All’età di settantatré anni Timothy McGarren era il portiere notturno dei Lakeshore Tower Apartments. Era stato assunto lì il giorno dell’inaugurazione, lo stesso giorno in cui la direzione della metropolitana lo aveva messo in pensione, ovverosia dieci anni prima. Aveva fatto il percorso dal marciapiede esterno alla porta dell’ascensore tante di quelle volte che avrebbe potuto rifarlo dormendo, o camminando all’indietro. E in realtà lo faceva spesso. Quella sera, infatti, dopo aver tenuto aperta la porta per la vecchia e generosa Mrs. Spiegel, del 26-A, indietreggiò di sei passi. Esattamente fino alla base delle scale. Solo che le scale non erano lì a urtare il suo tacco destro come aveva previsto. Sbilanciato girò su se stesso, agitò le braccia, e precipitò senza un grido per quindici metri finendo nell’acqua con un gran tonfo. Quando riemerse, sputacchiando, ciò che vide furono le luci di Chicago che si specchiavano nel Lago Michigan, a cento metri di distanza da lui.


24 Agosto 1983
Ore 12,30 del mattino — Maggiore DeSota, Dominic P.

La Base che avevamo catturato era piena di comodità e beni di consumo come un grande magazzino sotto le feste natalizie. Quello che apprezzavo di più era l’ufficio del Comandante, a cui erano annesse una sala da pranzo privata e una cucina piena di automatismi. E nel grosso frigo di quella cucina il cuoco aveva scoperto mezza dozzina delle più grosse, morbide e succulente bistecche su cui avessi mai messo i denti. All’ora di pranzo le facemmo fuori. Eravamo in sei a godercele: il colonnello Tempe, che comandava il reparto ricerche nucleari; il maggiore degli MP Bill Selikovitz; il capitano del Corpo Segnalatori, e altri due capitani aiutanti di Tempe; e io. Fino a quel momento rappresentavamo i ranghi direttivi della Base. E i ranghi direttivi hanno i loro privilegi. La tovaglia su cui mangiavamo era di lino ricamato a mano, e così anche i tovaglioli; la posateria era d’argento, e se anche nei bicchieri ci fosse stata soltanto acqua questi erano di cristallo danese. Fuori dalla finestra panoramica, al quarto piano del Quartier Generale, potevamo osservare buona parte dei sessanta edifici che costituivano Sandia, e le jeep degli uomini di Selikovitz che pattugliavano la zona. All’esterno si crepava di caldo, ma nella nostra elegante dimora l’aria condizionata era un balsamo per il morale.

Ciascuno di noi si esibiva dunque al meglio del suo umore.

Uno degli aiutanti del colonnello Tempe stava facendo commenti divertiti sugli astrusi progetti di ricerca che avevano trovato lì: un gruppo di anormali che tentavano di leggere nella mente del nemico; armi chimiche che noi avevamo scoperto, e scartato, cinque anni addietro; armi laser che avrebbero dovuto arrostire un soldato a tre miglia di distanza (a patto che costui se ne stesse immobile per dieci minuti senza spostarsi dal raggio).

Ma il lato comico finiva lì. Certo, quella gente sprecava molti più soldi di noi in ricerche assurde. Però non tutte le loro idee erano assurde. Mentre ci veniva servita la torta di mele e il gelato, il colonnello Tempe cominciò a riferirci cose che non erano affatto da ridere. Lo ascoltammo con attenzione; da lì a qualche ora quella roba sarebbe stata classificata top secret, ma nel frattempo Tempe si compiaceva di parlarcene in via confidenziale. Nel campo della tecnologia nucleare quella gente ci aveva superato di parecchie lunghezze.

— Missili chiamati Cruise — disse Tempe, — simili a piccoli jet che si autoguidano col radar a bassissima quota, troppo veloci per essere intercettati, e con un cervello elettronico che gli dice dove devono andare malgrado ogni eventuale deviazione. Testate multiple: lanciate un missile e dieci miglia più in alto questo si suddivide in sei parti, ciascuna diretta verso un bersaglio. E sottomarini.

Questo mi colse di sorpresa. — Sottomarini? E che diavolo c’è di speciale in un sottomarino?

— Sottomarini a motore atomico, DeSota — disse, con una smorfia. — Brutte bestie, ti dico, di diecimila tonnellate e oltre. Possono stare sott’acqua per dei mesi, dove il nemico non può scovarli; e ciascuno di loro porta venti missili atomici con un raggio d’azione di diecimila miglia. Gesù Cristo! Dimentica il tuo dannato attacco con le armi biologiche! Se potessimo portare uno di quei sottomarini attraverso il portale, allora sì che faremmo piangere i russi!

D’improvviso la torta non ebbe più un sapore tanto buono.

— Ma gli siamo passati sopra come un rullo compressore — obiettò Selikovitz.

Il colonnello annuì. — Li abbiamo colti di sorpresa — disse. — Ma adesso sanno dove siamo.

— Oh, avanti, colonnello! — sbottai. — Non vorranno certo buttare un’atomica su una delle loro basi? — La mia voleva essere un’argomentazione, ma a metà della frase s’era trasformata in una domanda.

Nessuno volle rispondere. Neppure il colonnello. Mandò giù in silenzio un boccone di torta, poi esclamò: — Abbiamo commesso un sacco di errori, maledizione! Sarebbe stato più saggio attaccare l’albero alla radice! Colpire la Casa Bianca. Mettere le manette al loro Presidente. Ordinare quello che ci aspettiamo da loro. E concludere la cosa prima che i russi e i loro dannati satelliti comincino a essere curiosi sulla dannata «fossa archeologica» di questi scavi nel deserto!

Stavano tutti guardando me, e desiderai non aver aperto bocca. Chi ero io per giustificare le decisioni dello Stato Maggiore? Sapevamo benissimo quanto fosse stata dura e dibattuta la questione nelle alte sfere, e nessuno di noi, specialmente io, aveva avuto voce in capitolo nella decisione finale.

Tuttavia…

— Colonnello — dissi, — guardiamo i fatti. Fatto uno: non importa che razza di armi abbia questa gente, visto che non possono usarle sul nostro territorio. Il solo modo in cui potrebbero farlo sarebbe attraverso un portale, e una delle ragioni per cui siamo venuti qui è di precludere loro la possibilità di costruirne uno.

— Ci erano vicini — commentò uno degli aiutanti.

— Avrebbero potuto realizzarlo in poco tempo — dissi. — E una volta giunti se non altro alla teoria, avrebbero avuto la risposta a parecchie domande. Non potevamo correre questo rischio. Adesso abbiamo preso la Base, e questo toglie loro la possibilità di reagire contro di noi… qualunque cosa facciamo.

Il colonnello mi fissò duramente, poi riuscì a fare un sorrisetto. — Siete un buon collega e un amico, DeSota — disse, e diede un colpetto a una tazzina vuota con un’unghia. La porcellana risuonò come una campanella. Cinese autentica.

Avrei voluto lasciar cadere lì la discussione. Il colonnello non aveva tutti i torti, eppure era nel torto: la facilità con cui avevamo preso Sandia non era un puro caso, a parte la sentinella che aveva avuto un braccio rotto perché uno degli uomini di Selikovitz era stato un po’ troppo deciso nel disarmarla. Se avessimo fatto un’incursione nella Casa Bianca ci sarebbe stato non poco sangue. D’altra parte…

D’altra parte le possibilità che potevano verificarsi erano troppe perché riuscissi a ipotizzare una previsione. Le armi che aveva questa gente! Se avessimo potuto portarci via un sottomarino atomico… o un po’ di quei missili Cruise…

Ma da quella parte del portale non avevamo il potere e la capacità tecnica di occuparci di roba così voluminosa. Per i disegni e i progetti era un altro discorso, certo. E anche per gli armamenti che fosse possibile smontare. Però presto o tardi i russi sarebbero riusciti a infiltrare qualcuno nel nostro «scavo archeologico», e se avessero sentito l’odore di armi nuove…

— Maggiore? — Il soldato semplice che aveva servito in tavola era rientrato con alcuni dispacci. — Questi sono arrivati mentre lei pranzava — disse, distribuendoli.

— Grazie — annuii e non potei trattenere un sorriso. Per me ce n’era uno solo, ma si trattava di un TWX del Presidente degli Stati Uniti!

Diceva:


In nome del popolo americano, io attribuisco a lei ed a tutti gli ufficiali e agli uomini di truppa del 456° Distaccamento Speciale l’encomio solenne e A.U.S. per meriti di servizio e dedizione al dovere.


Girai attorno un’occhiata, senza riuscire a trattenere un ampio sogghigno. Non importa che tutti gli altri stessero sorridendo… avevano ricevuto anch’essi il loro encomio, senza dubbio. E non m’importava che il Presidente forse (anzi, c’era da scommetterlo!) non aveva scritto il messaggio di suo pugno. Quello non conosceva neanche il mio nome, dunque la cosa proveniva dal Ministero della Difesa, naturalmente. Non m’importava neanche che il Presidente fosse quello smidollato che era… e poteva star certo che non avevo mai votato per lui. Per me era lo stesso! Un encomio fatto dal Presidente avrebbe impreziosito non poco il mio Fascicolo 201. E c’era dell’altro. Sei medaglie! Una Legione al Merito per me. Una Stella di Bronzo per la sergente Sambok. E quattro altre che era mia facoltà assegnare a chi credevo meglio.

Quella era stata un’ottima mattinata di lavoro, dunque, e l’unica cosa seccante era che Bill Selikovitz aveva avuto più di quel che avevamo avuto noialtri. Adesso s’era accigliato per qualcosa che l’ordinanza gli stava mormorando all’orecchio, e quando rialzò lo sguardo fu verso di me. — Dom? Una mia pattuglia ha appena pescato uno dei tuoi ragazzi. Stava facendo ritorno alla base a novanta miglia all’ora, su un’auto rubata, e con un’auto della polizia di Albuquerque all’inseguimento. Il soldato semplice Dormeyer. Se l’era squagliata in città senza permesso, e sembra che abbia tentato d’ammazzare un civile.


La persona che volevo era la sergente Sambok, perché conosceva l’intero distaccamento. Non potei farla chiamare: era sull’altro lato del portale, di scorta ai prigionieri, e a causa di non so che disfunzione tecnica il portale era stato disattivato.

La persona che ebbi fu perciò la mia aiutante, la sottotenente Mariel, fresca del corso OCS e utile all’incirca quanto lo sarebbe una seconda coda a una vacca. Mi stava aspettando in ufficio. — Che cosa… cosa dobbiamo fare adesso? — disse, muovendosi verso la porta, e si ricordò di aggiungere: — Signore?

— Dobbiamo risolvere questa faccenda — brontolai. — Dannazione, sottotenente! Quel che volevo è che Dormeyer fosse riportato indietro senza alzare tanta polvere!

— Non sono riusciti a trovarlo — si giustificò, a disagio. — Ho mandato i soldati semplici Weimar e Milton all’indirizzo di casa sua, ma là non c’era. E… lei sa, signore, che la città è sottosopra, data la presenza delle nostre truppe che piantonano tutti i punti strategici, mentre ancora nessuno sa se il nemico sta per…

— Si risparmi le scuse, sottotenente — la zittii. Avevo dimenticato che Dormeyer era un ragazzo del posto, nella nostra linea temporale. Questo era male. Si suppone che un comandante conosca le sue truppe. — Si suppone che un aiutante di campo conosca le sue truppe — le dissi. — Dormeyer ha fatto qualcosa di sospetto, prima di squagliarsela?

— Nossignore! Non che io sappia, signore. Un mese fa ha avuto sette giorni di licenza, signore… sua moglie era stata uccisa in un incidente d’auto. Io ho suggerito di non inserirlo nella truppa d’assalto, visto che aveva saltato l’addestramento, ma lei disse di adibirlo a…

— Me lo porti qui — dissi. — Voglio parlare con lui. No, aspetti un minuto… prima mi faccia parlare col poliziotto.

Questa non mi ci voleva. Non intendevo rischiare che mi ritirassero l’encomio. E non volevo che il vecchio Generale Facciaditopo Magruder sollevasse un vespaio di interrogativi solo perché un figlio d’un cane di un soldato semplice s’era messo nei guai. L’unica cosa con cui potevo consolarmi era che Bill Selikovitz aveva rimesso l’intera faccenda nelle mie mani. Non ci sarebbe stato niente di scritto…

Purché avessi potuto manovrarla a dovere. E quando vidi l’agente Ortiz seppi che forse ce l’avrei fatta. Era un polizitto anzianotto, grande e grosso, con un berrettuccio da Orso Yoghi che sembrava essergli cresciuto in capo. Entrò nell’ufficio guardandosi attorno come fosse stato il suo. — Mai stato qui prima d’ora, maggiore — fu il suo saluto. — Penso si renda conto che ci sono un sacco di domande che ci facciamo, su quello che voialtri ragazzi state combinando, eh?

Se non altro non s’era precipitato dentro sputando fuoco e chiedendo che gli venisse consegnato il criminale. Gli strinsi la mano e non gliela mollai, intanto che gli parlavo da uomo a uomo: — L’avevo immaginato, sicuro. Ma capisce anche lei che quelli che si danno d’attorno, come voi e me, hanno da eseguire gli ordini che vengono dall’alto, senza stare a domandare perché e percome. Gradisce un sigaro?

Quando ne prese due vidi che la chiacchierata sarebbe andata nella direzione giusta. M’ero già preparato a sentirgli tirare in ballo le leggi locali, la sua giurisdizione, o altri argomenti che mi avrebbero impedito di provvedere con le mie mani a quel disgraziato imbecille di Dormeyer. Non ebbi bisogno di preoccuparmi oltre. Ortiz era assuefatto a trattare con chi teneva le redini del potere. S’era fatto vent’anni nell’esercito, aveva visto di tutto e aveva imparato a prendere le cose come venivano. Disse d’aver ricevuto una chiamata radio mentre pattugliava in auto un quartiere di Albuquerque che le nostre truppe non s’erano prese la briga di piantonare, e che s’era precipitato all’abitazione di Mr. e Mrs. Herbert Dingman. Entrato lì aveva trovato che i due erano fuori casa. C’era invece la loro figlia Gloria in stato chiaramente isterico, mentre il fidanzato della ragazza, Mr. William Penderby, giaceva svenuto sul letto di lei. In mutande. A quanto pareva, il soldato semplice Dormeyer aveva cercato di strangolarlo. Non si trattava comunque di una faccenda seria. Ciò che aveva fatto incavolare l’agente Ortiz era che, tornando fuori dalla porta, aveva trovato Dormeyer al volante dell’auto della ragazza, e ancor prima d’aver capito che era lui l’uomo da arrestare l’aveva visto dare gas e filarsela a rotta di collo verso la Base. No, brontolò poi, non aveva voglia di ciondolare attorno mentre io facevo il terzo grado al delinquente. Solo, non avevo nulla in contrario se dava un colpo di telefono allo sceriffo per fargli sapere dove si trovava?

Certo che non avevo nulla in contrario. Non gli diedi una pacca sulle spalle, ma lo accompagnai in corridoio e ordinai alla sottotenente Mariel di condurlo a un telefono, giusto intanto che rientrava portando con sé Dormeyer.

Dovevo concedergli che non era affatto un cattivo soldato. A fargli scavalcare il recinto era stato quello che si potrebbe chiamare un momentaneo impulso di pazzia. Rimase sull’attenti e rispose a tutte le mie domande brevemente e con chiarezza. Sì, si rendeva conto d’essersi messo in AWOL. Le ragioni? Be’, era ancora molto scosso a causa della morte di sua moglie, e qualcuno gli aveva detto che qui c’era un’esatta copia di ciascuno di noi della nostra linea temporale: cosi lui era andato a cercare la copia della giovane donna… e il fatto di trovarla lì, sempre viva, e con quell’individuo nel suo letto, era stato superiore alle sue capacità di sopportazione. No, non aveva strangolato quel tipo. Gloria l’aveva trascinato via da lì, e lui s’era lasciato spingere fuori di casa come rimbecillito; poi s’era seduto in macchina e aveva pianto. Quando da lì a poco l’agente Ortiz venne a dirmi che la vittima non lamentava più di un’escoriazione al collo, cominciai a rivedere un po’ di luce.

Diedi una lavata di capo a Dormeyer e lo rimandai in servizio. Stavolta mollai una pacca sulle spalle all’agente Ortiz, poi feci avvicinare con un cenno uno degli MP di Selikovitz. — Accompagna l’Ufficiale Ortiz alla sua auto, e fagli fare il pieno al nostro distributore. La polizia locale dev’essere ben certa che noialtri siamo amici, e non invasori. — E ad Ortiz, con un largo sorriso: — Vuole un buon consiglio, Mr. Ortiz? Avrà sentito alla TV da dove veniamo noialtri. E lei è il primo di voi che mette piede nella zona che abbiamo occupata, così sta per vedersi arrivare addosso un sacco di gente della TV e dei giornali. Non permetta che la abbiano gratis! — Lo guardai andar via con sollievo, e finalmente potei tornare alla nostra situazione.

Fu come una secchiata d’acqua gelida in faccia.

Il portale era di nuovo in funzione. Attraverso di esso ci avevano già mandato numerosi dispacci, e il più rovente era per me: dovevo immediatamente mettermi a rapporto da Tac-Cinque. Uno dei nostri prigionieri, l’altro Dominic DeSota, era scappato in qualche altra linea temporale, nessuno sapeva quale, e aveva portato con sé il più prezioso dei nostri scienziati, il dottor Douglas.


L’ultima volta che avevo oltrepassato il portale era accaduto in piena notte. Ci eravamo incolonnati sulle passerelle stese sulla sabbia, con la sola luce dei fari dei camion che ci avevano portati lì, rabbrividendo per il freddo della notte nel deserto, silenziosi, e in preda a un’ansiosa tensione. Sull’altura poco distante i grossi elicotteri da trasporto atterravano l’uno dopo l’altro, praticamente al buio, e da essi scendevano militari e tecnici che alla luce delle torce elettriche andavano a darsi da fare con le apparecchiature. Nessuno di noi era sicuro di quel che ci saremmo trovati ad affrontare.

Adesso era tutto diverso. Il sole arroventava il pagliolato su cui poggiavo i piedi. Il vento del deserto strappava veli di sabbia dalla sommità dello scavo gettandomela negli occhi. Il Generale Facciaditopo Magruder era lì che mi aspettava e andava avanti e indietro accanto alla sua auto di servizio. Mi fece salire con un grugnito, il veicolo si mise in moto e lasciandoci alle spalle una nuvola di sabbia risalimmo fin sulla piccola altura. Giunto lì potei constatare che i bulldozer avevano spianato via perfino le tracce lasciate dagli elicotteri. Qualcuno si stava dando da fare per evitare che i satelliti-spia russi vedessero qualcosa di diverso dalla mascherata dello scavo archeologico.

Una cosa era la stessa di quella notte. L’ansia che avevo addosso.

Non avevo mai provato in precedenza quel genere d’ansia, perché la paura di essere colpito o di dover ammazzare qualcun altro è una cosa fisica, e l’autocontrollo fisico può togliervela dai piedi, almeno per un po’. Ciò di cui avevo paura adesso non era un’ipotesi. Era un fatto. Se il senatore era fuggito, in questo doveva aver avuto un certo aiuto dalla divisa da fatica che indossava. Ed ero stato io a dargli quella divisa.

Magruder, seduto accanto a me, non si fece uscire di bocca una parola. Non mi guardò neppure. Si limitò a tenere lo sguardo fuori dal finestrino, a labbra serrate. Non potevo biasimarlo: in quella faccenda era in gioco la testa di tutti quanti, compresa la sua. Restai immobile come una statua e mi aggrappai al sedile per evitare, se avessimo preso una buca, di finirgli addosso.

Sperare che si dimenticasse della mia presenza era inutile, purtroppo.

Ci fermammo in un’altra nuvola di sabbia e Magruder balzò fuori. Poi si volse e il suo sguardo s’indurì. Ciò che gli aveva fatto indurire lo sguardo era la vista della sergente Sambok e del tecnico civile, il Dr. Willard, assistente dello scomparso Dr. Douglas. Li aveva lasciati lì mentre scendeva a prendermi personalmente, con null’altro da fare che sudare sotto il sole. E a vederli sembravano sul punto di soccombere a un’insolazione. Ma questi non erano gli umili particolari a cui il Generale prestava attenzione, visto che non era possibile dar ordini al sole o metterlo a rapporto, e dunque non restava che ignorarlo sprezzantemente. Diede un calcio a un cespo d’erba bufala, sputò, e mosse un pollice verso il rimorchio adibito a ufficio. — Dentro, voi tre — ordinò.

All’interno del veicolo non si stava meglio che fuori. C’era più fresco, ma non tanto per l’aria condizionata quanto per il gelo che sprigionava dalla faccia di Magruder. Sapeva fissare i subordinati con occhi che sembravano appena tolti dal freezer. Ero troppo impensierito dai miei guai per preoccuparmi anche della sergente Sambok, e meno ancora del Dr. Willard che dopotutto era un civile. Tutta la sua colpa stava nel fatto che non era intervenuto allorché, mentre si trovava ai pannelli di comando accanto a Douglas, l’alter-ego che si spacciava per me era arrivato con la carabina a tracolla, aveva spinto Douglas attraverso il portale e poi era saltato dietro di lui. Willard non avrebbe comunque potuto far molto, poiché (cosa che Magruder riteneva però irrilevante) era fisicamente piuttosto esile, e come tutti i civili non portava armi.

Per Nyla Sambok le cose stavano diversamente. Rispose alle domande di Magruder con voce rigida e sincera. — Sissignore, il senatore era affidato alla mia custodia. Sissignore, gli ho permesso di sopraffarmi e disarmarmi. Sissignore, ho agito con negligenza. Nossignore, non ho nessuna scusante. — Ma che fosse veramente sincera ne dubitavo, poiché nel suo tono e nei suoi occhi lessi che doveva esser accaduto qualcosa di più di ciò che aveva ammesso.

Una volta avevo fatto parte di una corte marziale, per giudicare un capitano reo d’aver violentato un’ufficialessa sul percorso d’addestramento ginnico, a tarda sera. L’uomo, convinto sostenitore della superiorità del sesso maschile, l’aveva sfidata a una gara a ostacoli, e lei, offesa, aveva raccolto la sfida. Subito dopo il passaggio del reticolato il capitano aveva voluto dimostrarle la sua superiorità in un altro modo. L’espressione dell’ufficialessa era uguale a quella che adesso vedevo in Nyla: colma di risentimento e furia, ma più contro se stessa che verso il suo aggressore.

Naturalmente non poteva esser successo niente del genere fra lei e l’altro DeSota. O no? Magruder s’era però voltato a fissare me, e dimenticai i guai della sergente Sambok per pensare ai miei.

Neppure novanta minuti prima ero stato seduto io sullo scranno del giudice, davanti al soldato Dormeyer. Il yo-yo va su e giù.

C’era un’ottima ragione per cui lo chiamavano Facciaditopo: fronte sfuggente, mento aguzzo, un lungo naso appuntito, e a rendere più vivace la somiglianza due baffetti orizzontali dalle punte aguzze in cui c’era più brillantina che nei suoi capelli. Sedeva teso in avanti come se avesse voglia di mordere e ci guardava a occhi stretti, tamburellando con le dita su un bracciolo della poltroncina. Ci lasciò lì in piedi ad attendere finché non ebbe finito di ruminare quel che stava ruminando.

Poi disse: — Ci sono alcune cose che dovete sapere.

Continuammo ad aspettare.

— La prima cosa — ci informò, — è che quella squinzia che qui hanno mandato alla Casa Bianca ha dato una risposta al messaggio del Presidente Brown, e di conseguenza passeremo all’effettuazione della Fase Due.

Fece un’altra lunga pausa.

— La seconda cosa è che io avevo richiesto un elicottero HU-70 da trasporto truppe, per trasferire con la necessaria sicurezza i prigionieri. Ma mi è stato negato, perché qualcuno aveva paura che un satellite russo lo vedesse, e al suo posto hanno mandato due schifosi frullini da uova.

Seguitammo a lasciarci raggelare dal suo sguardo, ma con un lieve filo di speranza in più: stava forse dicendo che avevamo un qualche genere di scusante? Perché, se avessero mandato l’elicottero più adatto, i prigionieri avrebbero potuto starci tutti e l’incidente non sarebbe mai avvenuto. Non si trattava che di una speranza esile, tuttavia era rafforzata dal fatto ovvio che Magruder non intendeva trovar scuse per noi: stava mettendo insieme la storia di copertura con cui proteggere prima di tutto la sua testa.

— Guardate di non fraintendermi — sbottò. — Voi tre siete ancora nella merda fino al collo. Lei, DeSota, perché gli ha dato una divisa. Taccia! — m’interruppe mentre accampavo una spiegazione. — Lei, sergente, per essersi lasciata disarmare. E lei, Williard, per aver permesso a quel figlio di puttana di Douglas di almanaccare coi comandi del portale senza un ufficiale presente. Senza parlare del fatto che non avete mosso un dito per impedire a quei due di passare oltre.

— Generale Magruder — disse disperatamente Willard, — io sono qui come consulente civile, e se esistono delle accuse a mio carico ho il diritto di udirle in presenza di un avvocato. Chiedo di…

— Lei non chiede niente — lo corresse Magruder. — Quello che ora farà, Willard, è di offrirsi volontario insieme a questi due, i quali da adesso sono assegnati al Campo Bolling.

— Il Campo Bolling? — gemette Willard. — Ma è a Washington, Generale. E io non…

Magruder non gli intimò di tacere. Non ne ebbe bisogno: si limitò a fissarlo e l’obiezione si congelò sulla lingua di Willard.

All’esterno si udi avvicinarsi il rombo dei rotori di un elicottero. Quando Magruder ci precedette alla porta e la apri lo vidi atterrare. Il portello scivolò lentamente di lato, il pilota alzò un pollice verso di noi.

— Questo è per voi — disse Magruder. — Vi porterà all’aeroporto, dove un MATS C-III sta aspettando che arriviate. La Fase Due scatterà al più presto.

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