La sergente della Riserva Nyla Sambok non era più sergente e non faceva più parte della Riserva, come ormai nessun altro. L’esercito americano e quello sovietico erano stati sciolti dalle forze di pace delle Nazioni Unite intervenute al completo. Tuttavia portava ancora l’uniforme, sporca e lacera. Non aveva nient’altro da indossare. Era seduta sulla banchina della stazione di Indianapolis, in attesa del treno merci che forse l’avrebbe riportata dalle parti di casa sua, e poteva sentire la voce della radio a transistor dell’ex capitano seduto su una valigia poco distante. Stavano ancora ripetendo l’unico e breve messaggio che l’intero pianeta aveva ricevuto in spiegazione dei fatti accaduti: Abbiamo prelevato tutte le persone uscite dal loro paratempo, insieme ai vostri scienziati che si occupavano di ricerche sulla fisica paratemporale. Le installazioni in cui queste venivano effettuate sono state rese radioattive. In futuro, studi ed esperimenti in tale campo non verranno permessi. Nyla Sambok l’aveva già imparato a memoria. Desiderava soltanto che si fossero decisi a intervenire prima. Il lancio di missili da parte dei russi, grazie a sommergibili dei quali gli americani avevano ignorato l’esistenza, non era stato del tutto devastante. Tuttavia le testate atomiche avevano spazzato via Miami, Washington, Boston, San Francisco e Seattle. I satelliti americani, dei quali i russi avevano ignorato l’esistenza, avevano cancellato Leningrado, Mosca, Kiev, Tiflis, Odessa e Bucarest. L’opinione prevalente era che il peggio fosse passato, visto che il calcolo delle conseguenze sembrava escludere la possibilità del temuto inverno nucleare. Sarebbero occorsi mesi, però, prima che la gente lo sapesse.


Data: 11-110 111-111, mo 1-010, da 1-100
Ore: 1-000, mn 1-111 — Nicky DeSota

Mary Wodczek, la pilota del dirigibile da carico, interruppe il mio pisolino mentre sorvolavamo Scranton, o almeno quella che una volta era stata Scranton. — Sveglia, pigrone! — chiamò, dalla cabina di prua. — Fra un’ora siamo a New York.

Le gridai un ringraziamento e mi tirai fuori dalla cuccetta, con un brivido. I locali dell’equipaggio nei dirigibili erano mantenuti a quella che si supponeva una temperatura sopportabile, ma non era certo quella di Palm Springs. Intanto che cercavo d’infilarmi sotto la doccia Mary chiamò ancora, per assicurarsi che fossi sveglio: — Sai che dovremo essere di nuovo in volo prima del tramonto, vero?

— Con te volerei anche di notte, dolcezza — risposi. Mi giunse la sua risata amichevole, poi chiuse la porta. Prima che mi venisse la pelle d’oca trovai la forza di cacciarmi nello sgabuzzino della doccia. Non era fredda come avevo temuto. Era però poco più calda dell’aria, e non mi dispiacque affatto venirne fuori e rivestirmi, pronto per affrontare anche quella nuova giornata.

Era un giorno festivo per il collettivo agricolo, il che mi consentiva di prendermi un po’ di vacanza… e nello stesso tempo di utilizzare il weekend per guadagnarmi un extra da mettere da parte. Per quanto lo chiamassimo il toddy-ott di ooty-pod, celebravamo tuttavia il dodici Ottobre col nome di Columbus Day. O almeno, lo celebrava la maggior parte di noi. Non potevate aspettarvi che gli arabi e gli africani, presenti in buon numero nelle nostre aree coltivate più esterne, e abituati alle loro festività, dessero qualche importanza alla scoperta dell’America. Per loro il Columbus Day era un’altra delle bizzarrie di noi americani. L’etiope che sovrintendeva al nostro sistema di pompaggio mi aveva chiesto in che giorno usavamo decorare l’albero di Pasqua per il Columbus natalizio.

Per la maggior parte comunque eravamo nativi degli Stati Uniti, e Gatti quasi tutti. Intendo Gatti di quelli non volontari. La comunità agricola era stata messa in piedi, all’inizio, da quei coloni piuttosto nomadi venuti dal miscuglio di diciotto o venti paratempi associati, ma costoro non erano portati a stanziarsi stabilmente in una zona. Quando i Pety-Deepies arrivavano loro se ne andavano, a fare altre cose che consideravano più interessanti in quel nuovo mondo.

Quella situazione mi si addiceva benissimo. Al Desert Agricultural Consort eravamo perciò tutti uguali. Ciò non significa che qualcuno di loro sapesse qualcosa dell’America-Tau, la mia America. Non avevo ancora trovato una sola persona che avesse mai sentito nominare la Lega per la Morale. Loro non avevano mai avuto d’intorno magnati arabi con le zampe su ogni grossa fonte di denaro: lì i soli arabi facevano parte del collettivo, esattamente come me. Non c’erano leggi che proibissero gli alcolici ai minori di trentacinque anni, né che punissero l’aborto e la contraccezione, e a nessuno passava per la testa di dirvi fino a che punto la vostra pelle doveva essere coperta o scoperta (fatte salve le leggi di natura, ovviamente. Nessuna persona sana di mente si esponeva in modo eccessivo al sole della California, in estate).

Nei primi tempi, fra me e me, avevo dato il nome di Eden a quel mondo nuovo. Gli si adattava abbastanza bene. E anche se non avevo mai supposto d’essere portato per la vita agricola, non rimpiangevo il tempo in cui facevo il sensale d’ipoteche nella zona di Chicago.

Ciò che rendeva migliore la situazione, naturalmente, era il fatto che grazie alla mia esperienza passata potevo stare alla larga dai lavori pesanti, a parte quando capitava che un raccolto dovesse essere mietuto con urgenza assoluta. Studiare l’aritmetica binaria m’era costato molte notti insonni, ma una volta impratichito ero stato in grado di prendere in mano tutti i problemi finanziari del collettivo. Era una solida attività lì nel nostro Consorzio, e la gente aveva imparato a fidarsi di me e a rispettarmi. Gli era dispiaciuto vedermi partire per New York proprio in quel giorno.

Non molta gente, in passato, aveva provato dispiacere nel vedermi partire.

Così, mentre il dirigibile s’abbassava lentamente di quota sulle paludi deserte del New Jersey e ricontrollavo le cassette di avocado e di lattuga, i miei pensieri erano già al momento in cui sarei tornato a casa. La mia vera casa. Quella alla periferia di Palm Springs.

Ero molto vicino a tutto ciò che avevo sognato da ragazzo. Ero stato un bambino molto religioso… avevo forse altra scelta? La Lega per la Morale aveva acquistato una gran forza, specie nei sobborghi di Chicago. Volevo essere buono. Soprattutto ciò che volevo era evitare d’essere arso vivo per l’eternità nelle orride fiamme dell’Inferno, dove (così mi prometteva ogni domenica il Reverendo Manicote) sarei senza dubbio finito se avessi bevuto, marinato la scuola domenicale o fatto il bagno a petto indecentemente nudo. Di tanto in tanto egli faceva anche menzione del Paradiso. Esso appriva una specie di Tahiti alla mente di un bambino di sei anni: sapevo che era là, ma non vedevo molte probabilità di riuscire a visitarlo di persona… almeno, non senza un buon avvocato che mi consentisse di filtrare fra le maglie della legge. Voglio dire, come poteva Iddio darmi il lasciapassare ignorando il carico di peccati che a sei anni mi portavo addosso? Avevo detto delle bugie. Sgraffignavo monetine dal barattolo in cui mia madre teneva i soldi. Non sempre ubbidivo a quel che mi dicevano i grandi. Oh, ero proprio un discolo, certo! Ma spesso facevo sogni a occhi aperti su quel che avrei visto del Paradiso, se fossi riuscito a sbirciare oltre il muro di cinta. E quello che sognavo non era molto dissimile dalla vita nel Desert Agricultural Consort, perfino riguardo al fatto che (come il Reverendo Manicote, accigliatissimo, una volta mi aveva risposto) non c’era modo di fidanzarsi o sposarsi in Paradiso. Questo era risultato abbastanza vero per me anche in California. Le donne non mancavano — erano il quarantadue per cento della popolazione — ma quasi tutte erano venute per raggiungere i loro mariti o fidanzati, cosicché ne restava una percentuale molto ristretta a disposizione degli scapoli come me.

E il motivo per cui m’ero procacciato quel passaggio fino a New York era di vedere se potevo far qualcosa in merito.


Fluttuammo giù verso Great Meadow, dove gli ormeggiatori erano in attesa di agguantare i nostri cavi, e aprii l’oblò della cabina. New York City non era cambiata molto dall’ultima volta. Non c’era ragione per cui avrebbe dovuto cambiare: erano trascorse solo sei settimane da quando ero partito per il mio nuovo lavoro in California. Ma, santo cielo, avevo l’impressione che fosse passato un sacco di tempo.

Appena gli ormeggi furono assicurati calammo la scaletta e uscii in quello che risultò un giorno grigio e piovoso tipico dell’autunno di New York, e fin dal primo passo le mie scarpe da tennis s’inzupparono di fango.

Lì ad aspettarmi c’era già Herby Madigan, che allungava il collo per cercare di vedere cosa ci fosse oltre gli oblò della stiva. Mi strappò di mano le bolle di carico prima ancora di darmi il buongiorno, e lesse la lista dei prodotti. — Pomodori? — protestò, indignato. — Perché diavolo ci hai portato dei pomodori? Ne abbiamo fin troppi negli orti del New Jersey e di Long Island.

— Da qui a un paio di settimane non ne raccoglierete più — gli dissi. — E allora vi metterete a piangere per avere i nostri. Comunque ci sono anche datteri e avocados. — Vidi il suo sguardo schiarirsi. — E ho parecchie cassette di arance e noci di cocco, tanto per farvi sorridere.

— Aranci! — esclamò.

— Ho paura che non ne vedrete molto — lo avvertii, — perché ci vorrà ancora del tempo prima che gli aranceti forniscano una produzione reale. E mentre parliamo, non potremmo levarci un momento dalla pioggia?

Non potei però farlo in fretta come avevo sperato, perché uno degli addetti al traffico aereo mi bloccò per sapere se avevo notato segni di rimbalzi balistici nel tragitto dalla California a New York. Fu soddisfatto quando gli risposi di no, fu meno soddisfatto quando dissi che per metà del tempo avevo dormito e per l’altra metà m’ero occupato solo delle scartoffie. Tuttavia riuscì a sorridere nell’informarmi che da oltre un mese nessuno aveva più segnalato fenomeni del genere. Evidentemente i loro computer confermavano che gli effetti di risonanza si stavano smorzando.

Finalmente potemmo metterci al riparo nell’ufficio di Herby, un cubicolo illuminato vivamente in una delle strutture a bolla del parco. Per una mezz’ora discutemmo e mercanteggiammo sui prezzi, e intanto ne approfittai per togliermi le scarpe e farle asciugare. Aveva del vero caffè, di cui mi affrettai ad accettare una tazza, e mi chiesi se saremmo riusciti a metterne su una piantagione. Decisi di non tentare. Alcuni membri del Consorizio erano già stati a esplorare giù verso Baja e altre zone del Messico. Un giorno o l’altro forse avremmo mandato coloni laggiù, a produrre caffè, banane e papaya, ma i terreni adatti erano troppo lontani da Palm Springs perché l’idea fosse realizzabile in quel periodo. Comunque avevo progetti più che a sufficienza per l’anno prossimo.

— Fra circa un mese avremo spinaci e uva — dissi a Herby. — E verso Natale meloni Crenshaw. Però siamo a corto di mano d’opera. Sai se ci sono probabilità che emigrino qui dei contadini davvero esperti?

— Qui non arriva più nessun emigrante — disse con aria assente, rimuginando sui meloni Crenshaw che avevo promesso. — Hanno chiuso tutti i portali, eccetto un paio adibiti solo agli apparati-spia e alle comunicazioni. Comunque puoi avere mano d’opera non qualificata. Negli alberghi ci sono ancora circa duecento fra fisici, militari e altri in attesa di un lavoro fisso.

Sospirai. Riaddestrare fisici e soldati era già costato tempo prezioso a quelli che dovevano occuparsi dei campi e dei frutteti rimasti in abbandono. — Se mi trovi una ventina di volontari — dissi, — potremo imbarcarli con noi stasera. Preferirei famiglie al completo. O ragazze nubili di cui volete disfarvi.

Lui rise. Me l’ero aspettato, ormai era una specie di battuta. Quando terminammo di discutere sui prezzi e ci fummo accordati per i prossimi carichi di derrate, versò ancora un paio di tazze di caffè e si appoggiò allo schienale della poltroncina, osservandomi pensosamente. — Dominic — disse, — che ne diresti di sistemarti qui e lavorare per me come amministratore?

— No, grazie.

Lui insisté: — Avresti un lavoro molto più comodo. Io resterei qui a occuparmi del traffico, e tu potresti curare la distribuzione delle derrate in città. Adesso abbiamo elettricità e acqua in tutto il West Side. Fra non molto qui si starà davvero bene.

— Dopo che avrete spazzato via un miliardo di tonnellate d’immondezza — sogghignai io.

— Sicuro! Ci diamo da fare. Da qui a cinque anni…

— Da qui a cinque anni — lo interruppi, — noi avremo ripulito San Diego. E quello è un posto come si deve per una città! Per non parlare del clima.

Si fece pensieroso. — Sai, ti confesso che anch’io qualche volta penso di stabilirmi in California, dopo che avremo rimesso le cose a posto qui intorno. Non mi dispiacerebbe Los Angeles…

— Los Angeles! Chi vorrebbe tornare a vivere a Los Angeles? — Gettai uno sguardo al mio orologio. — Mi ha fatto piacere parlare con te, Herby, ma il dirigibile partirà stasera con o senza di me e ci sono delle cosette che vorrei fare. C’è la possibilità di trovare da qualche parte un paio di scarpe come si deve? E magari un impermeabile?


L’atrio del Plaza era molto più lindo di come l’avevo lasciato, e anche più vuoto. Dai centri di quarantena di New York City erano passati circa ventiduemila Peety-Deepies. Al Plaza ne restavano meno di duecento, mentre molti degli altri alberghi erano stati chiusi e sigillati, in attesa dei futuri turisti che sarebbero giunti in auto o in aereo invece che attraverso i portali.

Non mi trattenni molto. Appena entrato andai al banco della ricezione, dove l’impiegata mi lasciò usare il suo terminal abbastanza da ottenere un nome e un indirizzo. Poi chiesi al portiere come si poteva raggiungere Riverside Drive, venni a sapere che davanti all’albergo avrei potuto prendere un taxi, e solo allora ricordai che non avevo neppure i soldi per pagarmi una corsa in taxi. O nient’altro. — Posso pagare con la mia carta di credito della California? — domandai, e lui cercò di non mettersi a ridere.

— Ha bisogno di liquido — m’informò. — Laggiù c’è l’ufficio del nostro cassiere. Se ha una carta di credito, forse potrà fare qualcosa per lei.

Poté farlo. Gli occorse l’aiuto di un computer per convincersi che non lo stavo imbrogliando, ma infine mi contò un bel mucchietto di strani dollari fruscianti e uscii in strada soddisfatto. Un provinciale nella grande metropoli, così mi aveva visto. Alcune cose non sarebbero mai cambiate!

Nel taxi esaminai le banconote, incuriosito. Era una seccatura usare le carte di credito per le piccole cose, come quando si trattava di acquistare oggetti dalle comunità indipendenti di Santa Barbara o Palo Alto, o di fare una partitina a poker il sabato sera. Queste avevano colori interessanti: verde-oro e nero da un lato, oro e scarlatto dall’altro. I numeri erano binari, naturalmente, e il materiale era diverso da qualunque altra carta per banconote avessi visto in vita mia. Nell’altra mia vita, intendo. Al tatto risultava liscia come la seta, e come scoprii quando ne raschiai un angolo con un’unghia era molto più dura della carta. L’effetto visivo era quello di una banconota, anche se le immagini della Casa Bianca da una parte e quella di Andrew Jackson dall’altra non erano disegni bensì ologrammi. Girando la banconota fra le dita la prospettiva cambiava leggermente, e altri colori apparivano nei disegni: rosso bianco e azzurro dietro Jackson, e un arcobaleno completo sopra la Casa Bianca. In un angolo c’era il nome della tipografia, una di Filadelfia — fino ad allora avevo creduto di sapere tutto su quel che organizzavano a Filadelfia — cosicché ne presi nota, scarabocchiando il meno possibile mentre il taxi prendeva tutte le buche nell’asfalto di Broadway. Alla prossima riunione del consiglio avrei proposto di pensare alla possibilità di far stampare cartamoneta di quel genere anche per noi.

Poco dopo ci fermammo sulla Riverside Drive; pagai il tassista e mi guardai attorno. L’Hudson scorreva limpido e tranquillo. Sulle alture dalla parte del Jersey crescevano alberi maestosi, e non vedevo affatto il ponte George Washington… non era stato ancora costruito, supposi, quando avevano smesso per sempre di costruire. Ma l’edificio di cui avevo l’indirizzo era in ottimo stato. Tutte le finestre avevano i vetri. Le mattonelle dell’atrio erano lucide come specchi. Mentre salivo per le scale verso il sesto piano il ronzio di un motore m’informò che quell’arrampicata non sarebbe stata necessaria: avevano un ascensore funzionante. E quando suonai all’appartamento 6-C la porta si aprì subito, ma la persona che apparve sulla soglia non era affatto quella che m’ero atteso di vedere. Era il senatore.

— Nicky! — esclamò. — Ehi, Nyla! C’è Nicky DeSota. Vieni a salutarlo!

Lei uscì dalla cucina, bella e felice e molto simile alla persona che stavo cercando — almeno quanto io ero simile al senatore — ma non del tutto, perché la differenza fu sensibile quando mi strinse la mano. Comunque ero lieto di rivederli, e fui lieto di accettare una tazza di caffè mentre ci sedevamo in soggiorno. Parlammo di quel che stavo facendo io, di quel che facevano loro, di come ci trovavamo bene lì e di quanto poco rimpiangevamo il mondo che ci eravamo lasciato dietro le spalle.

Era un vero peccato che lei fosse la Nyla sbagliata.

Però loro sapevano dove fosse quella giusta, e venti minuti più tardi ero di nuovo in strada. Diretto al Metropolitan Museum of Art. A non più di due minuti di cammino dal parco dov’ero atterrato col dirigibile.


Se il senatore e la sua Nyla erano stati sorpresi dal mio arrivo imprevisto, la Nyla senza pollici lo fu molto di più: mi fissò sbalordita, e un po’ sospettosa. — Senti, DeSota — disse subito, — tutto quel che è successo a casa nostra è roba passata. Se ce l’hai con me va bene, non ti biasimo. Ma non ho intenzione di chiedere scusa a nessuno.

— Non ce l’ho con te — risposi. — Anzi vorrei invitarti a pranzo… magari in quel ristorante dall’altra parte del parco, quello con gli alberi intorno.

— Non posso permettermelo!

— Ma io sì — dissi. — Ti va una passeggiata fin là? Così già che ci sono do un’occhiata a come mi stanno caricando il dirigibile.

Dopo qualche insistenza riuscii a tirarle fuori di bocca che fare due passi non le dispiaceva, visto che il suo orario di lavoro comunque era finito. Così attraversammo il parco e le mostrai i macchinari agricoli che venivano caricati a bordo, insieme a nastri di dati da immettere nei nostri computer, in cambio dei prodotti che avevamo venduto. Anche lei mi parlò del suo lavoro al museo. Non si trattava di un lavoro qualificato, precisò subito in tono quasi di sfida, ma era un buon lavoro. — La fortuna è stata — disse, — che quando è scoppiata la guerra al museo c’erano dei lavori in corso, perciò le cose migliori erano state coperte con cura. E queste le abbiamo trovate in buone condizioni. Ma le opere esposte al pubblico… ah! Specialmente i quadri! Io non sono in grado di restaurarli. Nessuno di noi ne è all’altezza. Però intanto li stiamo lavando per togliere il fango, e non hai idea della cautela che ci vuole per farli asciugare. Manciate di scaglie di colore sono cadute a terra da ogni quadro. Un giorno o l’altro qualcuno dovrà tirarsi su le maniche e studiare come riappiccicarle al loro posto, credo.

— Non sapevo che l’arte ti interessasse — commentai, facendola dirigere verso il ristorante. L’odore che usciva dalla cucina era appetitoso. Il locale si apriva direttamente davanti al mercato all’ingrosso, e naturalmente il cuoco si accaparrava la roba più fresca appena arrivata dalla campagna.

— Suppongo — disse lei in tono franco e spassionato, — che tu non sappia proprio niente di me, no? E forse è meglio così, altrimenti avresti ancora altri motivi per detestarmi.

Passai quella frase sotto silenzio. Il cameriere ci condusse a un tavolo e prese le ordinazioni. Cominciammo con granchi di fiume in salsa di avocados; i granchi venivano dall’Hudson, e gli avocados erano nostri, arrivati cinque ore prima e assolutamente perfetti.

— Sembra un buon lavoro il tuo — osservai, — anche se non c’è un vero bisogno di occuparsene subito, no? Voglio dire, forse per i quadri è così, ma per le altre cose… ho visto quell’obelisco che chiamano l’ago di Cleopatra, poco fa. Non può accadergli niente che non gli sia già accaduto, direi. — L’obelisco giaceva al suolo spaccato in numerosi pezzi. Aveva resistito migliaia d’anni in Egitto, ma pochi decenni a New York gli erano stati fatali.

Ripulendo gli ultimi frammenti di granchio dal guscio di un avocado lei alzò appena gli occhi. — E allora? — chiese.

— Allora mi stavo chiedendo se non t’interesserebbe un altro lavoro. Non nel tuo ramo, s’intende… non c’è molta richiesta di una polizia segreta da queste parti. Ma non ti piacerebbe dirigere un’orchestra?

Lei abbassò la forchetta. — Diri… un’orche…, Nicky! Di che accidenti stai parlando?

— Chiamami Dominic, ti spiace?

— Dominic, d’accordo. Be’, cos’è che vuoi dire? Io non ho mai diretto un’orchestra!

— Non mi hai detto che una volta ti sarebbe piaciuto suonare il violino?

— Io suonavo il violino! — Istintivamente si strinse le mani in grembo, irritata.

— E ora non puoi farlo, va bene. — Annuii. — Lo capisco. E questo t’impedirebbe di dirigere altri musicisti?

Quali altri musicisti?

Sogghignai. — Il nome che si sono dato è Orchestra Filarmonica di Palm Springs. Attualmente sono tutti dilettanti. Non malvagi, intendiamoci. Per loro è un lavoro part-time, visto che fanno parte del nostro collettivo.

Quale collettivo?

— Io sono l’amministratore del Desert Agricultural Consort — la informai. — È una specie di kibbutz, solo che non lo chiamiamo così perché non siamo ebrei. Un giorno riusciremo a mettere su una buona orchestra di professionisti. Ora come ora… be’, potresti dedicarti anche a un paio d’altri lavori.

Quale paio di altri lavori?

— Be’, uno sarebbe d’insegnare la musica ai bambini. E anche agli adulti che volessero imparare. Non abbiamo nessun insegnante di musica.

Lei si passò la lingua sulle labbra. Il coniglio in stufato venne deposto sul tavolo, e lo annusò con piacere. — L’altro? chiese, prendendo il cucchiaio per assaggiare il sugo.

— Ecco, l’altro non sarebbe esattamente un lavoro. Voglio dire, ho pensato che potresti, uh, considerare l’idea di sposarmi.


Non credo che prima d’allora qualcosa di me fosse riuscito a sorprenderla. Sono abbastanza sicuro di non aver mai dato a nessuno sorprese di qualche genere, anzi. Neppure a me stesso. Mi fissò intensamente, a lungo, mentre la coscia di coniglio che s’era messa nel piatto diventava fredda… la sua. La mia l’avevo già divorata e me n’ero servito ancora. Avevo fame e quello stufato era delizioso.

— Che mi dici di Greta Comesichiama, la stewardess?

Scossi le spalle. — Le chiesi di venire. Un bell’ologramma di un minuto, col sonoro. Lei rispose di no. — Sorrisi, perché adesso in retrospettiva la cosa mi sembrava divertente. — Mi mandò una di quelle olocartoline tipo auguri, sai? — Ricordavo d’essermela portata in camera un pomeriggio, mentre il senatore non c’era; l’avevo infilata nella fessura del computer e lei era comparsa sullo schermo, bella più che mai. Non ci avevo pianto, ma quasi. — Mi disse: «Nicky, tu sei un caro ragazzo, però non sai tenerti fuori dai guai. Io non ho bisogno di altri guai. Voglio soltanto vivere la mia vita».

Nyla rise. Sapevo che cosa ci stava trovando di comico: il fatto che qualcuno riuscisse a vedere in me un tipo troppo avventuroso per i suoi gusti. — Be’, sei un caro ragazzo, Nicky — ammise.

— Dominic.

— Dominic, d’accordo.

— Questo per quanto riguarda Greta. E di Moe, che mi dici?

Mi considerò fra stupita ed irritata. — Quel gorilla? Che fottuta specie di donna pensi che io sia, Ni… Dominic, eh? — Assaggiò la coscia di coniglio, intingendola nel sugo. — Comunque — disse, — ha cambiato aria. Lui e gli altri due Moe… si sono, per così dire, scoperti l’un l’altro, tutti e tre. E non erano mai stati omosessuali, prima! Però… a sedurli dev’essere stato il pensiero di avere amanti che sapessero tutto di loro. Voglio dire, capisci, sapere esattamente cos’è che ti dà piacere. — Esitò, gettandomi uno sguardo indagatore. — Sai di cosa sto parlando? Intendo il fatto di sapere esattamente come fare, be’, tutto quanto, cosicché…

— So di cosa stai parlando, certo — dissi con fermezza. — E allora che ne pensi?

— Vuoi dire che ne penso di sposarti? — Per qualche minuto s’industriò a spolpare le ossa del coniglio, accigliata. Si stava accigliando sull’idea, non sullo stufato, che era ottimo… anzi meditavo di farmi dare la ricetta dal cuoco. Finì l’ultima cucchiaiata di sugo, vuotò il bicchiere di vino e si guardò attorno con l’aria di chi adesso aspetta il caffè. Feci cenno al cameriere di portarne due tazzine.

— Be’ — disse, dubbiosa. — È sempre simpatico sentirselo chiedere.

— E io l’ho chiesto. A questo punto quello che succede, in genere, è che la ragazza risponde qualcosa.

— Lo so, Dom — disse. — Ci sto provando. Solo che non sono sicura di… insomma, tu che ne sai di me? Non sono esattamente quella che potresti chiamare una sposina vergine, questo lo sai. E, senza offesa, Dominic, tu mi hai sempre dato l’impressione di un classico maledetto bigotto per questo genere di cose.

Dissi: — Nyla, tu e io abbiamo alle spalle un passato che non ci fa precisamente credito. Come hai detto tu, senza offesa; ma eri affascinante quanto il morso di un crotalo. Io ero un sempliciotto. Passato remoto, Nyla. Nessuno ci costringe a essere ancora… no, aspetta un momento. — M’interruppi, mentre il cameriere portava il caffè e il conto. — Voglio dirlo un po’ meglio. Lasciami ricominciare. In un certo mondo noi dovevamo essere quello che eravamo, perché così ci ha fatto il mondo dove abbiamo vissuto. Dire «dovevamo» forse è eccessivo, dato che molto è stato solo per colpa nostra… prendiamo sempre la strada più facile. C’erano strade migliori, anche nel nostro mondo. Ma la colpa non è stata tutta nostra, e avremmo potuto essere migliori. Guarda i nostri duplicati! Il senatore, lo scienziato, e Nyla Bowquist. Potevamo essere come loro! E… possiamo ancora esserlo, cara.

Non era stata mia intenzione usare quell’ultima parola. L’avevo soltanto pensata, e senza che lo volessi m’era uscita di bocca. All’istante la vidi socchiudere leggermente le palpebre. Potei accorgermi che ne assaggiava il suono come analizzando un sapore nuovo. Non mi parve che lo trovasse repellente. M’affrettai a dire: — Il senatore si sta occupando dell’amministrazione della metà occidentale della città, adesso. Nyla è incinta. Quei due sono riusciti a cambiare le loro vite. Noi possiamo cambiare le nostre.

Lei sorseggiò il caffè, studiandomi da sopra il bordo della tazzina. — Dunque è di questo che stai parlando, Dom. Non solo matrimonio, ma anche bambini? Una bianca casetta di campagna, con le rose che si arrampicano sulla veranda e il caffè caldo fra i fiori profumati ogni mattina?

Sorrisi. — Non posso garantirti il caffè, perché il Consorzio non si può ancora permettere il superfluo. Ma il resto, certo. Anche le rose, se ti piacciono le rose.

Abbassò lo sguardo. Mi parve che le sue spalle s’incurvassero. — Dannazione! — disse. — Io amo le rose.

— Questo significa un sì oppure un no? — la incalzai.

— Be’, non c’è una legge che ci impedisca di provare questa cosa — disse. Mise giù la tazzina e mi fissò. — Perciò… sì. Desideri baciare la tua fidanzata, adesso?

— Ci puoi scommettere — sogghignai. E lo feci. Quella fu così la prima volta che la baciai. La sua bocca sapeva di caffè, di stufato di coniglio e di lei stessa, e lo trovai un delizioso miscuglio. — E ora — dissi, rimettendomi a sedere, — faremo meglio a muoverci. Tu devi prendere la tua roba, e poi dire alla gente là al museo che tagli la corda. Diciamo due ore, per questo. Ci restano ancora un paio d’ore, così magari possiamo andare in giro a comprare quello che pensi ti servirà in California, prima che il dirigibile decolli. Durante il volo costringeremo il capitano a sposarci a bordo.

S’era di nuovo portate alle labbra la tazzina di caffè e la sorseggiò. — Cristo, Dom! — protestò, come se solo in quel momento scoprisse dove stava andando a cacciarsi. — Agguanteresti un’anguilla coi denti se non ci riuscissi con le mani, tu. È una faccenda legale?

— Cara — dissi, stavolta di proposito. — Forse tu hai perso un po’ di vista come vanno le cose qui. È una vita nuova. Non dobbiamo preoccuparci di quello che una volta era legale o no. C’erano troppe leggi e di troppi generi nei mondi da cui tutti noi siamo venuti, così per andare avanti dobbiamo lasciarcela alle spalle. E fra le tante cose che abbiamo trovato qui, questa è la migliore.


Così poche ore più tardi eravamo marito e moglie, legalmente, e ce lo dimostrammo a vicenda nella piccola cuccetta del dirigibile, da qualche parte sopra il New Jersey. E poi sopra la Pennsylvania, e probabilmente anche sull’Ohio, benché l’unica posizione geografica che c’interessasse fosse quella del suo corpo rispetto al mio. Avremmo tentato un altro decollo nei cieli dell’Indiana se Mary Wodczek, che aveva officiato il rito la sera prima con grande serietà, non avesse bussato alla porta. Pudicamente fece entrare solo il vassoio, con il caffè, succo d’arancio e dei toast. — Ho pensato che gradireste un po’ di colazione — disse, e ci fece l’occhiolino con aria di gentile complicità. Le dicemmo che era un pensiero gentile. E lei gentilmente richiuse la porta.

Poco dopo, mentre seduti sul bordo del lettuccio ci lasciavamo cullare dalle oscillazioni del dirigibile, cingendomi la vita con un braccio Nyla disse: — Sai, Dominic, se qualcuno venisse a dirmi che posso tornare indietro non credo che accetterei.

— Neppure io — bofonchiai, mordicchiandole il collo.

Mi appoggiò una guancia su una spalla, pensosamente. — Però è strano. Mentre lavoravo al museo, per tutto il tempo non facevo che sperare in un miracolo. E con la fantasia mi vedevo già tornare là come una specie di eroina, dopo aver sconfitto i malvagi o qualcosa del genere… Ma laggiù le cose sarebbero sempre come prima, no? Qui invece è tutto diverso, e onestamente penso che non mi dispiacerebbe se restassimo per sempre.

— Questo è bello — dichiarai, e la baciai ancora a lungo. — Però non ti garantisco che sarà così. Voglio dire il fatto che ci costringano a restare qui per sempre.

Lei mi poggiò la fronte sul mento. Poi alzò gli occhi e mi scrutò con un sorriso incerto, come a una battuta di spirito che non riusciva a capire. — In che senso? Sai bene che hanno chiuso tutti i portali in via definitiva!

— Lo so, tesoro — ammisi. — Be’, lasciamo perdere. Ascolta, lo sgabuzzino della doccia darebbe la claustrofobia a un nano, ma scommetto che tu e io, entrandoci di traverso…

— Fra un minuto, ragazzo! Spiega quello che hai detto!

Mi piegai davanti a lei per prendere la mia tazza di caffè. — Voglio solo dire che quella gente così progredita è umana, dolcezza. Non sono superuomini. Certo, non dubito che abbiano chiuso i portali, a parte i loro apparecchi-spia, visto che hanno una paura del diavolo di vedersi sfuggire di mano i rimbalzi balistici.

— Be’, allora?

— Le conseguenze future non dipendono da loro — dissi. — Vedi, loro sono stati i primi a costruire i portali. Hanno localizzato altri trenta o quaranta paratempi, fra quelli che già li avevano e quelli che li avrebbero avuti presto. Ma trenta o quaranta è un numero limitato. Che frazione è rispetto all’infinito, Nyla?

— Non fare giochetti matematici con me, Dom!

— La matematica non c’entra, è solo buon senso. Questo è l’Ottobre 1983, giusto? Non solo per noi qui, per tutti. Loro non sono più avanti di noi. Sono stati soltanto più fortunati cinquanta o cento anni fa. Ma è l’Ottobre 1983 per un numero infinito di mondi paralleli. Non solo loro. Non solo noi. Tutti i paratempi, e il tempo scorre per ciascuno di essi. Forse in questo preciso istante, in un paratempo che nessuno ha mai ancora localizzato con l’apparecchio-spia, qualcuno come me o come te sta saltando attraverso il suo portale nuovo di zecca. E magari ce ne sono altri quaranta o cinquanta che hanno il portale in via di costruzione. Da qui a Natale potrebbero esserci dozzine di paratempi pronti a sperimentarlo, e centinaia in Gennaio, e in Febbraio… e l’anno prossimo o quello successivo…

— Oh, mio Dio! — disse Nyla.

— E un giorno o l’altro — conclusi, — ce ne saranno migliaia o milioni che infrangeranno, forse tutti insieme, la barriera fra i paratempi… e tu credi che qualcuno sarà capace di tenere sotto controllo una cosa di quel genere?

— Cristo santissimo di tutti gli universi! — ansimò Nyla.

— Esatto — sospirai.

— Ma tutti quei rimbalzi balistici… — cominciò a dire.

Annuii, lasciando che la riflessione le penetrasse nella mente.

Mi fissò con quella che avrebbe potuto essere paura o rispetto… non conoscevo ancora abbastanza mia moglie per capirlo bene. — E tu sei il solo che sa come stanno le cose? — domandò.

— Naturalmente no. La gente che ci ha portati qui è costretta a rendersene conto, ma non ha modo di andare in giro a controllare molti paratempi. E sono sicuro che ce ne sarebbero troppi per chiunque. Ho cercato di discuterne, un paio di volte. Alcuni sembrano non capire di cosa parlo, come il senatore. Ma altri… be’, altri non vogliono parlarne. Hanno paura, suppongo.

Lei si raddrizzò di scatto. — Sicuro, maledizione, che hanno paura! Personalmente, questa è una cosa che mi terrorizza!

— Be’ — dissi, — considerando quanta distruzione ci ricadrebbe addosso, saresti pazza a non aver paura. Ma guardiamola con gli occhiali rosa. Tu ed io possiamo cavarcela abbastanza bene. Stiamo andando a vivere in una vallata deserta, dove è assai improbabile che ci piombi addosso qualcosa da un paratempo o dall’altro. Succederanno cose bizzarre, forse spiacevoli; oh, ragazzi, se succederanno! Ma non sarà pericoloso come se vivessimo in una città, dove… non so, magari un quadrimotore potrebbe infilarsi dritto nella tua camera da letto, o qualcosa del genere.

Nyla mi fissò in modo assai poco coniugale. Senza un filo d’amore negli occhi. — Quello che mi stai dicendo — sbottò, indignata, — è che noi sopravviveremo, e al diavolo il resto della razza umana, vero? Vero? — gridò. — E tu hai avuto il coraggio di dire a me che ero un serpente, una gelida carogna senza un briciolo di…

— No, no — dissi dolcemente, mettendole un dito sulle labbra. — Non ho detto esattamente questo. Non proprio. E a me importa della razza umana. Me ne importa moltissimo.

— Ma… ma allora, che cosa possiamo fare, Dom?

Io dissi: — Niente, amore. Non c’è niente che tu ed io possiamo fare. È quello che sta accadendo. Però… non tutto andrà male.

Attesi che mi chiedesse cosa non sarebbe andato male. Ma quando il suo volto si scurì, e aggrottò le sopracciglia, e aprì la bocca, m’accorsi che le parole con cui l’avrebbe chiesto mi avrebbero fatto bruciare gli orecchi, così la prevenni in fretta: — Voglio dire che la cosa comincerà su piccola scala. Possiamo esserne abbastanza sicuri. Avremo avvertimenti di ogni genere prima che diventi davvero grossa… il tempo di evacuare le città, forse, o comunque di fare quello che potremo. E… non c’è modo d’impedire che accada, capisci? Perciò l’unica cosa è agire come meglio ci sarà possibile.

Lei si alzò dal letto e andò a guardare la pianura deserta che scorreva sotto di noi. Lasciai che i suoi pensieri si smarrissero in quell’immensità. Infine si volse, lentamente. — Dom — disse, — sei sicuro che stiamo facendo la cosa giusta? Voglio dire, tu hai parlato di avere dei bambini e io, non so, qualche volta ho pensato che piacerebbe anche a me. Ma questo non è un mondo troppo terribile per allevarci dei bambini?

Mi alzai e le andai accanto, nudo come lei, e passandole un braccio attorno alla vita la strinsi a me. — Sì, puoi scommetterci — mormorai. — Ma ce n’è mai stato uno che non lo fosse?


FINE
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