La giovane veterinaria aveva appena ventiquattr’anni ed era terrorizzata. S’insaponò e si sciacquò sotto la doccia sei volte di seguito, come le era stato ordinato, e completamente nuda uscì nella sconosciuta camera da letto di quella fattoria, dove il capitano dell’esercito la stava aspettando. A spaventarla non era il fatto d’essere nuda davanti a un uomo, mentre lui le passava il contatore Geiger su ogni centimetro di pelle, gli orecchi tesi allo sporadico crepitio dell’apparecchio. — Sembra che vi siate lavata via tutta la polvere — dichiarò infine il militare. — Avete detto d’aver trovato altro bestiame in queste condizioni? E polvere come questa dappertutto? — Lei annuì, ad occhi sbarrati. — Potete rivestirvi. Penso che siate a posto — disse lui. Ma nel guardarla uscire non riuscì a trattenere un brivido. Fallout radioattivo! Un miglio quadrato di terreno ricoperto da particelle altamente radioattive… lì, a neanche quaranta miglia da Dallas, quando non erano in corso esperimenti atomici da nessuna parte, per quel che ne sapeva. Era un enigma senza risposta. Ma intanto quel pensiero lo raggelava fino all’osso… cosa sarebbe successo se la nuvola di particelle mortali fosse ricaduta nel cuore della città?


26 Agosto 1983
Ore 6,40 del mattino — Nicky DeSota

Stavo sognando che Mrs. Laurence Rockefeller mi aveva incaricato di stipularle ipoteche su tutto il complesso di appartamenti da seicento milioni di dollari che aveva sul lungolago, solo che voleva partire con una rata mensile di centocinquanta dollari e tutta in monetine da dieci cents… e quando finalmente avevo il contratto pronto, lei non poteva firmare perché non aveva i pollici. Poi il sussulto dell’aereo che toccava la pista mi svegliò, e la prima cosa che mi chiesi non fu dove mi trovavo, né cosa mi sarebbe accaduto, ma se Mr. Blakesell aveva saputo del mio arresto in tempo per mandare qualcuno dai tre clienti che avevo lasciato in sospeso. Io non potevo farci niente, naturalmente.

E non c’era nessun’altra cosa che potessi fare, perché ero stato ammanettato alla spalliera del sedile di fronte. Il mio primo volo sulla lunga distanza a bordo di quel nuovo grosso quadrimotore Boeing era stato un’interminabile tortura. Avevo sofferto su quella poltroncina per sette ore, oltre alle due fermate intermedie, mentre sotto di me scorrevano centinaia o forse migliaia di miglia. Ma i dolori che avevo addosso me li portavo dietro da prima che mi spingessero su per la scaletta dell’aereo, con le mani imprigionate dietro la schiena e quel ringhioso agente dell’FBI, Moe Nonsochi, che mi minacciava di tutte le condanne del codice qualora avessi parlato, o cercato di fuggire, o tentato di levarmi il cappello e quel velo sulla faccia che mi avevano messo per evitare che chiunque potesse riconoscermi. Lui sapeva tutto sui dolori con cui ero giunto all’aeroporto. Aveva lavorato duramente per procurarmeli.

Dovevo ammettere ormai che quella gente dell’FBI, uomini e donne, la sapevano lunga su come far male senza lasciarvi un segno addosso.

Al di là del passaggio centrale anche l’altro prigioniero, lui pure con cappello e velo sulla faccia, s’era svegliato. Potevo vederlo muovere la testa. La sua guardia continuò a russare vigorosamente come la mia, intanto che l’aereo rullava avanti lungo una pista che si sarebbe detta senza fine.

Almeno ero fuori da quella cella di sicurezza nel loro quartier generale di Chicago dove avevo trascorso la più parte degli ultimi… quanti erano stati? Giorni, di sicuro, anche se nessuno mi aveva detto quanti. Era stato un soggiorno assai sgradevole, malgrado la compagnia di un gruppetto d’individui socialmente indesiderabili (sindacalisti sulla via del campo di concentramento, speculatori falliti, negri che non avevano voluto stare al loro posto) ma avevo finito per trovarli amabili, a confronto di quelli che ogni tanto venivano a prendermi per interrogarmi ancora. Da me non avevano saputo nulla, naturalmente. Io non avevo nulla da dire… ma, mio Dio, quanto avrei desiderato averlo!

Poi Moe era venuto a scuotermi dal sonno, mi aveva fatto fare il corridoio a spintoni e da lì a non molto m’ero ritrovato su un aereo. Diretto il Cielo sapeva dove.

No. Sia il Cielo che io sapevamo dove, adesso, perché attraverso il velo e il cristallo del finestrino potevo vedere il terminale di un piccolo aeroporto. Su di esso una grossa insegna augurava:


BENVENUTI AD ALBUQUERQUE,
NEW MEXICO
Altitudine 5196 piedi

Il New Mexico, sant’Iddio! Cosa potevano volere da me nel New Mexico?

Ovviamente Moe non si sarebbe preso la briga di dirmelo. La hostess venne a battergli su una spalla per svegliarlo, e subito lui si sporse a scuotere l’altra guardia, ma tutto ciò che disse a me fu: — Ricorda quel che ti ho detto. — Con un cenno lo tranquillizzai sulle mie capacità mnemoniche. Ci fecero aspettare finché tutti i passeggeri furono scesi dal Boeing, poi ci fecero aspettare ancora un po’, mentre i meccanici controllavano qualcosa dei grossi motori e un’autocisterna riforniva i serbatoi di benzina a 100 ottani.

Poi alla porta del terminal comparve un uomo che alzò un pollice verso Moe, in attesa al finestrino.

Le manette scattarono e fui fatto incamminare verso l’uscita, ma mi costò uno sforzo non vacillare qua e là ed evitare d’inciampare sulla scaletta. Io e l’altro prigioniero venimmo indirizzati alla porta di un terminal che sembrava esser stato costruito come scenario per un musical d’ambiente latinoamericano. C’era gente che ci guardava. I curiosi più vicini furono scostati con un cortese «Circolare!» e una spinta, ma non erano molti, perché gli scagnozzi dell’FBI non erano difficili da riconoscere e la gente sapeva quand’era il caso di tirar via diritto. Fuori c’era una grossa auto. Moe mi affiancò sul sedile anteriore, e l’altro prigioniero con la sua guardia sedettero dietro. Una macchina della polizia cittadina ci fece strada, l’autista diede gas e le schizzammo dietro. A velocità fin troppo sostenuta attraversammo la cittadina e quindi girammo sulla statale, che serpeggiava verso una zona collinosa.

Dopo quasi un’ora di corsa apparve un crocevia, e l’auto rallentò rapidamente. Era una terra quasi desertica, le strade silenziose si allontanavano verso i quattro punti cardinali, e gli unici edifici erano una stazione di rifornimento ed un motel. L’insegna sull’ufficio diceva: «LA CUCARACHA — Il riposo del viaggiatore». L’ultimo nome che io avrei mai dato a un motel.

E se fossi stato un viaggiatore desideroso di riposarmi, la vista delle guardie armate sul vialetto mi avrebbe incoraggiato a riposare altrove.

Le guardie, comunque, erano un tocco decorativo a cui cominciavo ad assuefarmi. Così c’erano segni buoni e segni cattivi. Quello cattivo consisteva nel proseguimento della mia detenzione. Quello buono nel fatto che la detenzione sarebbe proseguita a Leavenworth o in un campo consimile, dove mi avrebbero tenuto finché non fossero stati pronti a farmi uscire… se ne sarei uscito. Doveva essere una delle isolette nell’arcipelago dell’FBI. Non potevano aver intenzione di trattenermi a lungo. Avrebbero dovuto lasciarmi andare.

Come alternativa, dal motel «La Cucaracha» poteva uscire di me appena quel che bastava per essere rimandato a casa per la sepoltura.

Non ebbi il tempo di farmi altre domande. Il mio silenzioso collega ed io fummo spinti in una delle piccole stanze, dove ci venne ordinato di sedere sul bordo del letto e starcene quieti, mentre Moe si piazzava sulla soglia con gli occhi fissi su di noi e l’altro faceva il palo all’esterno. Non dovemmo aspettare per molto. Da lì a poco la porta batté sulle spalle di Moe, che si tolse di mezzo senza neppure guardare chi era.

A entrare fu Nyla Christophe, con le mani unite dietro la schiena.

Portava un cappellino da sole e occhiali neri. Come al solito la sua espressione era indecifrabile, ma potrei dire che ci esaminò con pensosa indifferenza… quella stessa indifferenza con cui il cane s’arrota i denti sul solito vecchio malridotto osso. La sua voce non ebbe nulla di spiacevole salvo il fatto che era la sua voce, quando disse: — Va bene, voialtri due, adesso potete togliervi quei veli dalla faccia.

Farlo mi diede un certo sollievo, visto che eravamo nel deserto e stavo sudando. L’altro uomo si mosse invece lentamente e controvoglia, e levandosi il velo rivelò un’espressione offesa, spaventata, infelice… tutti sentimenti che m’ero aspettato. Ma ciò che non m’ero aspettato era che quell’espressione appartenesse alla faccia di Larry Douglas.


Fino ad allora ero stato assolutamente certo che Larry Douglas aveva una parte di colpa nelle mie disgrazie di quegli ultimi giorni. Come, non lo sapevo. Perché, non potevo neppure immaginarlo. Così non mi misi a piangere nel vederlo preso nella stessa trappola in cui m’aveva aiutato a cadere… solo che questo rendeva tutto molto più confuso per me. Se aveva riferito a Nyla Christophe ciò che gli avevo detto quando mi aveva trascinato a far visita a quel vecchio attore in disuso, perché era prigioniero come me? E cosa stavamo facendo lì nel New Mexico?

Notai con stupore che Douglas aveva le mie stesse perplessità. — Nyla — disse, sforzandosi inutilmente di avere una voce ferma. — Cosa diavolo significa tutto questo? I tuoi ragazzi sono piombati in casa mia e mi hanno trascinato giù dal letto, senza neppure dirmi una parola…

— Tesoruccio — disse dolcemente lei, — tappati la bocca. — Malgrado gli occhiali neri, lui poté vedere abbastanza della sua espressione da deglutire a vuoto. Tacque. — Così va meglio — approvò lei. Girò appena la testa. — Moe?

— Sì, miss Christophe?

— Il laboratorio mobile è già qui?

— Parcheggiato proprio dietro il motel. È tutto pronto.

Lei annuì. Si tolse cappello e occhiali e sedette nell’unica e consunta poltrona di cui era fornita la camera. Senza voltarsi a guardare protese una mano di lato. Moe le infilò una sigaretta fra l’indice e il medio, poi fece scattare l’accendino. — È possibile — disse lei, — che voi due siate puliti, in questa faccenda. Ma ci sono alcune cose che dovete chiarire.

— Oh, finalmente, Nyla! — gemette Douglas. — Io lo sapevo che doveva essere tutto un malinteso!

Ed io riuscii a chiedere quello che, con mia vergogna, ammetto di non aver chiesto neppure a me stesso in quei giorni: — Cosa ne è stato della mia fidanzata e degli altri, miss Christophe?

— Questo dipende da voi, DeSota. Se il piccolo test che adesso faremo andrà come io penso, tutti loro saranno rilasciati.

— Grazie al cielo! Uh… di quale test sta parlando?

— Quello che vi verrà fatto adesso — disse. — Avanti, Moe, faglielo. — E lasciò la camera, facendo entrare l’altra guardia con una valigetta metallica dietro cui venne un individuo in camice bianco con una valigia in mano anche lui.

Non potei fare a meno di ripiegarmi su me stesso; ma subito fu chiarito che Moe non si apprestava a picchiarmi ancora. Ciò che misero in atto prese parecchio tempo, tuttavia non era nulla di spiacevole… be’, non fu neanche troppo divertente. Mi presero le impronte digitali e quelle delle scarpe; mi presero varie misure degli orecchi e la distanza fra le pupille. Mi prelevarono campioni di sangue, di saliva e di pelle, quindi dovetti orinare in una bottiglietta e defecare in un vaso di carta. Non fu cosa breve. L’unico elemento che la rese meno detestabile fu che il mio detestabile compagno di prigionia — l’anguilla dei tribunali Larry Douglas, il mio cospiratore del Carson coffee-shop, l’uomo che mi aveva fatto sprecare una serata dai Reagan a Dixon, Illinois — dovette fare le stesse cose che facevo io.

E gli piacquero ancor meno. Moe e l’altra guardia esibirono all’improvviso una sensibilità delicata e preferirono uscire a sorvegliarci dalla finestra; così, intanto che il tecnico del laboratorio si dava da fare, Douglas e io potemmo parlare un poco. La mia prima domanda fu quella su cui più m’ero arrovellato: — Chi diavolo sei tu? Una specie di federale travestito?

Aveva l’aria di un cane bastonato, e la sua risposta fu un grugnito: — Grattati la rogna tua, DeSota. — Fissò cupamente il mio sangue che risaliva in una siringa, premendosi un dito sulla vena dell’avambraccio dove il silenzioso tecnico aveva appena salassato lui.

— E allora cosa sei? L’amichetto di Nyla Christophe? Il suo complice? Il suo prigioniero?

Lui borbottò appena: — Sì. — Abbassò i pantaloni e si lasciò prendere un campione di pelle da una natica. — Se fossi al tuo posto, DeSota — disse, ostile, — non mi preoccuperei tanto degli altri. Hai un’idea del guaio in cui sei infognato?

Gli risi in faccia. Tutti i dolori e le miserie del mio corpo non stavano facendo altro che dirmi in che guaio ero. — Comunque — pùntualizzai, — lei ha detto che forse siamo puliti, e allora di cosa dovrei preoccuparmi?

Mi guardò fra la pietà e il disgusto. — Questo è quel che ha detto, certo. Ma le hai sentito dire anche che sarai rilasciato, per caso?

Fui costretto a deglutire un groppo di saliva, prima di replicare: — Di che accidenti stai parlando, Douglas? — Lui scosse le spalle e si volse a guardare il tecnico, senza rispondere. Da lì a poco l’uomo raccolse i campioni e mise gli strumenti nelle valige, poi se ne andò. Le guardie non rientrarono, anche se le potevamo vedere sedute sulla balaustra che si facevano vento e guardavano verso la strada. Al di là di essa, sulla linea ferroviaria, stava passando un elegante treno passeggeri, e con una stretta al cuore ripensai a Greta. Dissi, ancora: — Di che stai parlando? Lei ha detto che probabilmente ci farà rilasciare…

— Non «noi», DeSota. Loro. I testimoni, che non sanno niente. Tu sei un esemplare del tutto diverso. Tu sai molte cose.

— Ah, sì? — Mi frugai nel cervello e continuai a trovarlo vuoto. — Buon Dio, uomo, se non so neppure cosa vuole da me!

Strinse le palpebre. — La principale cosa che sai è che c’è qualcosa da sapere. Ed è la cosa più grossa. Come hai fatto a trovarti in due posti nello stesso momento?

— Come ho fatto cosa? — esclamai.

— Ma sai che è successo questo — insisté. — Perciò sai che è possibile. E sai che qualcuno… diciamo un criminale, può fare qualcosa, diciamo commettere un delitto, e tuttavia avere un centinaio di testimoni insospettabili pronti a giurare che lui era qualcun altro. Gesù, ragazzo! Sai cosa significherebbe per uno come me? Voglio dire uno che avesse bisogno di questo genere di alibi? — si corresse.

— Ma non so come sia potuto succedere — gemetti.

— L’unico a crederti sono io — sbottò acidamente. — Svegliati un po’. Credi davvero che Nyla ti rimanderà a casa, perché tu possa dire ad altri come hai fatto?

Sedetti, scosso da quelle parole.

Riuscivo a vedere la logica di quel ragionamento. E correva voce che i campi di lavoro dell’FBI fossero pieni di gente in possesso di informazioni che non era permesso rendere pubbliche. Se quello era il mio caso…

Se io ero uno di loro la mia prossima destinaziome non sarebbe stata Chicago. Sarebbe stata una pista fangosa nelle Everglades, a scavare canali di drenaggio ed a lottare coi coccodrilli… o una foresta nevosa dell’Alaska, a buttare giù alberi per aprire strade fra le miniere e le raffinerie. O qualunque altro posto. Dovunque. E quello, c’era da starne certi, sarebbe stato il mio indirizzo permanente, almeno fino al giorno in cui i miei segreti non sarebbero più stati segreti di qualche importanza.

O fino al giorno della mia morte, se fosse venuto prima quello. Ed ero abbastanza sicuro che dopo un paio d’anni di campo di lavoro non mi sarebbe importato molto quale delle due cose accadesse per prima.


Quando l’ombra dell’asta della bandiera sull’aiuola si fu accorciata fino a sparire, col sole praticamente a picco, ci portarono dei sandwich di prosciutto e formaggio, avvolti in carta oleata, e un orripilante caffè, il tutto partorito dalle viscere di un distributore a moneta della stazione di servizio. Stavo morendo di fame, ma quei sandwich mi diedero la nausea. Li misi da parte. Quando la porta si riaprì preparai la tazza e gli involucri per restituirli a Moe.

Ma lui e l’altra guardia non erano entrati per quel motivo. Si fecero da parte e dietro di loro venne Nyla Christophe. Sul suo volto c’era un sorrisetto annacquato. In una mano priva di pollice aveva una bottiglia di champagne, e la reggeva contro il petto per non rischiare di perderla. — Congratulazioni, ragazzi — annunciò. — Avete superato il test. Siete sempre gli stessi.

Né Douglas né io dicemmo una parola. Lei fece il broncio. — Oh, tesoruccio — disse a Douglas con una risatina (non fu esattamente una risatina rassicurante). — Non capisci che questo è il mio modo per dirti che mi dispiace? Bicchieri — ordinò, senza alzare la voce, e uno degli scagnozzi s’affrettò ad arrivare con un vassoio del motel. Lei mosse appena il capo; le guardie uscirono. Poi diede la bottiglia a Douglas.

— Così vanno le cose, carino — gli disse, mentre l’uomo, guardando più lei di quel che stava facendo, svolgeva il tappo con automatica destrezza. — Lieta di vedere che non hai perduto il tuo tocco.

C’era qualcosa nell’aria di lui (fra bellicosa e preoccupata) e nella dolcezza di lei (meno ironica di quel che voleva far credere) che mi confuse alquanto. Di qualunque genere fosse, la loro relazione non era certo quella che avrei supposto fra un agente federale e il suo informatore.

Ci fu il pop del tappo che veniva via del tutto.

Douglas versò. Nyla Christophe accettò il primo bicchiere, cingendolo abilmente con le sue quattro dita. — Sai di cosa sto parlando? — Dopo un lieve singulto (quella non doveva essere la sua prima bottiglia di champagne della giornata, pensai) guardò me. Io scossi la testa. Lei disse: — No, lo supponevo. Gli esami sono andati bene: stesso sangue, stesse ossa, stesse impronte. Voi siete gli stessi di prima… e il mio rapporto è già in strada per il Quartier Generale, dove fra non molto andrò a risiedere anch’io. Così brindiamo a Nyla Christophe, forse futuro direttore capo dell’intero dannato Bureau!

E io brindai col suo dannato champagne. Brindai, un po’ perché non ero particolarmente ansioso di contrariarla, un po’ perché un sensale d’ipoteche non si vede passare sotto il naso tutti i giorni quella roba d’importazione, e un po’ perché non sapevo cos’altro fare. Forse Douglas aveva ragione! Forse la faccenda era davvero così grossa da procurare una promozione a Nyla Christophe… e in quel caso forse aveva anche ragione per tutte le altre sue spiacevoli dichiarazioni.

Mi chiesi cos’avrebbe fatto Greta se non l’avessi rivista mai più. Mi avrebbero permesso di scriverle? O di dirle addio?

Quel che Nyla Christophe aveva detto non poteva essere una buona notizia per me. Tuttavia Douglas pensò che lo fosse per lui. — Questa è grande, bambola! — si entusiasmò. — Ragazzi! Gliela farai vedere a quelli di Washington. E ascolta me: ho un mare di idee per te! Questa faccenda di due soggetti con la stessa identificazione… dico, hai mai riflettuto su quel che può significare per il Bureau? Ad esempio, per infiltrare organizzazioni sovversive? Naturalmente non so ancora come funziona, ma…

La Christophe lo lasciò andare a ruota libera, con un sorrisetto sognante dipinto sul viso. Gli si accostò, annui e gli poggiò amichevolmente una mano su una spalla. — Caruccio — disse con affetto. — Sei davvero divertente. Comico.

Lui deglutì. — Tu… non vuoi prendermi con te? — balbettò.

— Prenderti con me? Questa è l’ultima fottuta cosa che farei mai, Larry, dolcezza.

Lui arrossì. — E allora lasciami perdere, dannazione! Se le cose stanno così, non ci guadagni niente a venirmi a lisciare a questo modo!

Lei lasciò svanire il sorriso. Bisogna dire che era veramente una gran bella femmina, quando voleva. Agli angoli della bocca le rimasero impercettibili increspature. — Larry — disse, morbida, — può darsi che ci sia qualcuno con cui vado a letto, quanto intendo fare quella cosa sul serio. Ma tu non sei certo uno di questi.

Io non avevo idea di quel che voleva dire. Lui, ovviamente, sì: divenne grigio in faccia. — Tu non sai un accidente — continuò la Christophe. — La cosa è molto più grossa di quel che potresti mai immaginare. — Si volse a me. — Vuole sapere cosa c’è in ballo?

Oh Dio, se lo volevo! Non riuscii neppure a rispondere. Ma lei me lo lesse in faccia e proseguì: — Vediamo di cominciare dal principio. Supponiamo…

Esitò. Poi scosse le spalle e con una smorfia ci mostrò le mani, a dita tese, esibendo la mancanza dei pollici come una sorta di oscena nudità. — Supponiamo che quando avevo diciassette anni non mi fossi messa nei guai con la legge. Supponiamo che io avessi avuto un’adolescenza normale. La mia vita sarebbe stata molto differente, no? — Le accennai che potevo fare lo sforzo d’immaginarlo, ma la mia fantasia non arrivava a elucubrare ipotesi. Douglas, abbacchiato, guardava altrove. — Così potrebbe esserci una vita in cui sono cresciuta e diventata quella che sono oggi. Giusto? E potrebbe essercene un’altra in cui sono diventata… oh, non saprei. Una musicista. Magari una suonatrice di violino.

La sua faccia era impassibile, ma dalla luce che le colsi negli occhi mi parve che stesse aspettando di vedere se mi sarei messo a ridere a quell’idea. Non risi. — Capite, c’è stato un tempo in cui questo mi sarebbe piaciuto — disse. — E il fatto è che non potete dire che una di queste possibilità è reale e l’altra soltanto immaginaria. Non più. Perché entrambe sono reali. Tutte le possibilità sono reali, forse. È solo che noi viviamo in una di queste possibilità, e non possiamo vedere le altre.

Indagai l’espressione di Douglas. Era confuso quanto me, e molto più preoccupato… probabilmente, pensai con un filo d’ansia, perché aveva le idee più chiare delle mie su quel che ci sarebbe capitato.

— Al diavolo tutto questo! — rinunciò lei all’improvviso. — Venite e vi farò vedere. Moe!

La porta si aprì all’istante. Nyla spostò di lato il grosso individuo e ci accennò di seguirla. Fuori c’era un sole rovente. Tenendole dietro notai che non camminava in linea retta… un po’ per via dei tacchi alti sulla ghiaia, un po’ perché si boccheggiava per l’afa, e un po’ a causa dello champagne. Ma ebbi l’impressione che fosse già come ubriaca del suo futuro. Ci fece strada fino a un’altra camera, davanti alla quale stazionava un agente dell’FBI. Un cenno di Nyla Christophe e l’uomo aprì la porta. Lei guardò dentro poi si volse a me e a Douglas.

— Date un’occhiata — ci invitò. — Qui ci sono due buone possibilità per voi.

Non avevo ancora la più pallida idea di dove volesse andare a parare, comunque feci quel che mi veniva detto. Nella stanza c’erano due uomini. Uno era seduto in un angolo e si stava cautamente spalmando di crema il volto e il collo. A torso nudo era uno dei più bei casi di scottature solari che avessi visto, e in corrispondenza del colletto gli era rimasta una V di fiamma sulla pelle. Poiché si massaggiava gli zigomi, ciò che vidi della sua faccia fu solo una maschera di crema.

L’altro era più vicino. Giaceva immobile sul letto, ad occhi chiusi. Stava russando. Aveva l’aria di aver passato dei brutti momenti, e non intendo quei brutti momenti che si passano nelle mani dell’FBI. Sembrava mezzo morto. E sembrava anche, o meglio era…

— Douglas! — rantolai. — Ma quello sei tu!

Douglas non poté aprir bocca. La vista del dormiente l’aveva colpito assai più di me e lo fissava a occhi sbarrati, respirando come se fosse prossimo a strangolarsi. Vedendolo incapace di parlare fui io a fare quella domanda: — Cosa gli è successo?

Nyla Christophe si strinse nelle spalle. — Oh, sta bene. A parte l’insolazione e le scottature, si è fatto mordere da un serpente. Ma il dottore gli ha fatto qualche iniezione e dice che entro domani sarà come nuovo. Però, adesso, perché non date un’altra occhiata al suo amico, eh? — suggerì.

Fu quello che feci. S’era voltato e mi stava guardando. La sua faccia era piena di striature rosse e di crema bianca, ma anche così era una faccia che potevo riconoscere senza equivoci.

— Mio Dio! — sussurrai. — Dunque lui è l’uomo dei Laboratori Daley!

— Non proprio — mi corresse allegramente Nyla. — O almeno, lui dice di no. Ha detto un sacco di cose, DeSota, cose che lei non crederebbe. Ha parlato in continuazione fin da quando il macchinista di un treno li ha raccolti nel deserto, la notte scorsa. Afferma che tutte le possibilità sono reali, esistono, e che ci sono altri identici a lui nell’una o nell’altra di queste possibilità. Ma non ha ancora afferrato il punto, DeSota. La cosa che più di ogni altra afferma, e che tutti gli esami hanno confermato, è di essere lei.

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