomiche. Quando lesse nelle espressioni degli uomini politici del Comitato che quella spiegazione non spiegava loro un bel niente, continuò col dire che Schroedinger aveva scoperto che l’energia, ad esempio, non scorreva in un flusso continuo e uniforme come l’acqua da un rubinetto (benché, si corresse, il flusso dell’acqua fosse uniforme solo in apparenza, in quanto era composto da molecole, atomi e altre particelle ancora più piccole). L’energia dunque non scorreva in un flusso, bensì in pacchetti d’onde chiamati quanta. Il quanta di luce era il fotone. Ebbene, noialtri senatori cominciammo a sentirci su un terreno un tantino più solido lì, perché chiunque aveva sentito parlare dei fotoni. Ma subito egli spazzò via i nostri sorrisetti d’assenso tirando in ballo i gatti. Cos’avevano a che fare i felini con quella faccenda? Be’, disse il fisico, si trattava di una specie di esperimento immaginario che Schroedinger aveva proposto: vedete, c’è quest’altra cosa chiamata il Principio d’Indeterminazione di Heisenberg. E che diavolo era, ma in parole povere, il Principio d’Indeterminazione di Heisenberg? Be’, disse lui, agitandosi a disagio sotto gli occhi di chi teneva i cordoni della borsa, questo era un po’ più complicato da spiegare…

Su questo aveva torto marcio. Non era per niente arduo da spiegare. Era soltanto arduo da capire. Comunque, a sentire Heisenberg, voi non potevate vedere insieme la posizione e il movimento di una particella. Potevate sapere dov’era, oppure dove stava andando. Non entrambe le cose contemporaneamente.

Peggio ancora, esistevano domande a cui non solo non potevate dare una risposta, ma a cui non c’era la risposta, e detto questo tornammo al gatto. Supponiamo, aveva proposto Schroedinger, che voi mettiate un gatto dentro una scatola. Supponiamo che voi mettiate insieme al gatto una particella radioattiva, la quale abbia esattamente una probabilità su due di scindersi. E supponiamo che nella scatola, col gatto e il radionucleo, ci mettiate un tubo del gas con un rubinetto a interruttore il quale si apra se la particella si scinde. A questo punto non vi resta che guardare la scatola chiusa dall’esterno e domandarvi se il gatto è vivo o è morto. Se la particella si è scissa è morto. Se non si è scissa il rubinetto del gas non si è aperto e il gatto è vivo.

Ma dal di fuori non c’è modo di vedere quale delle due cose è accaduta. Dal di fuori potete solo dire a voi stessi che ci sono cinquanta probabilità su cento che il gatto sia vivo.

Però un gatto non può essere vivo al cinquanta per cento.

Così, disse il fisico trionfante, girando su di noi uno sguardo di compiacimento per aver reso tutto tanto chiaro, la realtà è che entrambe le cose sono vere. Il gatto è vivo. Il gatto è morto. Ma ognuna di queste realtà è vera in un differente universo. Al momento della verità l’universo si scinde in due come un’ameba: e da lì in poi, per sempre, i due universi saranno entrambi reali e paralleli. Un universo dove il gatto è vivo, e un universo dove il gatto è morto. Inoltre viene a crearsi un altro universo ogni volta che si verifica una reazione subatomica dello stesso genere… perché essa avviene e non avviene contemporaneamente, e gli universi si scindono l’uno dall’altro senza fine.

A questo punto il senatore Kennedy s’era schiarito la gola. — Dottor Fass — aveva detto. — Mmh, tutto questo è molto interessante. Come esercizio di speculazione, voglio dire. Ma nell’universo reale noi apriamo la scatola e così vediamo se il gatto è vivo o morto.

— No, no, senatore! — aveva esclamato il fisico. — No, questo è completamente falso. Ambedue le cose sono accadute!

Ci eravamo guardati l’un l’altro. — In senso matematico, intendete dire? — aveva azzardato Kennedy.

— In ogni senso! — era stato il grido di Fass. — Questi universi paralleli, che si creano milioni alla volta ogni microsecondo, sono «reali» esattamente come quello in cui io sono qui a farvi la mia relazione. Oppure, se vogliamo dirla nel modo opposto, l’universo abitato da noi è immaginario né più né meno nella misura in cui lo sono tutti gli altri.

Di nuovo ci eravamo guardati senza aprir bocca, tutti e diciotto, senatori e congressisti provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti, domandandoci se quest’uomo credeva in quel che diceva, qualunque cosa stesse dicendo. Un congressista del New Jersey m’aveva sussurrato all’orecchio: — Tu vedi qualche applicazione militare in questo, Dom?

— Chiediglielo tu stesso — era stato il mio suggerimento. Ma alla domanda del congressista il fisico aveva sollevato le braccia stupefatto.

— Vi prego di scusarmi, signori — aveva esclamato. — E anche signore, voglio dire — s’era corretto, annuendo verso la senatrice Byrne. — Credevo che questo fosse già chiaro. Bene. Supponiamo che vogliate distruggere con una bomba H una città, o un’installazione militare, o qualunque altra cosa in qualunque punto del globo. Portate la bomba in uno degli universi paralleli, volate fino alla latitudine e longitudine di… che so, Tokio, o del posto che intendete colpire, dopodiché tornate nel nostro universo e innescate il detonatore. Boom! Il nemico è andato. Se avete diecimila bersagli… quante che siano le basi missilistiche sul territorio nemico, costruite diecimila bombe e le piazzate in loco contemporaneamente. Non può esserci difesa contro un’azione simile. Il nemico non può vedervi arrivare, per il semplice motivo che nel loro universo voi non state arrivando… finché non apparite lì.

E s’era appoggiato alla spalliera della sedia, definitivamente compiaciuto di se stesso.

Anche noi c’eravamo appoggiati alle spalliere delle sedie. Ci eravamo guardati l’un l’altro. Ma non credo che qualcuno di noi fosse veramente compiaciuto.

Quella proposta non sarebbe stata sufficiente a convincere il comitato a spendere soldi, se non fosse stato per un fatto. Come ho già detto, se quel programma non avesse funzionato — cosa che tutti noi pensavamo, e che molti di noi speravano — la perdita di fondi sarebbe stata irrilevante. Perché quella faccenda, come lo Spionaggio-Psi, era assai poco costosa.


Ebbene, finalmente condussero quell’uomo in sala riunioni, e devo confessare che fu una delle più spiacevoli esperienze della mia vita. Non dolorosa. Non intollerabile. Semplicemente poco piacevole, sotto tutti gli aspetti.

Come molti uomini anch’io detesto fare acquisti. Soprattutto acquistare abiti. E uno dei principali motivi è perché non mi piacciono quegli specchi a tre ante che hanno nei negozi di confezioni. Sono oggetti odiosi, il cui scopo è di cogliervi impreparati. Voi siete lì che vi provate un completo; il commesso si complimenta con sfacciate menzogne proclamando che sembra tagliato apposta per la vostra elegante persona; vi sentite invitare nell’angolo dove questi tre alti specchi sono attaccati insieme come un trittico medievale. Guardate dentro di essi con ingenua obbedienza e la prima cosa che vedete è il vostro profilo: inevitabilmente vi occorre qualche secondo per capire che costui siete voi. In quanto a me, faccio volentieri a meno di studiare il mio profilo, anzi considero l’idea quasi oscena. Non è questo il modo in cui Dio intendeva che guardassi me stesso, e la prova di ciò è che quando mi guardo di profilo mi vedo decisamente antiestetico e sgradevole. Stento molto a riconoscere quell’individuo dal sorriso melenso, con quel buffo naso e il mento sporgente. Come abbia fatto a capitare dentro uno specchio che dovrebbe riflettere me è sempre un grande mistero… Ciò malgrado non perdo il contatto con la realtà: so che quel personaggio sono io. Solo che avrei preferito non saperlo.

Questa è l’esperienza che ebbi anche nella Casa dei Gatti, a Sandia.

Quando portarono dentro quell’uomo lui non mi guardò. Non guardava nessuno. Gli era stato impedito di asciugarsi la faccia, cosa che da sé non avrebbe potuto fare comunque perché aveva le mani legate dietro la schiena. Forse il motivo per cui camminava a testa china era che temeva d’inciampare. Ma non lo credetti. Fui certo che il motivo era un altro: sapeva che se avesse alzato il capo si sarebbe trovato a guardare i suoi stessi occhi. O i miei. I nostri.

Detestai la situazione all’istante.

Era mille volte peggio che guardarsi in uno specchio a tre ante. E il disagio fu tale che mi colse impreparato.

Costui aveva la mia faccia, i capelli del mio identico colore, perfino la stessa sfoltitura sulla sommità del cranio. Ogni particolare. O meglio quasi ogni particolare, perché c’erano lievi differenze: doveva avere due o tre chili meno di me, e indossava un abito che non somigliava per nulla ai miei. Era una sorta di tuta a un pezzo, di una stoffa lucida color verde scuro, con parecchie tasche sul torace e altre, suddivise in sezioni, sui lati dei pantaloni. Aveva tasche perfino sulle maniche e lungo la gamba destra. Forse avevano contenuto documenti e oggetti dell’altro me stesso, ma in quel momento erano vuote. Senza dubbio gli uomini del colonnello lo avevano rivoltato come un guanto.

Feci lo sforzo di dire: — Dominic, guardami.

Silenzio. L’altro Dominic non rispose, non alzò gli occhi e non fece nulla, anche se una lievissima inclinazione della testa m’informò che aveva sentito benissimo. Nessun altro nel locale aveva aperto bocca. Il colonnello stava zitto e attento, e quando il colonnello Martineau stava zitto e attento i suoi uomini facevano lo stesso.

Ci provai di nuovo: — Dominic! Per amor di Dio, dimmi cosa sta succedendo!

L’altro io tenne lo sguardo sul pavimento ancora per un poco. Poi lo rialzò, ma non verso di me. Sorvolano la testa di Martineau, fissò sull’orologio appeso alla parete, come se facesse un calcolo. Finalmente si volse a me e parlò: — Dominic — disse. — Per amor di Dio, non posso dirtelo.

Non era una risposta soddisfacente. Il colonnello Martineau fece per dire qualcosa ma lo azzittii con un gesto. — Per favore — chiesi.

L’altro me stesso ebbe una smorfia rammaricata. — Be’, Dom, vecchio mio, a esser franco il motivo per cui sono qui è che volevo dirti una cosa. A te — precisò. — E per «te» non intendo la seconda persona singolare o altre persone estranee a me stesso. Intendo te-Dominic-DeSota, che come sai bene, sei me.

Il colonnello aveva stretto i denti con ferocia, ma non lo lasciai parlare. — Ah, Dom! — dissi, tristemente. — Giochi di questo genere m’ero augurato di non doverli giocare mai. Ma, a parte la cosa in se stessa, perché non vuoi parlarmene?

— Perché è troppo tardi, Dom — disse.

— Troppo tardi, santo cielo, per cosa?

— La cosa di cui intendevo avvertirti. Non lo sai?

— Io non so niente!

— Ma dovresti. Sta accadendo. E la prossima volta che ci incontreremo, tu ed io… — ebbe la smorfia di un sorriso, quasi addolorato. — Non saremo tu ed io a incontrarci. — Tacque, parve sul punto di parlare ancora, esitò, gettò uno sguardo all’orologio…

E in quell’istante scomparve.

Quando dico «scomparve» uso il termine alla lettera, ma non vorrei dare un’immagine sbagliata. L’altro Dominic DeSota non «scomparve» dietro qualcosa o fuori dalla porta. Non divenne sempre più trasparente come un attore in uno show di fantascienza alla TV. Scomparve veramente. Un momento prima era lì. Un momento dopo non c’era più.

E le manette, chiuse ormai soltanto intorno all’aria, caddero sul pavimento dove lui aveva poggiato i piedi.


Cose del genere non fanno parte della vita di un normale essere umano. Non disponevo di alcuna reazione psichica già bell’e pronta, per fronteggiare una flagrante violazione delle leggi naturali, e lo stesso poteva dirsi per il colonnello Martineau. Lui mi fissò. Io lo fissai.

Nessuno commentò quella sparizione, a meno che «Merda-santa!» non si possa chiamare un commento. Mi parve che quel sussurro fosse uscito dai denti del colonnello.

— Hai un’idea di quel che stava dicendo, colonnello? — chiesi, tanto per esser sicuro. — No? Già, penso di no. Bene. Adesso cosa facciamo?

— All’inferno se lo so, senatore! — ringhiò. Ma per quanto a un ufficiale in comando sia permesso dire una cosa simile, non gli è permesso «non sapere» cosa fare. Abbaiò un ordine al sergente, istruendolo sul fatto che l’altro me stesso andava immediatamente ricercato. Il sergente esibì un’espressione confusa, visto che né noi né lui vedevamo minimamente l’utilità della cosa, e il colonnello sospirò rassegnato. — Si dia da fare, sergente — disse, e lo seguì con gli occhi mentre usciva. Poi si girò verso di me. — Be’, un elemento lo abbiamo. Ha detto che, qualunque cosa sia, sta già accadendo. Perciò non ci vorrà molto per scoprire di che razza di faccenda si tratta.

— Mi auguro che non sia nulla di spiacevole — borbottai.

Ma quando la cosa accadde, dieci minuti più tardi, fu chiaro che non era piacevole in nessun modo possibile. Eravamo usciti dall’ufficio, incamminandoci nel corridoio con alle calcagna il piccolo distaccamento di truppe del colonnello a passo di marcia, tutti con le divise estive e tutti chiedendosi dove poteva esser finito il prigioniero. E fuori dall’edificio vedemmo venire verso di noi un altro gruppo di militari, all’incirca una dozzina. Anche loro marciavano al passo, ma non portavano uniformi estive: quelle che avevano addosso erano tute da combattimento, e appese alla spalla avevano stranissime carabine a canna corta, d’aspetto micidiale.

— Stop! — latrò un graduato quando furono a una decina di metri da noi. Il drappello si schierò orizzontalmente. Gli uomini misero un ginocchio a terra e imbracciarono le carabine, puntandole dritte su di noi.

Un ufficiale lasciò il distaccamento e si fece avanti. — Merdasanta! — ansimò ancora il colonnello Martineau, e non ebbi bisogno di chiedergli il perché.

L’uomo indossava la stessa tenuta da combattimento degli altri, ma si poteva ipotizzare che fosse un ufficiale perché impugnava una pistola invece della carabina. E c’era qualcos’altro che avrei potuto dire di lui se ne avessi avuto il fiato. Comunque lo confermò quando aprì bocca. — Sono il Maggiore Dominic DeSota, dell’Esercito degli Stati Uniti — disse, con una voce che conoscevo fin troppo bene. — E voi siete miei prigionieri di guerra.

Quelle parole furono scandite con chiarezza, ma nella sua voce c’era una nota un po’ stranita. Sapevo perché. L’intimazione era indirizzata al colonnello, mentre gli occhi dell’uomo erano inchiodati su di me, e anche quell’espressione m’era familiare. Era l’espressione che avevo anch’io. Dissi: — Salve, me stesso. — Lo vidi accigliarsi. — Credevo che tu fossi scomparso. Di che si trattava, allora? Era tutto uno scherzo?

Lui fece un cenno col capo a uno dei soldati, che corse avanti e mi agguantò per le braccia unendomele a viva forza dietro la schiena. Sentii una morsa fredda attorno ai polsi e compresi d’esser stato ammanettato. — Non capisco cosa tu voglia dire con «scomparso» — esclamò l’altro me stesso. — Ma questo non è uno scherzo. Consideratevi tutti sotto custodia protettiva.

— A che scopo? — sbottò il colonnello, porgendo malvolentieri i polsi alle manette.

— Soltanto finché non avremo chiarito le cose col vostro governo — ci rassicurò l’altro me stesso. — Vogliamo spiegare loro cosa devono fare, e voi rimarrete nostri prigionieri fino al momento in cui si dichiareranno d’accordo. Vi conviene star calmi. Se la cosa non vi piace, ovviamente, avete sempre un’altra scelta: fare resistenza. Dopodiché non sarete più prigionieri, sarete soltanto dei cadaveri.

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