Il Vice Capo Ispettore William Brzolyak, entrando nel Distretto del suo quartiere con una 45 automatica in mano, ha riferito d’aver ucciso la moglie e i cinque figli perché lo stavano guardando troppo fissamente. «Avrebbero dovuto lasciarmi in pace», ha dichiarato ai giornalisti.

I bagnanti che frequentano le spiagge del South Side si sono lamentati della presenza di strane palline nere, di materiale unto e appiccicoso, che renderebbero spiacevole la permanenza in acqua e costituirebbero un possibile rischio per la salute.

Il temporale estivo che ha riversato 20 cm di pioggia nei sobborghi di New York nel breve periodo di un quarto d’ora, è stato descritto dal portavoce dell’Ufficio Meteorologico degli S. U. come un «capriccio del clima». Sembra che fino a poco prima nella zona non fossero stati segnalati addensamenti nuvolosi, né aree di bassa pressione. I danni alle proprietà private nelle Contee di Queens e di Richmond sono stimati in molti milioni di dollari.


18 Agosto 1983
Ore 11,15 del mattino — Nicky DeSota

A un giorno di distanza la cosa non sembrava più così preoccupante. — Soltanto un errore d’identità — assicurai a Greta quando chiamò per salutarmi. Stava di nuovo partendo per New York.

— Anche le impronte digitali?

— Avanti, Greta! — sospirai, gettando uno sguardo al mio boss che mi stava tenendo d’occhio pensosamente, e un altro all’orologio da cui risultava che avevo un paio d’ore prima di presentarmi al tribunale del traffico. — Tu lo sai bene dov’ero quella notte.

— Si, naturalmente — disse, col tono di chi si chiede se al mondo c’è qualcosa di cui essere sicuri. Riflettei che quello doveva essere l’effetto su chi veniva interrogato dall’FBI. Potei sentirla sbadigliare. — Per l’amor di Dio — si lamentò. — Spero di farcela a non addormentarmi, in viaggio. Tutto per causa di quei rumori, stanotte.

— Quali rumori? — Io non avevo sentito niente, però ho un sonno a prova di bomba.

— Quella spece di ruggito, non te ne sei accorto? Come dei tuoni. Solo che non erano tuoni… scusami — aggiunse, e sentii che parlava a qualcun altro con la mano sul ricevitore. Poi: — Scusa, tesoro, ma hanno finito il carico. Devo andare. Ci vediamo fra un paio di giorni.

— Ti amo — dissi, ma ormai parlavo a un telefono riattaccato. Tuttavia Mr. Rupert stava facendo rotta su di me, così continuai in tono professionale: — Certo… è un piacere trattare con clienti come voi. Vi porterò senz’altro le quote, certo. I miei ossequi alla signora.

Riappesi, gli dedicai un sorriso blando e mi immersi con solerzia nei documenti che avevo sulla scrivania. Finivo sempre con l’accumularne a pacchi per i miei momenti di «tempo-interno». Quella però era roba da sbrigare in giornata, quote di pagamento che dovevo preparare per clienti residenti in sei diversi comuni. Dato che ogni comune ha le sue norme di sicurezza e antincendio — e di conseguenza diversi premi assicurativi — e poiché ciascun cliente aveva posizioni diverse in termini di credito bancario e modalità di pagamento, impiegai quelle due ore lavorando alla calcolatrice. Avevo sperato di potermi fermare in un ristorante sulla strada per Barrington, ma fui fortunato se riuscii ad acchiappare al volo un hot dog e un’aranciata a un incrocio. Arrivai là giusto due minuti prima delle 13,30 (ora segnata sul modulo del verbale) il che significava che ero in ritardo. Non in ritardo per l’udienza, intendo. Il giudice non c’era, e probabilmente non si sarebbe fatto vedere per un altro quarto d’ora, come ci si aspetta che faccia un giudice. Ma tutti gli altri avevano già consegnato il tagliando, ricevuto il numero d’ordine e preso posto in aula. Anche a me fu dato un numero. A quella sessione erano stati convocati 42 contravventori. Io ero il numero 42.

Andai a sedermi in fondo all’aula e cercai di fare un calcolo a occhio. Quarantadue casi. Diciamo, per essere ottimisti, una media di un minuto e mezzo a caso. Questo voleva dire che il giudice si sarebbe occupato di me da lì a un’ora o poco più. Per consolarmi pensai che non mi sarei comunque annoiato, visto che avevo la ventiquattr’ore piena di relazioni di credito da esaminare. Avrei potuto starmene seduto lì in ultima fila e dedicarmi alle mie carte.

Aprii la valigetta, allineai la prima mezza dozzina di fogli e mi guardai attorno, sentendomi a posto e in pace con tutti. Era interessante, per uno che non aveva mai messo piede in un tribunale del traffico. Il banco del giudice era all’interno di una specie di recinzione, fiancheggiato da due bandiere. A sinistra c’era la Vecchia Stelle e Strisce, con le sue quarantotto stelle su sfondo blu; a destra quella bianca dell’Illinois. E fra loro…

Fra loro, sul muro, c’era una scritta. Diceva:


VIETATO FUMARE
VIETATO MANGIARE
VIETATO BERE
VIETATO LEGGERE
VIETATO SCRIVERE
VIETATO DORMIRE

Dunque quel pomeriggio non sarebbe stato produttivo come avevo supposto.

In via sperimentale decisi di tenere aperta la ventiquattr’ore sulle ginocchia, ma l’esperimento si stava già rivelando fallimentare: un tipo grassoccio con l’uniforme del Dipartimento di Polizia di Barrington era già in marcia verso di me per vedere cosa stavo facendo. Però non c’era un divieto contro il fatto di tenersi semplicemente sulle ginocchia materiale per scrivere o da leggere, cosicché non mi ordinò di metterlo via. Ma chiunque avrebbe potuto vedere che aspettava appena un indizio: il fruscio della penna, una parola abusivamente letta con la coda dell’occhio, e le sue manette sarebbero state inesorabili.

Lo tranquillizzai col mio sorriso da bravo cittadino e mi volsi all’uomo che sedeva due posti alla mia sinistra. — Calduccio qui dentro, no? — dissi. — Si direbbe che abbiano acceso il riscaldamento.

— Il riscaldamento qui non funziona — rispose. Non disse altro. Non c’erano cartelli che vietassero di chiacchierare, però lui non voleva correre rischi. Alla mia destra una voce spiegò:

— Funziona benissimo, solo che questo tribunale non può permettersi di far salire la bolletta dell’elettricità. — Mi girai. Un giovanotto snello e dall’aria vivace mi stava sorridendo. Indossava giacca e pantaloni candidi come la neve, e sulla sedia vuota accanto a lui era deposto un panama anch’esso bianco. Roba fine e delicata, pensai. — Un guaio che qui sia vietato dormire, no? — aggiunse. — Specialmente dopo che uno è stato tenuto sveglio tutta la notte da quel maledetto fracasso.

Ancora quei rumori. Rivelai che io non avevo sentito cadere una piuma, e tanto lui che l’individuo alla mia sinistra furono felici di fornire particolari. Un rombare dal cielo, capisce? No, non come quello di un aereoplano: con un aereoplano potete distinguere il motore; quello non era un motore, era più come una specie di ruggito… anche se, ripensandoci, sembrava provenire dalla zona dell’aeroporto. Midway? No, non Midway, semmai quel piccolo campo d’aviazione privato a nord ovest. Frutteto Vecchio lo chiamano, anche se qualcuno vuole cambiargli il nome in Aereoporto O’Hare. Ma, ragazzi! Quel frastuono era veramente qualcosa. All’esclamazione parecchi si volsero ad annuire — tutti salvo io, che non potevo vantarmi d’aver udito — e probabilmente saremmo andati avanti a parlarne per un’aitra mezz’ora se l’usciere del tribunale non avesse annunciato: — Suo Onore Timothy P. Magrahan. Tutti in piedi.

E ci alzammo. Sudando nella toga di seta nera Suo Onore entrò, e girò attorno lo sguardo di un attore che valuta senza alcun entusiasmo una misera platea. Quando ci venne consentito di sedere di nuovo tossicchiò ed esordì con un breve discorsetto:

— Signore e signori, molti di voi, oggi qui presenti, sono accusati d’infrazioni alle norme del traffico. Ora, io non so come voi la pensiate in merito, ma in quanto a me, non intendo prendere cose simili alla leggera. Un’infrazione al codice stradale non è mai da ritenersi lieve o irrilevante. Assolutamente mai. Un’offesa al traffico è un’offesa contro il sistema dei trasporti civili. E un’offesa contro il sistema dei trasporti è un’offesa contro i bravi popoli che ne rendono possibile il funzionamento… i nostri amici del Medio Oriente, incluso lo stesso Mekhtab ibn Bawzi. E un’offesa contro i nostri amici del Medio Oriente è un’offesa contro i principi di tolleranza religiosa e di democratica amicizia fra popoli che…

Non fui troppo sorpreso quando il giovanotto vivace dal vestito bianco mi sussurrò all’orecchio che il giudice Magrahan s’era candidato per la rielezione, il prossimo Novembre. Mentre lui proseguiva con l’informarci che un’offesa contro il Corano era un’offesa contro la religione in generale, inclusa la nostra giudaico-cristiana, cominciai a capire che quella mia contravvenzione poteva essere una cosa seria. L’unica speranza che avevo di cavarmela a buon mercato stava nella possibilità che il firmatario del verbale non si presentasse in aula. Ma quella fortuna non l’avevo avuta. Lungo la parete destra dell’aula c’era una panca, e fra gli agenti li seduti — due della polizia statale, gli altri con uniformi di comuni diversi — c’era la mia conoscenza dell’incrocio sulla Meacham Road. Sapeva che io ero in aula. Non diede alcun cenno d’avermi riconosciuto, ma di tanto in tanto m’accorsi che guardava dalla mia parte.

Il primo caso che andò davanti alla Corte fu una donna giovane e malmessa, con un pargolo che frignava nella carrozzina, colpevole d’aver guidato a 68 miglia all’ora in un tratto dove il limite era di 60 miglia. Venti dollari di multa e sospensione della patente per sei mesi. Il secondo caso era più grave: guida in stato di ubriachezza, inosservanza di un segnale di «stop» e svolta pericolosa. Si trattava di un giovane neppure ventenne, e non poté uscire libero dall’aula: un poliziotto lo portò via ammanettato, in attesa della sentenza definitiva, e mentre usciva potei vedere che si guardava i pollici impensierito, come se non si aspettasse di goderne ancora a lungo.

Misi da parte la valigetta e strinsi i denti. Non ero il solo a non preoccuparmi più del caldo, lì dentro. La strategia elettorale del giudice Magrahan sembrava ormai chiara: perdere il voto di chi gli capitava sotto le grinfie gli costava molto meno di quel che avrebbe guadagnato indossando la candida armatura del crociato in difesa della sicurezza delle strade nazionali.

C’era inoltre da considerare — e lo considerai — che molti di coloro che attendevano la sentenza provenivano da altri comuni, come il sottoscritto, e di conseguenza il giudice poteva non tenerne conto nel suo conteggio dei voti.

Trascorse così una mezz’ora durante la quale il giudice fece sentire il peso della giustizia a una ventina di persone, l’una dopo l’altra. Decisi che quella doveva essere la mia settimana nera. L’Agente Capo Nyla Christophe m’aveva fatto passare un’ora d’inferno, ma alla fine ero riuscito a venirne fuori. Con quel giudice invece non avevo speranza. Nel frattempo il mio vicino in completo bianco s’era messo a girare qua e là nell’aula come un amico di famiglia a un picnic, fermandosi a chiacchierare con questo e con quello. Ma solo quando lo vidi chinarsi a parlare all’orecchio del poliziotto che mi aveva multato cominciai a prestargli davvero attenzione. Il poliziotto lo ascoltò, si volse a gettarmi un’occhiata poco amichevole, tornò ad ascoltarlo, ed io m’irrigidii. Allorché un paio di minuti più tardi i due uscirono insieme dall’aula, sempre parlando fra loro, fui tentato di seguirli. Ma all’estremità interna della mia fila stazionava il poliziotto che sorvegliava il buon comportamento del pubblico, e costui mi dissuase dall’alzarmi con un’occhiata cupa. Rimasi seduto. Per un po’. Quando, due minuti dopo, la curiosità ebbe la meglio sulla prudenza, era già troppo tardi.

— I gabinetti? — sussurrai al sorvegliante. Lui mi indicò col pollice esattamente la porta che speravo. Ma quando fui lì potei soltanto constatare che l’uomo in bianco e il poliziotto s’erano volatilizzati.

Quando infine, mezz’ora più tardi, l’impiegato chiamò il mio nome, il giudice confabulo sottovoce con un altro usciere. Poi mi fissò accigliato. — Mr. DeSota — brontolò. — Il pubblico ufficiale che vi ha notificato la convocazione in quest’aula è stato chiamato altrove da urgenti affari di polizia, e non può dunque testimoniare contro di voi. Di conseguenza, a termini di legge, non mi resta che chiudere il caso. Voi siete ancora un uomo libero, Mr. DeSota. E se posso dirlo, siete anche un uomo molto fortunato.

Fui perfettamente d’accordo con lui.

Ero così felice d’essere uscito senza danni da quella situazione che solo a mezza strada verso casa mi resi conto d’aver lasciato suonare il telefono senza rispondere. Fermai a una stazione di rifornimento, e intanto che mi facevano il pieno richiamai il Centro Messaggi. Stavolta non avevano fatto pasticci con la sintonia, e l’operatrice aveva scritto ogni parola, cosicché fu il testo stesso della chiamata a lasciarmi perplesso. Mi venne ripetuto con puntigliosa chiarezza:

— Non è necessario che lei sappia il mio nome, né perché mi occupo di quello che le succede, né perché io so chi è lei e cose simili. Ma se vuole aiuto da Lady Senzapollici ordini un sandwich al tonno al Carson Pirie Scott Coffee-Shop, questa sera alle sei.

— E questo è tutto? — chiesi.

— Sì, signore — rispose la centralinista, molto dolce, molto competente. — Desidera che ripeta il messaggio? No? In tal caso mi lasci dire, signore, che sono proprio i messaggi occasionali di questo genere a rendere il mio lavoro molto molto divertente! Buonasera, Mr. DeSota, e tante grazie.

— Grazie a lei, Voce di Miele — dissi, e restai lì a fissare il parabrezza finché il benzinaio bussò al finestrino. — Scusi — dissi, e tirai fuori il portafoglio… sessantanove cents al gallone! Se avessi notato i prezzi di quel distributore non mi sarei fermato lì neppure con tutte le gomme a terra.

Ma il pensiero mi svani subito dalla mente; ero troppo occupato ad arrovellarmi su quel messaggio. E sulla falsa identificazione compiuta dall’FBI. E sulla facilità con cui me l’ero cavata al tribunale del traffico. E sulle varie altre stranezze che stavano infestando la mia vita e il mondo. In circostanze normali avrei ignorato una comunicazione così sibillina. Era proprio il genere di situazione melodrammatica da cui una persona di buon senso preferisce stare alla larga. Dedicare tempo a quella faccenda avrebbe significato, tanto per cominciare, rubare tempo prezioso al lavoro che mi forniva di che vivere, rinunciando al colloquio con qualche cliente desideroso di stipulare un’ipoteca. Il mio boss non ne sarebbe stato entusiasta. E la cosa si presentava abbastanza equivoca. Andare in quel posto poteva farmi finire, magari, in un guaio da cui non sarei uscito con facilità.

Naturalmente ci andai.

Una volta Greta ed io stavamo leggendo insieme un romanzo dove uno dei personaggi pronunciava all’incirca questa frase: «La vidi entrare in un grande magazzino, uno di quei posti dove le donne sono nel proprio elemento ma in cui pochi uomini le seguono volentieri». E Greta aveva protestato che quella frase denigrava le donne. — Alle donne non piace far compere — aveva detto. — È solo che devono farlo. Tocca a loro comprare il cibo o gli oggetti per la casa, e tutte le cose di cui una famiglia ha bisogno.

— Non comprano le automobili — avevo puntualizzato io.

— No, naturalmente. Non si occupano delle spese maggiori — era stata d’accordo lei. — Ma acquisti del genere si fanno solo una volta ogni qualche anno. Per tutto il resto bisogna provvedere con acquisti quotidiani. E se una donna spende un sacco di tempo a far compere, lo fa perché il suo lavoro è questo: valutare i prezzi, calcolare le necessità. È così che amministra il denaro del capofamiglia. E che le piaccia o meno, deve farlo comunque.

— Giusto, dolcezza — avevo sorriso io.

Il mio sogghigno non le era piaciuto. — No, Nick, dico sul serio! Non devi dire che alle donne piace far compere. Devi dire che questo è il loro lavoro.

— Però, Greta — avevo cercato di farla ragionare, — guarda la cosa obiettivamente, vuoi? Come puoi affermare che una donna è stata denigrata, quando di lei si è detto che il suo lavoro le piace? Anche a me piace il mio lavoro.

— Questa non è la stessa cosa — aveva brontolato lei, ma rinunciando al tono mordace, e poi aveva cambiato argomento. Sapeva essere accomodante. Non era una suffragetta, Greta. Non di rado dichiarava che se avesse avuto il diritto di voto non avrebbe saputo cosa farsene. Tuttavia c’era il fatto che aveva un buon lavoro come stewardess, e questo la rendeva un po’… be’, non voglio dire mascolina. Un po’ indipendente, certo. Ma quelle erano solo chiacchiere, naturalmente, e se mi fossi deciso a farle la domanda fatidica sapevo cos’avrebbe risposto. E una volta sposati avrebbe lasciato perdere quelle strane idee.

Idee che però mi davano un po’ da pensare, ogni tanto.

In quel momento le mie preoccupazioni erano assai più immediate. Ciò che mi aveva fatto ripensare a quella conversazione era stata la vista dell’interno del Carson Coffee-Shop, su cui la frase di quel romanzo avrebbe potuto essere appiccicata come un’insegna. C’erano almeno cento clienti sparsi nel salone — tovaglie verdi ai tavoli, sedie in velluto verde, piante in vaso dappertutto — e novantacinque di loro erano donne. Non c’erano uomini soli. Qua e là c’erano coppie, l’uomo generalmente più anziano e con un’aria da «Oh, cielo! Sono entrato nella toeletta delle signore!» stampata sul volto.

Suppongo che fu questo a farmi presumere che a lasciarmi il messaggio misterioso fosse stata una donna. Il che dimostra quanto siano degne di fiducia le mie intuizioni.

Venti minuti dopo, la terza volta che una cameriera anzianotta passò a chiedermi se volevo ordinare qualcosa, risposi di sì. Ci vollero altri venti minuti prima che il mio sandwich al tonno arrivasse.

E un quarto d’ora più tardi — mentre esibivo ancora metà del panino come segnale di riconoscimento — sentii qualcuno avvicinarsi a passi svelti alle mie spalle. L’uomo scostò la sedia e si sedette di fronte a me.

Lo conoscevo. Non portava più il panama e l’abito bianco, ma qualche ora prima quello era stato il suo colore.

— Be’, salve — dissi. — Avrei dovuto immaginare che era lei.

La cameriera si stava già muovendo; lui la incoraggiò con un cenno poi mi sorrise ampiamente. — Allora, come va? — esclamò, col tono di una vecchia conoscenza di lavoro. Ma se conosceva il mio nome non ne fece uso, limitandosi a — Parecchio che non ci vediamo, eh? — e altre frivolezze senza aspettare che gli dessi risposta. Quando la cameriera ebbe preso la sua ordinazione e se ne fu andata, abbassò la voce: — Non è stato seguito fin qui. E in sala non c’è nessuno che la sorvegli. Possiamo parlare.

Permisi a me stesso di tollerare ancora un po’ il mistero della faccenda. Raccolsi il mezzo sandwich e fra un boccone e l’altro lo studiai meglio. Decisi che aveva due, forse tre anni meno di me. Un volto aperto, lentigginoso, capelli color sabbia. Proprio il ragazzo della porta accanto, quello da cui non vi aspettereste mai atti meschini o comportamenti furtivi. Solo che si stava comportando parecchio furtivamente. — Di cosa stiamo per parlare? — chiesi, con la bocca piena di tonno e di mollica. — E con chi ho il piacere, comunque?

Ebbe un gesto impaziente. — Mi chiami Jimmy. Il nome non importa. Quel che conta è: cosa stava facendo ai Laboratori Daley?

— Ah, Jimmy! — sospirai tristemente. Rimisi nel piatto i resti del sandwich. — Questa è una cosa stupida — dissi. — Torni dall’Agente Capo Christophe e le dica che lo scherzetto non ha funzionato.

Mi fissò in silenzio e con un lieve cipiglio intanto che la cameriera arrivava col suo sandwich di prosciutto e formaggio. Poi disse: — Non è uno scherzo.

— Invece non è nient’altro che uno scherzo, Jimmy. Io non mi sono mai avvicinato ai Laboratori Daley, e lei e Christophe lo sapete bene.

— Non mi prenda per il bavero — disse. — Loro hanno le sue foto.

— Sono malriuscite, o false.

— E le impronte digitali? Malriuscite anche quelle?

Strinsi i denti. — Qualunque prova abbiano per dimostrare che ho cercato di penetrare in quei laboratori sabato notte è un falso, per il semplice motivo che non ero là.

Cominciò a mangiare il sandwich, analizzandomi con occhi insospettiti. Io analizzai lui. Non solo era più giovane di me, ma anche più alto ed elegante. E gli piaceva vestire alla moda. Il completo bianco che aveva indossato in tribunale era un po’ troppo vistoso, mentre quello che gli vedevo adesso era probabilmente di taglio inglese. Non doveva averlo pagato meno di 75 dollari. E le sue scarpe non provenivano certo dalla vetrina di «All’Onestà, da Joe». D’un tratto disse: — Nyla è convinta che i testimoni a sostegno del suo alibi abbiano mentito.

Mordicchiai il rimasuglio del mio sandwich. Lo deposi di nuovo. — Come sa quello che pensa Nyla Christophe, se non è dell’FBI?

— Siamo amici — spiegò. — Ho un sacco di amici nella polizia… non solo all’FBI. Dovrebbe averlo capito.

— So quello che ha fatto — osservai. — Non so perché l’abbia fatto.

— Perché non dovrei fare un favore a qualcuno, se mi va? — disse. — Torniamo ai suoi testimoni. Hanno mentito?

— No! E anche se fosse, verrei a dirlo a lei? Ma dicevano la verità.

Terminò il suo sandwich in silenzio e senza smettere di studiarmi con gli occhi, come se un impercettibile mutamento della mia espressione avesse potuto fornirgli le risposte che voleva. Lasciai che se la prendesse con calma. Ingoiai l’ultimo boccone del sandwich, bevvi il caffè e feci cenno alla cameriera di portarmene un’altra tazzina. Lui alzò la sua per chiedere il bis, e quando la donna fu di nuovo fuori portata d’orecchio ammise: — Detto fra noi, sono propenso a credere che non abbiano mentito.

— Lieto di saperlo.

— Ah, non stia a fare tanto il duro con me, Dominic. È nei guai fino al collo, lo sa?

Non lo sapevo affatto. — La Christophe mi ha detto che potevo tornarmene alle mie faccende — obiettai.

— E perché non avrebbe dovuto? Tanto non potrebbe lasciare la città, neanche se ci provasse. Non ha ancora finito con lei.

— Perché no, maledizione?

— Perché — spiegò, — le foto e le impronte non possono mentire.

— Ma io in quel posto non c’ero!

— Giuro che mi sembra sincero. Anche i suoi testimoni, e questo è un boccone duro da mandar giù. Secondo me voialtri potreste perfino passare un test col lie-detector.

— E perché no? Non abbiamo detto una sola parola falsa.

— Oh, al diavolo, Dominic! — esplose. — Non si rende conto d’aver molto bisogno di aiuto?

— E lei si è ficcato in capo di aiutarmi?

— Io? No — disse. — Ma conosco qualcuno che può farlo. Paghi il conto, Dominic, e andiamo a fare una corsetta in auto.


Era pieno Agosto e il sole non tramontava fin verso le otto di sera, ma dovunque stessimo andando s’era già fatto buio molto prima che ci arrivassimo. Fin da quando Jimmy aveva girato a sud, fuori dalla periferia di Chicago, il traffico s’era fatto scarsissimo. Oltrepassammo miglia e miglia di campi coltivati a grano, dozzine di piccoli centri abitati, e ogni volta che chiesi al sedicente Jimmy quale fosse la nostra destinazione lui scosse la testa. — Meno ne sa — disse, — meno guai può dare a se stesso e ad altri.

— Cosa stiamo andando a fare, allora? Io non sono uno specialista delle ore piccole. Ho un lavoro, e ci si aspetta che di buon mattino…

— Quello che ha adesso — spiegò con pazienza, rallentando a un semaforo, — è un guaio con l’FBI. E se non riesce a venir fuori da questo, tutti gli altri le sembreranno roba da ridere.

— Ah, sicuro, Jimmy. Però…

— Però stia calmo e si rilassi — ordinò. — Siamo quasi arrivati. È appena fuori di questa città.

Quella «città», a dar retta al cartello stradale, era un posto chiamato Dixon, Illinois, popolazione 2250, riunioni del Rotary e Lion Club ogni giovedì e venerdì all’Holiday Inn. La Main Street ci condusse a una piazza dove un cannone da 75 mm della seconda guerra mondiale campeggiava in mezzo alle aiuole, e lì Jimmy sterzò con uno stridio di pneumatici in una strada privata.

A chi la strada appartenesse, non era possibile capirlo. Non c’era alcun cartello tipo «Benvenuti a Villa Pratinfiore» o «Attenti ai cani», niente che permettesse d’identificare il luogo né che facesse sentire minimamente benvenuto chi arrivava. Al contrario. Ciò che distingueva quella strada da qualsiasi altra era solo la cancellata che la sbarrava subito dietro la prima curva. Fuori dal cancello c’era un casotto di legno, davanti al quale una guardia in uniforme ci ordinò con un gesto di abbassare i fari.

— Documenti, prego — disse. Jimmy gli passò qualcosa dal finestrino. Non vidi che razza di tessera fosse, ma dovette sembrargli soddisfacente. O meglio, quasi soddisfacente. Ci ponderò sopra per un po’, mordicchiandosi un labbro, andò a un telefono e ne discusse con qualcun altro al capo opposto del filo, quindi apri il cancello e ci fece segno di passare.

Un quarto di miglio più avanti la strada si divise in due intorno a una fontana posta al centro di uno spazio circolare. Girammo intorno al prato e rallentammo sulla ghiaia di fronte alle massicce colonne bianche di una scalinata marmorea. Avevo già visto un posto simile: era lì che abitava Rossella O’Hara in Via col vento. E i servi in livrea sembravano usciti dallo stesso film. Un giovanotto di colore ci apri la portiera con un inchino, e portò via l’auto di Jimmy verso un’invisibile rimessa dietro un frutteto di meli in fiore. Comparve una negra grassa e anzianotta che ci scortò in casa. Non chiamò Jimmy per nome, e in quanto a me parve considerarmi invisibile. Non fece domande. Non volle rispondere a ciò che le venne chiesto. La lista di cose che non intendeva fare per noi sembrava piuttosto lunga. Ci guidò in silenzio attraverso un largo andito, da cui una scala coperta da una passatoia rossa s’incurvava verso il piano superiore, oltrepassammo un corridoio, una specie di soggiorno dove campeggiavano un enorme caminetto e alcune poltrone massicce, e finalmente aprì una porta a vetri per immetterci in quella che sembrava un incrocio fra una serra e una piscina coperta. Fuori faceva caldo. Lì dentro era due volte più caldo. Dovunque s’ergevano piante tropicali, alcune alte fino al soffitto a vetri, e non mancavano gli alberi coperti di rampicanti. L’aria era satura di profumi vegetali misti al sentore d’humus e foglie marce.

La vasca che ne occupava il centro era una piscina lunga e stretta, nella quale stava nuotando un uomo. Era anziano e, vidi, completamente nudo. La cosa non sembrava dargli alcun imbarazzo, anche perché era occupatissimo a gareggiare con se stesso. Toccò il fondo della piscina con una mano e grugnì: — Novantotto! — poi ripartì verso l’altra estremità battendo il crawl australiano o qualcosa di simile. — Novantanove! — E tornò indietro mettendocela tutta. Infilava le mani in acqua con aggraziata cautela, girava la testa bianca dalla parte opposta per espellere il fiato e i suoi piedi battevano otto volte per ogni bracciata. — Cento! — disse, e ansimando s’aggrappò al bordo della vasca. Un altro giovanotto di colore, serio e contegnoso, gli porse un largo asciugamano mentre si tirava a sedere sulle mattonelle. L’uomo si massaggiò la faccia, quindi ci elargì un sogghigno. — Salve, gentiluomini — disse.

Io emisi un rumore che non era esattamente un «buonasera» ma suonò abbastanza rispettoso. Jimmy fu assai più espansivo. Andò ad accovacciarsi sul bordo della piscina, agguantò una mano bagnata dell’anziano nuotatore e gliela stritolò con entusiasmo.

— Ron — esordì, sprizzando umiltà e commossa deferenza da tutti i pori. — Non so dirti quanto ti sia grato per averci voluto ricevere a quest’ora.

— Di niente — rispose lui, cortese. — D’altronde, Larry, hai detto che si tratta di un caso significativo di diritti civili.

— Sì, direi proprio così — annuì «Jimmy» compunto, evitando con cura di voltarsi a vedere se avevo captato il nome. — Riguarda Dominic, qui. Ha un problema… uh, insolito con l’FBI. Affermano d’averlo sorpreso mentre penetrava in un’installazione di ricerche segrete del governo. E hanno fotografie e impronte digitali per provarlo. Ma lui ha dei testimoni insospettabili pronti a giurare che in quello stesso momento si trovava a mille miglia da lì.

Ron aveva estratto le gambe dalla piscina e si stava asciugando. Dimostrava settant’anni suonati, ma quando vidi la robustezza del suo corpo alto e asciutto mi augurai di poter arrivare ai sessanta in quelle condizioni fisiche. E non solo lo trovai in forma; lo trovai anche stranamente familiare. Finì di asciugarsi, gettò l’asciugamano sulle piastrelle e permise al domestico negro d’infilargli un accappatoio immacolato. — Non faccio più l’investigatore privato da cinematografo, Larry — disse, ghignando, e finalmente compresi perché mi sembrava di conoscerlo. Era un attore. O lo era stato, comunque. Del cinematografo. Non una delle grandi stelle, ma aveva una di quelle facce che vi restano nel subconscio finché poi non le rivedete in un altro vecchio film. La sua era apparsa anche nei giornali scandalistici. Scandalo? Be’, no, un qualche genere di guaio piuttosto. Non ricordavo i particolari, salvo che era stato costretto a ritirarsi a vita privata. Una faccenda in cui c’entrava la politica, forse…

Qualunque cosa fosse, era successa molto tempo prima. Negli anni cinquanta, proprio quando io ero pronto per venire al mondo. E adesso il vecchio Ron passava da poco la settantina, se calcolavo giusto. A parte la solidità fisica aveva conservato una faccia simpatica, un sorriso accattivante, e se si fosse tinto i capelli avrebbe potuto tornare a calcare la scena con buon successo.

Questa almeno fu l’impressione che mi diede.

Il vecchio Ron volse le spalle alla piscina e ci fece strada di nuovo nell’imponente salotto. In quei due minuti qualcuno era venuto ad accendere il fuoco nel camino, e aveva deposto un vassoio con bottiglie e bicchieri su un basso tavolo da caffè. Un terzo domestico negro, forse l’addetto al focolare e ai beveraggi in quella zona della casa, si materializzò per chiederci cosa gradivamo bere, mentre Ron si sedeva nella poltrona più vicina al camino e con l’ausilio di un panchetto protendeva i piedi nudi verso la fiamma. S’era scordato che eravamo in Agosto? Potevo capire che dopo cento vasche avesse freddo alle dita, ma ero sicuro che per scongelarsele doveva esserci un sistema più pratico che riscaldare l’intera dannata stanza.

Quando avemmo i nostri drink lui alzò il suo in un muto brindisi, ne mandò giù metà in un sorso e quindi elargì a me e a «Jimmy» il suo sogghigno accattivante. — Allora, Larry — disse. — Che razza di disperata mammoletta mi hai portato stavolta?

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