Un uomo di nome Dominic DeSota, avanzando fra le canne intorno a un vecchio bacino idrico in secca, si asciugò il sudore dalla fronte e alzò gli occhi da quel che stava facendo. A sud ovest, in direzione del luogo dove un tempo c’era stata Chicago, gli parve di vedere il crepuscolo illuminarsi di riflessi giallastri. Non era un’allucinazione. Le nuvole avevano assunto vaghi lucori come se sotto di esse ardessero molti fuochi lontani. Si raddrizzò e socchiuse gli occhi. Cos’erano quelle luci all’orizzonte? Sembravano procedere in file separate, e le luci bianche venivano verso di lui, mentre quelle rosse si allontanavano. Era quasi come se ci fossero ancora delle automobili! Ma un attimo dopo scomparvero del tutto, e lui fu di nuovo solo nell’afa del tramonto. Con un grugnito andò a svuotare l’ultima trappola di fil di ferro, tesa fra i cespugli, dove il gatto persiano che un tempo era appartenuto a qualcuno soffiava e rizzava il pelo. Non era più il morbido e grassoccio felino che una volta aveva fatto le fusa in un salotto, ma DeSota fu ugualmente lieto di averlo incontrato lì. Era la sua cena.
Fu soltanto un puro caso che il primo prigioniero da noi catturato fosse me stesso.
Avrei dovuto imbattermi in lui prima o poi, naturalmente. Sapevamo che il mio doppio era lì. Forse lui (quel «lui» che era me) mi aveva fatto un favore, perché una delle ragioni per cui avevo avuto il comando del primo scaglione d’assalto stava nel fatto che sapevamo che il senatore Dominic DeSota era sul luogo. (Senatore! Com’era potuto accadere? Com’ero riuscito ad arrivare tanto in alto nella sua linea temporale, mentre nella mia non ero altro che un qualsiasi ufficiale sperduto nei ranghi anonimi delle forze armate? Comunque, la posizione raggiunta da questo DeSota stava contribuendo a elevare la mia…)
— Sono pronti, signore — disse la sergente Sambok.
— Benissimo — le risposi, e la seguii su per le scale fino all’ufficio del capo scienziato, o come lo chiamavano lì. Non avevo tempo da perdere preoccupandomi dei diversi titoli o gradi, grammaticalmente insoliti, della gente con cui avremmo avuto a che fare: il «me stesso» che mi aveva fissato pensosamente, i «noi» che avevamo trovato lì. E non avevo tempo per meravigliarmi di cose che qualche ora addietro mi avrebbero meravigliato molto, vale a dire quelle che erano pur sempre coincidenze curiose fra la vita di questo Dom DeSota e la mia. Le nostre esistenze erano state diverse in un’enorme quantità di particolari. Ciò malgrado entrambi eravamo stati coinvolti in situazioni parallele… e ovviamente non solo «entrambi» noi, visto che c’erano tutti gli altri Dominic DeSota nelle innumerevoli altre linee temporali. I consiglieri tecnici non s’erano sprecati a illustrare particolari di quel genere. Ne ero a conoscenza perché li avevo domandati espressamente. Tutto ciò che avevano in programma di rivelare, a parte una versione per i profani dei loro mumble-mumble matematici, era che noi Dominic DeSota avevamo geni e cromosomi in comune e un’infanzia in comune, su fino al punto in cui le nostre vite s’erano separate, dovunque quel punto fosse. Avevamo visto gli stessi film, letto gli stessi libri, e la nostra personalità s’era dunque sviluppata secondo parametri almeno paralleli.
— Da questa parte, signore — disse la sergente. Oltrepassai la porta che la ragazza mi aveva aperto ed entrai nell’ufficio del direttore della Casa dei Gatti, come quella gente aveva umoristicamente chiamato il loro progetto sugli universi paralleli.
Il sottotenente del Corpo Segnalatori disse: — Sarà in onda fra trenta secondi, maggiore.
— Bene — risposi, e sedetti alla scrivania. Era lucida come il vetro… il capo scienziato doveva essere il classico sussiegoso scaldaseggiole di cui pullulano gli uffici direzionali, senza dubbio. Sul piano c’era soltanto il microfono del Corpo Segnalatori, coi fili che lo collegavano alla trasmittente manovrata dal sottotenente. Tentai i cassetti. Erano chiusi, ma aprirli sarebbe stata questione di un minuto.
— Si rompa una gamba, signore — mi augurò la sergente Sambok, ghignando sotto il suo trucco mimetico, e fui in onda.
— Signore e signori — dissi nel microfono, — qui parla Dominic DeSota. Circostanze di carattere urgente hanno resa necessaria un’azione precauzionale sulle installazioni della Base di Sandia e dintorni. Non c’è niente di cui dobbiate aver timore. Entro un’ora diffonderemo una trasmissione televisiva dalla stazione locale. Tutte le reti private sono invitate a diffonderla in ripresa diretta, e per allora i motivi di questa azione verranno pienamente chiariti.
Mi volsi al sottotenente, e lui si passò un pollice di traverso lungo la gola. Il caporale accanto alla trasmittente abbassò un interruttore e questo fu tutto.
— Ci vediamo più tardi, maggiore — mi ricordò il sottotenente, e seguì i suoi uomini fuori dall’ufficio.
Mi appoggiai indietro, tastando i braccioli di pelle e l’imbottitura. Questa gente si trattava bene. C’erano quadri alle pareti e moquette sul pavimento. — Come vi sono sembrato, Nyla? — chiesi.
Lei sorrise. — Un vero professionista, maggiore. Se mai lasciaste l’esercito potreste farvi assumere da una stazione radio.
— Ormai sono troppo grosso per adattarmi a poltrone tanto piccole — dissi. — Avete notificato a Tac-Cinque che questo edificio è sotto controllo?
— Sì, signore. Tac-Cinque comunica: «Ben fatto, maggiore DeSota». Gli altri scaglioni hanno occupato senza difficoltà i sei edifici qui attorno. L’intera area è controllata.
— E i prigionieri?
— Abbiamo tirato su un recinto nell’area di parcheggio. Il caporale Harris e tre uomini li stanno sorvegliando.
— Bene, bene — dissi. Tentai anche gli altri cassetti della scrivania. Chiusi. Mi ero impadronito dell’ufficio del capo scienziato, ma sfortunatamente in un momento in cui il capo scienziato era fuori dalla Base. E le chiavi doveva essersele messe in tasca. Una seccatura, ma non un problema. — Apritemi questi, sergente — chiesi. La sergente Sambok studiò un attimo le serrature, controllò gli angoli di rimbalzo, poi piazzò la carabina in corrispondenza di ognuno dei fori e sparò. Le pallottole andarono a conficcarsi tutte nella parete presso la porta.
I cassetti si aprirono senza altre difficoltà. All’interno c’era il solito ammasso di oggetti che ci si aspetta quando il piano di una scrivania è sgombro, oltre a un paio di quaderni e un certo numero di fascicoli dall’aria ufficiale. Naturalmente avevamo spiato questa gente molto da vicino e per mesi prima di aprire il portale, ma il Dr. Douglas avrebbe voluto dare un’occhiata a quei documenti. — Un’ordinanza, prego — dissi. Sulla porta la sergente Sambok fece un gesto, e dal corridoio arrivò di corsa un soldato semplice. — Torna alla porta d’uscita e recapita questo materiale — ordinai, rigirandomi fra le dita con ammirazione un accendisigari d’oro con sopra inciso Harrah’s Club, Lake Tahoe. Sarebbe stato un piacevole souvenir, ma lo rimisi dentro e chiusi il cassetto di colpo.
Dopotutto non eravamo ladri.
La sergente Sambok era ancora sulla soglia, e qualcosa nella sua espressione m’indusse a domandare: — C’è qualcos’altro, sergente?
— Il soldato semplice Dormeyer è AWOL — disse.
— Merda! — Lo sguardo di lei si disse d’accordo col mio commento. — Non c’è AWOL in zona di combattimento. Se gli MP lo beccano sarà accusato di diserzione. — Ecco un’altra coincidenza. — Dannazione, sergente, qualcuno dovrà pur sapere dov’è andato. Trovatelo. Voglio che torni immediatamente in servizio.
— Sì, signore. Me ne occuperò io stessa.
— Sì, sarà meglio — annuii. — Ma non dedicate più di dieci minuti a questa faccenda. Poi raggiungetemi alla porta d’uscita.
Il mio reparto d’assalto era stato il primo ad attraversare, ma ci eravamo impadroniti di ogni altro obiettivo. Adesso alla Base c’erano trecento militari di truppa (nostri, intendo, senza contare quelli che avevamo fatto prigionieri) e non avevo altro da fare finché non sarebbe stato il momento della trasmissione televisiva. Vale a dire finché non avessimo preso sotto controllo la stazione TV di Albuquerque, per inserirci da lì su altre reti. Scesi alla porta d’uscita, nello scantinato dell’edificio. Una volta era stato usato per le esercitazioni di tiro con la pistola, ma quando i nostri esploratori lo avevano individuato s’erano accorti che nessuno lo utilizzava mai.
Questo lo aveva reso perfetto per noi. Avevamo fatto passare il nostro intero contingente prima che qualcuno s’accorgesse che eravamo lì.
Sia nel nostro tempo che nel loro Sandia era una vecchia Base militare. La differenza stava nel fatto che da noi era rimasta piccola, mentre nella loro linea temporale aveva assunto dimensioni enormi. I loro reticolati di filo spinato includevano molte miglia quadrate di deserto e di colline.
Alla Base non era tuttavia distaccato un forte contingente di militari. Il perimetro era sorvegliato più da mezzi elettronici che da guardie, con un singolo posto di controllo ogni cinquecento metri. Naturalmente questo doveva essere sembrato il massimo della protezione necessaria al comandante della Base. A parte un improbabile attacco di truppe paracadutate, che sarebbe stato captato dai radar, non c’era possibilità che un eventuale nemico potesse invadere il territorio senza che la Base avesse tutto il tempo di chiamare rinforzi… a meno che, come noi, non attaccasse dall’interno. Quando fui alla porta d’uscita vidi che su una parete era già stata appesa una mappa della Base, con le zone sotto controllo colorate in rosso. Gli edifici-chiave erano la Casa dei Gatti e le immediate vicinanze, gli alloggi degli MP, il Quartier Generale, la centralina telefonica e la stazione radio. Li avevamo saldamente in pugno. Le scarse guardie armate che avevano creduto di poterli sorvegliare ora stavano meditando sul loro fallimento nel recinto.
Stavano arrivando altre squadre. Non c’era bisogno di loro, ma non me ne lamentavo di certo: che sarebbe successo se i precedenti proprietari, contro ogni logica, avessero deciso di battersi? Un impianto d’illuminazione a batterie mostrava la colonna degli uomini che emergevano dal nulla in mezzo al locale. Venivano messi in fila oltre la porta, fatti marciare in apparenza verso una parete, uscivano sul nostro lato per essere di nuovo raggruppati dagli ufficiali e dai graduati, e quindi andavano a rinforzare le truppe già sul posto.
Era uno strano spettacolo. Se vi mettevate di lato rispetto alla porta, sullo stesso piano, e ne guardavate il sottilissimo profilo, l’effetto era ancora più sconcertante. Scarponi, ginocchia, cosce, mani e teste sbucavano dal piano verticale in quest’ordine. Se foste andati dietro il portale avreste potuto vedere… voi cosa supponete? Sezioni anatomiche di viscere e interiora? L’interno dei corpi umani che compivano il passaggio? Niente di tutto ciò. Non avreste visto proprio niente perché, da dietro, il rettangolo della porta appariva di un nero ultraterreno, del tutto senza luce. Osservato dalla parte anteriore il rettangolo era invece trasparente, come inesistente sullo sfondo del muro un po’ scrostato, e l’unico segno della sua esistenza era dato dai soldati che ne emergevano.
— Maggiore? — Era di nuovo la sergente Sambok. Si guardò attorno e abbassò la voce. — Credo di sapere dove sia Dormeyer.
— Ottimo lavoro, sergente — dissi.
Lei scosse il capo. — È uscito dalla Base, sgusciando fuori dal perimetro in qualche modo. Poi si è diretto ad Albuquerque. Il fatto è che abita… abitava qui. Ad Albuquerque, voglio dire.
Questa non ci voleva. Ma non ne aveva colpa lei. — Ha fatto il suo dovere — la rassicurai. Ed era la verità. Per far parte della riserva, Nyla Sambok era un soldato di prim’ordine. La cosa buffa era che nella vita civile faceva l’insegnante di musica, ed era sposata a un suonatore di clavicembalo. Facendo parte della Riserva avevano entrambi ottenuto delle borse di studio; poi erano stati richiamati. La maggior parte dei riservisti erano poco entusiasti, ma la Sambok era decisa e sveglia, e questo m’aveva convinto a includerla nel distaccamento che avevo portato con me da Chicago. Il fatto che fosse anche una gran bella femmina non disturbava nessuno. Ma io non frequentavo mai il personale femminile. Tutt’al più un pensiero, di tanto in tanto.
— Tac-Cinque sarà in linea per lei fra un paio di minuti — continuò Nyla. — Ho raccolto la voce mentre entravo.
— Bene — dissi. — Intanto ho avuto un’idea. Vada al recinto dei prigionieri, e mi riporti gli abiti del senatore DeSota.
Perfino la sergente Sambok poteva esprimere sbalordimento. — I suoi abiti?
— È quel che ho detto, sergente. Può lasciargli la biancheria, ma voglio tutto il resto. Anche i calzini.
Negli occhi le tornò una luce di comprensione. — Giusto, maggiore — sogghignò, e si allontanò in fretta. Io restai lì ad aspettare la chiamata di Tac-Cinque.
Comunicare nei due sensi attraverso la sottile pellicola che separava gli universi paralleli era più arduo che in un senso soltanto. Per ottenere energia dovevano invertire il portale e collassare il campo. Quando l’ufficiale addetto alla porta mi fece un cenno col capo sollevai il radiotelefono, e la voce del Generale Magruder non mi diede il tempo d’aprir bocca. — Ben fatto, maggiore! — abbaiò. — È il Presidente che glielo manda a dire. Ha seguito l’operazione da vicino, naturalmente.
— Grazie, signore.
— Ora passiamo alla Fase Due. È pronto per la trasmissione TV?
— Sissignore. — Non lo ero ancora, ma lo sarei stato appena Nyla Sambok fosse tornata coi vestiti.
— La stazione TV e i ripetitori sono in mano nostra. Potranno trasmettere fra circa mezz’ora. I tecnici hanno già il nastro del Presidente e lo manderanno in onda dopo la sua introduzione.
— Sissignore.
— Bene. — Poi cambiò tono. — Un’altra cosa, maggiore. Ha notato segni di reazione?
— Niente di nuovo, signore. Ma non abbiamo ancora interrogato i prigionieri.
— Uhm! Qualcun altro visitatore poco gradito?
— Per ora nessuna traccia, signore.
— Tenete gli occhi aperti — borbottò, e riappese. Avevo identificato bene il tono. Era quello di chi ha paura.
Mezz’ora dopo, camminando sul terreno deserto della Base verso la stazione TV, sotto le stesse stelle che illuminavano anche la mia America, m’accorsi di provare gli identici oscuri timori. Una jeep degli MP m’incrociò a poca distanza, scandagliando il buio col suo faretto. Rallentarono appena il tempo di prender visione della mia tuta da combattimento, poi proseguirono. Non mi dissero parola. E non mi chiesero i documenti.
Avrei potuto benissimo essere uno di quei «visitatori poco graditi». Avrei potuto essere quell’altro me stesso che sembrava esser stato dappertutto. E se lo fossi stato, non avrei dovuto far altro che mettermi una fascia verde intorno a una manica per ingannarli. E in tal caso…
E in tal caso cos’avrebbe fatto quell’altro me? Ecco una domanda preoccupante. Quella gente aveva molto indagato e molto curiosato. Ma non aveva fatto assolutamente nulla.
Non potevo realmente biasimare gli MP per la loro trascuratezza, poiché dal loro punto di vista non c’era motivo di sospettarmi. Avevamo preso quella Base senza colpo ferire, spazzando via ostacoli costituiti soltanto da sentinelle mezzo addormentate che davanti alle nostre truppe avevano sbarrato gli occhi per lo stupore. Che razza di modo per impadronirsi dell’America! Mi chiedevo come potesse essere la vita in una nazione dove le Basi di quell’importanza venivano sorvegliate da appena un manipolo di uomini dell’esercito regolare, dove non c’era la coscrizione obbligatoria, né il richiamo in servizio dei riservisti. Se io stesso avessi terminato i miei studi postmilitari invece di esser riattivato nella Riserva, cos’avrei finito per diventare?
Un senatore, forse?
Ma non era il genere di speculazioni in cui potevo perdermi, quando mi attendeva la parte più delicata del lavoro per cui ero lì.
La sergente Sambok era già alla stazione TV con gli abiti del senatore DeSota, puntuale ed efficiente. Cercai uno spogliatoio e appesi a una gruccia la mia uniforme. Gli piaceva vestir bene, a quest’altro Dom DeSota: camicia, cravatta, scarpe, pantaloni, giacca sportiva, tutto molto fine e di lusso. Il taglio degli abiti era singolare (qui la moda sembrava assai diversa dalla nostra) ma apprezzai il contatto sulla pelle della camicia di seta, e l’elegante piega dei pantaloni. Mi stavano un filo troppo larghi. Il mio alter ego aveva messo su qualche chilo di troppo, e questo mi fece sogghignare mentre stringevo di un buco in più la sua bella cintura.
Quando uscii dallo spogliatoio la sergente mi osservò con aria d’approvazione. — Molto elegante, maggiore — si complimentò.
— Cosa gli ha lasciato addosso? — chiesi, esaminandomi in uno specchio. E quando la vidi sogghignare seppi la risposta. In Agosto non si soffriva il freddo neppure in mutande, tuttavia… — Gli faccia avere una mia tuta da fatica. La troverà nella mia borsa B-4 — ordinai. Per sua fortuna quelle tute sono sempre un po’ larghe, così non dubitavo che gli sarebbe andata bene.
— Sissignore — annui la sergente Sambok. — Signore?
— Che c’è?
— Be’… se lei indossa i suoi vestiti e lui si metterà i suoi, non ci sarà un po’ di confusione? Voglio dire, supponiamo che lui riesca a metterla fuori combattimento e scambi di nuovo gli abiti. Come farò a capire chi è l’uno e chi l’altro?
Aprii la bocca per dirle che era una sciocca. Poi la richiusi. Non aveva affatto torto. — Ottima supposizione — annuii. — Le rispondo subito: io sono quello che conosce il suo nome completo. D’accordo?
— Sì, signore. Comunque, finché lui è chiuso nel recinto e lei è fuori…
— Giusto — borbottai. Solo in quel momento mi resi conto che, nelle ultime due ore, non aver potuto avvicinare l’altro me stesso mi aveva dato un certo disagio.
Avrei voluto confrontarmi con lui. Mi sarebbe piaciuto sedermi e parlare con lui, sentire la sua voce, scoprire dove le nostre vite combaciavano e dove erano diverse. Quella sensazione era una specie di prurito, un fremito, come la prima volta che si pensa di provare la droga, o il sesso. Ma volevo farlo.
Quando entrai nello studio dovetti dimenticare quei pensieri. I cameraman fissarono stupefatti il mio abbigliamento, il capitano del Corpo Segnalatori ghignò apertamente, ma il caporale che aveva assunto le mansioni di regista mi stava già mettendo in posizione. — Si tenga più eretto, signore! — Ascoltò quel che gli veniva detto in cuffia e alzò una mano. — Dieci… nove… otto… sette… sei… cinque… quattro… tre… — Per contare usava le dita. Due dita, un dito, poi sollevò il pollice: la luce verde della telecamera si accese, e il rullo col mio discorso cominciò a girare.
— Signore e signori — lessi, fissando gli occhi anche nella telecamera, — io sono Dominic DeSota. — Questa non era una bugia. Non avevo affermato d’essere il senatore DeSota, anche se il fatto che indossavo i suoi abiti conteneva quell’implicazione. Il discorso fu comunque breve: — Il verificarsi di un’emergenza ha richiesto che portassimo a termine questa azione. Chiedo a ogni buon americano di ascoltare questa trasmissione con la mente aperta e l’animo generoso che sono le migliori doti di tutti noi, cittadini di questa grande nazione. Signore e signori, ho l’onore di presentarvi il Presidente degli Stati Uniti d’America.
I fotoni della mia inquadratura a mezzobusto entrarono nelle lenti della telecamera, furono trasformati in elettroni e convogliati via cavo dallo studio di regia alle antenne sul tetto dell’edificio, dove vennero convertiti ancora in onde elettromagnetiche di diversa frequenza e proiettati attraverso la valle fino ai grossi ripetitori della KABQ. Da lì attraversarono obliquamente l’atmosfera, raggiungendo il satellite in orbita a qualche migliaio di chilometri da terra, e vennero di nuovo trasmessi a impianti di superficie che li disseminarono in tutti gli apparecchi televisivi degli Stati Uniti. Questi Stati Uniti. E come sarebbe stata accolta la mia immagine, e soprattutto l’immagine di un Presidente che non era il loro Presidente, era una cosa che potevo solo tentare d’ipotizzare.
L’intero distaccamento del Corpo Segnalatori era in uniforme, ma c’erano anche un bel po’ di civili con la fascia rossa al braccio. Riservisti anche loro, richiamati per quell’emergenza, e ovviamente tutti tecnici e professionisti della televisione. Da bravi civili stavano usando al meglio i comfort di quello studio. Nel corridoio qualcuno aveva allestito un buffet, con cibi e bevande d’ogni genere… anche roba calda: dovevano aver liberato e messo all’opera il PX locale.
Mi versai una tazza di caffè, ascoltando la voce del Presidente Brown che proveniva da un monitor. — …e come Presidente degli Stati Uniti, mentre mi rivolgo a voi che pure siete Presidente degli Stati Uniti, e a tutto il popolo americano… — Sembrava un po’ teso, ma la sua voce suonava sicura intanto che leggeva il discorso preparatogli per l’occasione. — …a questo punto della nostra storia ci troviamo a confronto con un sistema dispotico lanciato alla conquista del pianeta… — E poi: — … i legami di sangue, e la comune devozione ai princìpi della libertà e della democrazia… — E così via. Era un discorso piuttosto ben studiato; ne avevo letto il testo il giorno prima. Ma la cosa davvero importante non stava in quelle frasi eloquenti. Stava nel fatto che eravamo noi a controllare la situazione.
La stessa voce proveniva dalla porta aperta della cabina di regia, in fondo al corridoio. Presi la tazza e andai a dare una sbirciata. Non c’era un solo monitor lì: ce n’erano dozzine, e quasi tutti inquadravano il volto serio e grave del Presidente. Ma vidi anche schermi che mostravano altre facce, non meno serie e preoccupate: John Chancellor, Walter Cronkite e un paio di giornalisti che non riconobbi. Stavano già facendo il loro commento. Questo mi lasciò sorpreso, finché non ricordai che il discorso del Presidente durava appena quattro minuti. Era finita la nostra trasmissione in diretta, ed ora il discorso veniva ritrasmesso in differita dalle reti private che, forse colte di sorpresa, s’erano limitate a registrarlo.
Gettai un’occhiata al mio orologio. Mezzanotte, ora locale. Nelle grandi città della costa est erano le due del mattino, ma dubitavo che molti stessero dormendo. E in California la gente che guardava l’ultimo telegiornale della notte stava certo sbarrando gli occhi su una trasmissione che nessuno di loro s’era mai atteso.
Peggio per loro. Cosa li autorizzava ad essere felici e spensierati mentre noi fronteggiavamo il più terribile pericolo mai corso dal mondo libero?
Anche un comandante delle truppe d’assalto qualche volta deve dormire. Potei permettermi cinque ore di sonno. Quando mi svegliai sentii il profumo della pancetta e del caffè. Ero nell’ufficio del capo scienziato, steso sul lungo divano di cuoio del capo scienziato, e il caporale Harris stava deponendo un vassoio sul tavolinetto al mio fianco. — Coi complimenti della sergente Sambok, signore — sorrise. — Ieri notte abbiamo occupato anche il club degli ufficiali.
Le uova s’erano quasi raffreddate nel tragitto fin lì, ma il caffè era caldo e denso. Proprio quel che ci voleva per rimettermi in marcia.
Per prima cosa ripassai dallo studio televisivo. I tecnici militari erano stati raggiunti da tre civili senza contrassegni: una ragazza, una donna anziana e un uomo barbuto d’età imprecisabile. Fermai il capitano del Corpo Segnalatori e inarcai un sopracciglio, agitando un pollice in direzione dei tre. — Loro? — mi rispose. — Sono scienziati, maggiore. O almeno è quel che dicono d’essere. Comunque i loro ordini sono OK.
— Quali ordini?
— Analizzare le reazioni al messaggio del Presidente, dicono. Una specie di indagine politica o scientifica, sa com’è. — Io non sapevo, invece. Si strinse nelle spalle. — Sia come sia, per loro c’è dannatamente poco da studiare. Finora non è arrivata neanche una parola che sia una dal Presidente che hanno qui.
Questo non era il tipo di notizie che speravo di sentire. Dopo un ripensamento aggiunse: — Potrebbe informarsi da Tac-Cinque. — Ma stavo già uscendo diretto alla Casa dei Gatti. Nella piacevole aria del mattino la Base e il deserto apparivano tranquilli. Io non lo ero. Indossavo ancora la tenuta da combattimento, bagnata di sudore (forse non avrei dovuto esser stato così generoso con i miei vestiti di ricambio) e cominciavo a sentirmi preoccupato.
Il Generale Magruder, Facciaditopo, era dove vi sareste aspettati che fosse un generale alle sette di mattina, ancora con la testa sotto il guanciale, ma trovai il colonnello Harlech. Non si trattava di un tipo molto alla mano. Quando gli chiesi di quei tre civili mi gratificò di un grugnito simile a una passata di carta vetrata. — Sono autorizzati, e non è faccenda che la riguardi, maggiore — esclamò. — Qual è la situazione attuale della sua Base?
— Tutto sotto controllo, signore. — O così speravo, visto che non avevo ancora chiamato a rapporto nessuno dei miei. — Dall’esterno non c’è ancora nessun segno di reazione.
— Visitatori non graditi?
— Nessun rapporto in merito, signore. — Almeno, nessuno fatto a me. — Signore? Posso chiederle notizie del Dr. Douglas?
Anche la sua risatina era pura carta vetrata. — È sotto sorveglianza nella sua tenda, e ben poco allegro. Cos’avete incercettato sulla reazione del nemico?
Si riferiva all’ascolto della radio e della TV. — Non ne emerge un disegno chiaro, signore. Si limitano a ritrasmettere il discorso del Presidente. Lo riceviamo forte e chiaro.
Il colonnello emise un suono disgustato che avrebbe potuto essere «quella parola». Harlech era uno dei giannizzeri di Magruder, e come gli altri non faceva mistero di ciò che pensava del Presidente. Brown s’era opposto vigorosamente all’idea di un raid «preventivo»… finché il capo del suo staff non gli aveva sussurrato all’orecchio che le prigioni erano piene di politici che s’erano opposti ai militari circa questioni essenziali alla difesa degli Stati Uniti.
Quando riattaccai il telefono collegato all’altra linea temporale mi chiesi se non fosse il caso di tornare agli studi TV per uno scambio di vedute coi tre scienziati-politici. Sarebbe stato interessante sapere perché, secondo loro, un’America militarmente attiva come la nostra aveva un Presidente di pastafrolla come Jerry Brown, mentre quest’altra, grassa e pacifica, aveva eletto quella sputafuoco della Reagan. Ma io ero un soldato, non uno studioso, e c’erano altre cose che m’incuriosivano maggiormente. Gridai che mi mandassero un’ordinanza, e quando il caporale Harris mise dentro la testa dalla porta gli ordinai di scendere al recinto e di portarmi uno dei prigionieri, il senatore Dominic DeSota.
Seduto lì, nella mia tuta da fatica, era così uguale a me da mettermi in imbarazzo. Non gli avevo ancora tolto gli occhi di dosso, e in quanto a lui mi stava studiando con una certa durezza. Non sembrava preoccupato, o almeno non lo mostrava. Il suo sguardo era fra risentito e interessato, con un velo di freddezza che avevo sempre notato anche in me.
— Tu fai parte delle alte sfere, Dominic — dissi. — Sentiamo. Secondo te come la stanno prendendo?
Prima di rispondere si massaggiò le reni. Anche lui aveva dormito, ma senza dubbio su qualcosa meno confortevole del divano dello scienziato capo. — Parli di quella che può essere la risposta del Presidente Reagan a un’invasione armata?
— Questo è un modo un po’ drastico di considerare la cosa.
— Drastico è il modo in cui l’avete condotta. Cosa sperate di guadagnarci?
— La pace. — Sogghignai. — La vittoria. Il trionfo della democrazia sulla tirannide. Non intendo la vostra tirannide, naturalmente. Parlo del nostro comune nemico, i russi.
Scosse il capo, paziente. — Dom, io non ho nessun nemico russo. I russi non hanno rilevanza nel mondo… il mio mondo. Sarebbero già morti di fame tutti quanti se non li avessimo aiutati, dopo la loro guerra con la Cina.
— Avreste dovuto lasciarli crepare!
Sospirò e mi guardò storto. — E così avete avuto la bella pensata di invaderci. Senza preavviso. — Poi scosse le spalle. — Chiedi a me come vanno le cose? Siete voialtri che avete la palla.
— Dovranno andare a modo nostro, Dom — dissi, e sorrisi. — E più presto voi lo capite, più facile sarà per voi. — A questo non rispose. Neppure io l’avrei fatto, del resto. Cercai d’avere un tono persuasivo. — È la nostra patria, anche se non siamo dalla stessa parte della barricata. Avete il dovere di collaborare perché abbiamo lo stesso interesse di fondo, il bene degli Stati Uniti d’America. Giusto?
— Di questo dubito, Dom. Sicuro come l’inferno — disse.
— Ah, Dom, avanti! Sai bene che la penseresti come me, se fossi al mio posto… a proposito — aggiunsi, — come va la prostata?
Mi fissò sorpreso. — Di che stai parlando? Sono troppo giovane per avere dei guai con la prostata.
— Già — borbottai. — Questo è quel che dissi anch’io, quando il dottore mi tolse le mani di dosso. Ti consiglio di farti dare un’occhiata.
Scosse il capo. — DeSota — dichiarò, secco e determinato come penso che anch’io mi sarei mostrato al suo posto. — Lasciamo perdere i ghirigori. Ci avete aggrediti senza esser stati provocati, di sorpresa, e questa è stata un’azione sporca. Perché lo avete fatto?
Sorrisi. — Perché era a portata di mano. Non sai come vanno queste cose? Avevamo un problema, e potevamo vederne la soluzione tecnica. Quando hai la tecnologia la usi, e noi eravamo in possesso di questa tecnologia. — Non parlai di come l’avevamo ottenuta, cosa che d’altronde era irrilevante. — Vedi, vecchio mio, voi avete di fronte ciò che noi chiamiamo un’offerta che non si può rifiutare. Il nostro Presidente dice al vostro quello che deve esser fatto. Voi ce lo lasciate fare. Dopodiché noi ce ne andiamo e tutto finisce lì.
Mi diede un’occhiata tagliente. — Non lo credi neppure tu?
Scossi le spalle. Ci conoscevamo l’un l’altro troppo bene per ignorare che né lui né io lo credevamo. I miei pensieri non dovevano andare al di là dei compiti che m’erano stati assegnati — ufficialmente — ma sapevo fin troppo bene che, una volta cominciata a usare la loro linea temporale per prenderci cura del nostro principale nemico, non era molto probabile che ce ne andassimo. Ci sarebbero stati sempre altri piccoli lavoretti per cui avremmo potuto sfruttarla.
Questo era però troppo lontano nel futuro perché stessi a preoccuparmene… anche se vedevo chiaramente che preoccupava l’altro me stesso, e non poco. Dissi: — Torniamo alla mia domanda. Il vostro Presidente darà retta al nostro senza recalcitrare? Nel nostro universo i Reagan e Jerry Brown non sono precisamente amiconi.
— Questo che c’entra? Lei farà quel che deve fare. Ha giurato di difendere e proteggere gli Stati Uniti…
— Sì. Ma quali? — chiesi io. — Il nostro Presidente ha fatto lo stesso giuramento, e non fa altro che mantenerlo. — Lo manteneva perché ci era costretto, quel pappamolla. Ma questo non lo dissi. — E il miglior modo che la vecchia Nancy ha di proteggere voialtri è di lasciarci fare quel che vogliamo. Hai un’idea dell’alternativa che ci lascereste? Noi abbiamo i muscoli! Volete forse che piazziamo un po’ di anthrax nella Casa Bianca? O Smallpox-B sopra Times Square? — La sua espressione mi fece ridere. — Che c’è, credevi che potessimo usare le bombe all’idrogeno? No, non vogliamo distruggere delle ottime proprietà immobiliari.
— Ma le armi biologiche sono… — S’interruppe, accigliato. Stava per dire che erano contro le leggi internazionali o qualcos’altro.
— Dopo il Salt Due — spiegai, — dovevamo fare qualcosa. Perciò abbiamo lavorato in altre direzioni.
— Cos’è il Salt Due? — chiese. Poi sbuffò: — No, all’inferno, non voglio lezioni di storia da te. Tutto quello che voglio è che ve ne torniate tutti quanti da dove siete venuti e ci lasciate in pace. E dubito che lo farete. Se ti interessa saperlo, voialtri mi date il voltastomaco.
Che razza di testardo era! Avrei potuto esser fiero di quel me stesso, se non fosse stato così irritante. — Dom! — esclamai. — Voi pure vi stavate preparando, in un modo o nell’altro… altrimenti perché lavoravate a questo progetto, qui alla Casa dei Gatti?
— Perché… — cominciò lui, e tacque. La sua espressione era già una risposta. Cambiò argomento: — Hai una sigaretta?
— Ho smesso — rivelai, soddisfatto.
Lui annuì con fare pensoso. — Non credevo che avrebbe funzionato sul serio — mormorò.
— Però ci stavi provando, ragazzo, no? Così dove sta la differenza? Noi non facciamo nulla che non avreste fatto anche voi, se aveste finito queste ricerche prima di noi.
— Questo… questo è da vedersi — disse. Onesto, da parte sua. Non aveva detto «Questo non è vero».
— Allora, vuoi darci una mano a convincere il tuo presidente?
Stavolta non ebbe esitazioni: — No.
— Neppure per salvare, forse, moltissime vite umane?
— No, neppure per questo. La resa è da escludersi, Dom… e non sono sicuro che pur di salvare la vita a pochi americani accetterei di veder uccidere qualche milione di russi.
Lo fissai stupefatto. Era mai possibile che io — in ogni incarnazione — fossi un tale sciocco smidollato? Ma lui non aveva l’aria di uno smidollato. Si appoggiò allo schienale della seggiola, scrutandomi, e d’un tratto parve più alto e più sicuro di sé. — Avanti, qual è la cosa che ti preoccupa, Dominic? — chiese.
— Che vuoi dire? — sbottai.
Lui enumerò i pensieri mentre gli venivano alla mente: — Mi sembra che ci sia qualcosa di cui non mi hai parlato, e che ti preoccupa. Forse posso indovinare cosa. O forse ne sono lontanissimo. Il motivo per cui sono stato chiamato qui è che c’era qualcun altro che annusava attorno. E apparentemente era a conoscenza di ciò che voi sareste venuti a fare. Se fossi al tuo posto credo che mi preoccuperei molto di lui. Chi è? Da dove viene? A cosa mira?
Avrei dovuto saperlo che era difficile tener segreto qualcosa a me stesso. Non ero mai stato un ingenuo, tantomeno nelle vesti di quel senatore. Aveva messo il dito proprio sulla piaga… o su una delle piaghe.
Dissi, sottovoce: — Viene da un tempo parallelo, Dom.
— Questo l’avevo capito anch’io — borbottò, impaziente. — Vi ha già fatto altre visite?
— No. Non esattamente. Non lui. — Ma non volevo parlargli dell’altro visitatore, quello che avevamo catturato e che ora sedeva in una tenda dall’altra parte del portale, sotto sorveglianza, arrovellato dal timore che i suoi potessero rintracciarlo e fargli pagare l’aiuto che ci aveva dato nella realizzazione del portale. — Comunque abbiamo avuto un visitatore. Forse più d’uno.
— Continua.
Dissi: — Hai mai sentito parlare del «rimbalzo»?
— Rimbalzo in che senso?
— Nel senso di «azione e reazione». Quando tu oltrepassi la pellicola, o qualsiasi altra cosa sia, che separa un universo dall’altro c’è una specie di effetto di conservazione della massa. Qualcosa se ne va, qualcosa deve prenderne il posto.
Si accigliò. — Vuoi dire che altre persone vengono spostate avanti e indietro?
— Non proprio persone. È complicato. Dipende dal tipo d’urto che questa pellicola subisce. Qualche volta è solo energia: luce, oppure onde sonore. Qualche volta masse d’aria trasportate avanti e indietro. O anche piccole cose… uccelli in volo, magari. E qualche volta è molto di più.
— E questo sta accadendo qui?
Di malavoglia ammisi: — Sembra di sì, Dom. E non solo qui.
Si alzò e andò a guardar fuori dalla finestra. Lo lasciai riflettere. Da sopra una spalla disse: — Ho l’impressione che voialtri abbiate trovato il modo di scoperchiare il vaso di Pandora, Dom. — Io non feci commenti. Si girò a guardarmi. — Vuoi procurarmi delle sigarette, per favore? — disse stizzosamente. — Questa faccenda è dura da prendersi con calma.
Per un momento mi chiesi se seguire la linea dura con lui o meno. Decisi di no. — Figurati. I polmoni sono tuoi. — Premetti i pulsanti dell’intercom sulla scrivania finché non ebbi scoperto quale corrispondeva al locale delle ordinanze, e chiesi che la sergente Sambok portasse da fumare. — Dunque — dissi, — vediamo di quadrare intanto questa faccenda. Vuoi aiutarci?
— No — disse semplicemente lui.
— Neppure davanti al rischio di cui ti ho parlato? Neppure quando in ogni caso la tua patria non ha difesa contro di noi?
— Tu hai voluto entrare in questa faccenda, Dominic. Tuo è il compito di portarla avanti. Senza di me. — Il suo tono era definitivo. Si volse alla porta, da cui stava entrando Nyla Sambok con una stecca di sigarette PX per le forze armate.
E tutto ad un tratto il mio poco amichevole doppione lasciò perdere la recita del prigioniero nome/grado/numero di matricola, per assumere un’espressione completamente diversa.
Che diavolo gli stava succedendo? I suoi occhi s’erano sbarrati sulla sergente come dinnanzi a uno spettro. Non avevo mai visto tanto sbigottimento, rabbia e angoscia su un volto umano… tantomeno sul mio!