Quando la squadra delle pulizie entrò nel McCormick Place Auditorìum per prepararlo allo show «Stelle sul Ghiaccio» di quella sera, le luci disturbarono un pipistrello. — Come diavolo ha fatto a entrare? brontolò il caposquadra. Ma il problema era come farlo uscire prima che aprisse il botteghino. Tuttavia la faccenda si risolse da sola. Il grosso pipistrello svolazzò attorno selvaggiamente per un po’. Infine, mentre la larga porta di servizio veniva aperta per far passare un carrello, indovinò l’uscita. Nessuno pensò più alle dimensioni insolite del volatile. Nessuno rifletté che questo poteva essere importante… finché nelle settimane successive gatti randagi, cani lasciati fuori casa la notte, e da ultimo anche esseri umani, non cominciarono a morire per il virus dell’idrofobia che il pipistrello aveva portato con sé.


27 Agosto 1983
Ore 8,40 della sera — Mrs. Nyla Christophe Bowquist

La direzione dell’albergo fu molto cortese ma mi fece sloggiare dal mio grazioso appartamento. Neppure l’intervento di Slavi riuscì a impedirlo, perché dopo l’occupazione della Casa Bianca tutti gli ultimi piani dell’albergo erano stati riservati alla Presidentessa e al suo staff. Ma il direttore mi scovò una camera al quinto piano, e per far cessare le sue giaculatorie sospirai che la trovavo ottima. Conteneva un letto per me e uno per Amy. A lei non dava fastidio ascoltare i miei esercizi, e certo non c’era nessun’altra ragione al mondo perché lei o io agognassimo alla nostra intimità. Non le visite di Dom, visto che Dom non era in circolazione. Non le chiamate telefoniche di mio marito, da Chicago, perché queste erano comunque rare. Neppure Ferdie, ormai, riusciva a spuntarla con le linee sovraccariche di Washington.

Questo era un sollievo, perché ancora non ero riuscita a chiarirmi le idee circa quello che avrei dovuto dire a Ferdie.

Non riuscivo a chiarirmi le idee su nessun fatto della mia vita, a quanto pareva. In primo luogo, rimanere in zona di guerra era assurdo e irragionevole. Ma in realtà ero in trappola. L’aeroporto era in mano al nemico, e così i ponti sul Potomac e quasi ogni strada che portava fuori dalla capitale, perché le truppe di quella gente avevano scaglionato posti di controllo praticamente dappertutto. Quando avevo smesso di gingillarmi con l’ipotesi se prendere o meno l’ultimo volo in partenza per Rochester, non c’erano più voli per Rochester, e si sentivano colpi d’arma da fuoco in tutti i quartieri della città, dove la gente s’era chiusa in caos.

La radio diceva che non si trattava di scontri gravi. Io non ero d’accordo. Quando guardavo dalla finestra vedevo colonne di fumo dalla parte di Anacostia, o la sommità mozza del monumento a Washington (i loro soldati avevano pensato che i nostri soldati avessero piazzato dell’artiglieria lassù), la situazione risultava fin troppo grave per i miei gusti.

Così, quando Jock McClenty bussò alla porta e andai ad aprire, ero preoccupatissima.

Non mi aspettavo buone notizie. Non riuscivo a immaginare da dove potessero sbucar fuori delle buone notizie, in quel deprimente e piovoso sabato sera. E nel vedere l’assistente di Dom, con a fianco l’uomo del Servizio Segreto, il mio primo pensiero fu che eravamo tutti quanti in arresto. — Mrs. Bowquist — disse Jock. — Si tratta del senatore. È tornato. In questo momento è qui all’albergo, e ci ha mandati per condurvi da lui.

Be’, quel che accadde fu che scoppiai in lacrime. Secchi di lacrime. Non so neanche perché, veramente. Forse perché me le ero tenute negli occhi già in tante diverse occasioni che ormai un niente bastava a farmi aprire i rubinetti. E ci volle un bel po’ prima di chiuderli. Scendemmo nell’atrio, oltrepassammo un posto di controllo della polizia, un altro del Servizio Segreto, salimmo in ascensore in un’altra ala dell’albergo, e a questo punto stavo ancora singhiozzando.

Di sopra, premendomi sul naso uno dei cinque o sei kleenex che l’uomo del Servizio Segreto mi aveva fornito (che simpatico addestramento davano a quei giovanotti!) uscii e mi guardai attorno. Era un appartamento che faceva sembrare quello da cui m’avevano sfrattata una capanna di contadini cambogiani. Un duplex, con tappeti alti fino alla caviglia. Finestre stile cattedrale in un salone dal soffitto alto dieci metri. La prima persona che vidi fu Jackie Kennedy, che in piedi davanti a una finestra parlava con qualcuno, e la seconda persona che i miei occhi misero a fuoco fu quel qualcuno stesso.

Era Dom DeSota.

— Dom! — gemetti, e corsi verso di lui, sempre tirando su col naso.

Era Dom, sicuro, ma non mi guardò come mi avrebbe guardato Dom, e non disse quel che mi avrebbe detto Dom, e non sorrise come avrebbe sorriso Dom. Quando lo abbracciai odorava di tabacco da pipa e di un dopobarba che non gli avevo mai sentito sul viso, e soprattutto fece una cosa che Dom non avrebbe fatto mai.

Mi spinse via.

Oh, lo fece gentilmente, perfino benevolmente, ma mi spinse via lo stesso. Cosicché ero annichilila dalla sorpresa quando Jackie mi mise una mano su una spalla e disse: — Nyla, cara? Lui è quello sbagliato.


Be’, le cose tornarono al loro posto allorché mi girai, perché quello giusto si trovava lì anche lui. Era a metà della scala semicircolare che portava al piano di sopra, all’appartamento della Presidentessa, ma appena mi vide venne giù di corsa e alla fine il mio abbraccio lo ebbi. Dapprima non disse niente. Si limitò a tenermi stretta. Anch’io strinsi lui, ed ero così felice che se Marilyn e Ferdie fossero stati lì, con un fotografo da una parte e un avvocato divorzista dall’altra, li avrei lasciati a godersi la scena senza minimamente guardarli. Poi lui rilassò un poco la sua stretta, mi guardò negli occhi, mi baciò e sospirò: — Oh, amore! — E gettò uno sguardo cauto alle sue spalle.

Sul pianerottolo la segretaria per gli appuntamenti della Presidentessa stava tossicchiando con aria impaziente. — Vai pure, Dom, adesso — dissi dolcemente. — Quando tornerai io sarò qui.

Così lui era sparito di nuovo, e Jackie stava cercando di spiegarmi quel che succedeva, e dall’altra parte Jock McClenty faceva la stessa cosa, e alla fine io riuscii a spiegare a loro che non m’interessavano tanto quei chiarimenti quanto la possibilità di rinfrescarmi un po’. E subito dopo mi fecero entrare in una stanza da letto che doveva esser stata disegnata per un califfo — specchi fin sul soffitto e, santo cielo, un Picasso autentico su una parete — oltre la quale c’era un bagno dove non mi meravigliai di trovare rubinetti d’oro.

Fu un bene che avessi avuto il modo di rimettermi a posto, perché quando uscii dalla stanza da bagno dello zar nella stanza da letto del califfo scoprii che questa era stata trasformata nel recinto di riunione per tutti noi.

Quando dico «tutti noi» non intendo affatto «tutti noi». Intendo più «tutti» e più «noi» di quel che abbia mai inteso dire in vita mia. Il mio Dom era tornato — la Presidentessa l’aveva rispedito fuori per confabulare privatamente con un paio di generali — e Dom ed io eravamo, naturalmente, i più grossi «noi» della mia vita. Ma li c’erano tre lui. E se ci aggiungevo la faccia di quello che avevo visto soltanto alla TV avrei potuto contarne quattro.

E c’erano due me.

Avevo avuto una grande difficoltà psicologica ad accettare il fatto che esisteva un altro Dom oltre il Dom che amavo, ma signori miei, non seppi che cos’era una difficoltà psicologica finché non mi trovai faccia a faccia con un’altra me stessa. Mi fece ricordare la volta che, due o tre anni prima, Ferdie ed io eravamo andati a Winsconsin Dells per cercar di salvare il nostro matrimonio. Avevo lasciato il mio siamese, Panther, nell’appartamentino di Amy perché me lo tenesse lei, insieme alla sua gatta persiana Poo-Bear. Chi conosce i gatti sa cosa sia un’invasione di territorio: fu un incontro poco felice. La prima cosa che Poo-Bear fece fu di schizzare sopra uno scaffale colmo di chincaglieria, scaraventando al suolo metà degli animaletti di ceramica di Amy. E la prima cosa che fece Panther fu di schizzare sotto la libreria. Non soffiarono, né si sfidarono con minacciosi miagolii. Si limitarono a guatarsi dai due capi opposti della stanza per tutto il tempo che io restai lì… anche se poi Amy mi disse che mezz’ora più tardi si stavano già leccando a vicenda.

Fu molto simile a quel che accadde fra me e l’altra Nyla, benché fosse del tutto da escludersi la possibilità che ci leccassimo l’un l’altra. Lei sedeva in un angolo, fissando me e ogni tanto scambiando una parola con un individuo che le stava accanto, un tipo alto uno e novanta e largo come un armadio, dalla faccia poco raccomandabile. Io sedevo su un divanetto Queen Anne con la testa su una spalla di Dom, il mio Dom, e gli stringevo una mano, mentre lui provava a raccontarmi quali cose, quali stupefacenti cose, gli erano accadute dall’ultima volta che ci eravamo visti. E le due noi, cioè Nyla-io e Nyla-lei, continuavamo a fissarci a vicenda.

Sebbene la stessi studiando più attentamente di quanto non avessi mai fatto con un’altra donna, non notai che era priva dei pollici finché fu Dom a sussurrarmelo. Questa non era l’unica differenza. L’espressione del suo volto era diversa da qualunque espressione io avessi mai visto sul mio allo specchio… cinica? Falsa? Forse perfino invidiosa? Comunque fosse, lei era me.

E io ero molto, molto grata al cielo per il modo in cui il braccio di Dom mi cingeva le spalle.

Con tutto quello che stava succedendo non c’è da meravigliarsi se non notai subito l’altra cosa strana. Che ci fossero tre Dom nella stessa stanza era abbastanza spiacevole; la presenza di una seconda Nyla era peggio. Ma noi non eravamo i soli doppioni. Quando infine potei distogliere lo sguardo dall’altra Nyla abbastanza da prestare attenzione agli ospiti, vidi che Kennedy stava parlando con due uomini identici al mio vecchio amico Lavrenti Djugashvili, e costoro guardavano me.

Shto ete, Lavi? — domandai all’uno e all’altro, imparzialmente, attraverso la camera. Entrambi si mostrarono perplessi.

Dom rise e mi strinse più forte contro la sua spalla. — Nessuno dei due è l’ambasciatore — disse. — In questo momento lui è all’aeroporto, ad accogliere certi scienziati russi che vengono a consultarsi con noi.

— Oh, Dio! — mi lamentai con una risatina, solo perché era meglio che piangere. — E quei due sono tutti?

— Non ce ne sono solo due — spiegò, serio, — ma un numero infinito, temo. Di me e di te, però, ci sono soltanto un me e una te che contano. Cerchiamo di vederla a questo modo.

Così d’un tratto mi parve che ci fossero altri due di «noi» nella stanza, benché questi ultimi due fossero solo immaginari. E riuscivo a vederli chiaramente entrambi: Marilyn da una parte e Ferdie dall’altra, e le loro facce erano piene di angoscia, di rabbia e di accuse.

Era una fortuna che fossero solo immagini, almeno in quel momento, anche se più tardi sarebbero diventati fin troppo reali. Chiusi la mente a quei pensieri. — Se questa è una proposta — dissi, — la accetto. Non voglio che qualcosa ci separi ancora. A parte le mie tournée, dico.

— E a parte le mie campagne elettorali — sorrise lui. — Te lo prometto.

È stupefacente la facilità con cui potete fare una promessa che sapete quanto vi sarà difficile mantenere.

Tuttavia Marilyn e Ferdie esistevano, e noi dovevamo loro un minimo di discrezione almeno fino al momento in cui saremmo giunti a una spiegazione con loro. Malgrado tutto — malgrado le cose strane che stavano accadendo e il fatto che, appena fuori da quelle finestre, la mia patria veniva invasa — riuscivo ancora a preoccuparmi del comune senso del pudore. Specialmente quando notai che John Kennedy ci sbirciava con la coda dell’occhio non senza un filo d’apprensione, mentre parlava coi doppioni di Lavi.

Arrossii e mi raddrizzai sul divano. Non sgusciai fuori dal braccio di Dom, ma mi spostai un tantino. Lui ebbe una riflessione di quel genere nello stesso momento. Lo sentii assumere una posa più formale.

Subito dopo però tornò ad accostarsi a me, e il suo braccio mi cinse più forte. Orgogliosamente. Quasi con sfida. Oh, all’inferno, pensai: avevamo oltrepassato i limiti concessi alla discrezione. Se la nostra relazione era mai stata un segreto, adesso quel segreto non c’era più.

Il lusso di quell’appartamento non finiva coi rubinetti d’oro del bagno. C’era una cucina annessa, un cuoco dell’albergo, un aiuto-cuoco e una cameriera. — Mangiamo un boccone — disse Dom, il mio Dom. — È già tutto pagato dai contribuenti. — Così cenammo, e scoprii d’avere un formidabile appetito. Lo stesso avrei detto dei viaggiatori del Paratempo, che sembravano non aver toccato cibo da fin troppe ore e intenzionati a porvi rimedio. Facemmo anche conversazione. Io non vi presi parte molto attivamente, perché volevo sapere cosa stava succedendo ed ero più interessata ad ascoltare.

Fu Dom a dare il maggior numero di spiegazioni, e John Kennedy a fare il maggior numero di domande. — C’è un milione di queste linee temporali, Jack — disse Dom. — No, non un milione: un milione di miliardi, forse. Penso che la parola giusta sia infinità.

— Notevole — disse John. — Mai l’avrei immaginato. — Sedeva di fronte a noi tenendo lievemente una mano di Jackie, come Dom stava facendo con me. Desiderai che quando fossimo giunti alla loro età il nostro amore fosse vivo allo stesso modo, a dispetto del nostro infelice e adulterino inizio. (Ma c’erano state tutte quelle storie fra John e Dio sa quante donne, molti anni prima, e il loro matrimonio sembrava esser sopravvissuto).

— Possiamo raggiungere facilmente soltanto i più vicini — disse Dom. — Il dottor Dom, qui — e annuì amichevolmente verso quello che m’aveva visto piombargli addosso, e che scrutava il suo piatto di falafel con aria dubbiosa, — ne sa molto più di me sull’argomento.

L’altro Dom inghiottì il boccone. — Sono simili al vostro e al mio — aggiunse, — ma ci sono, naturalmente, varie differenze. In quello che vi sta aggredendo il Presidente è Jerry Brown.

— Jerry Brown! — borbottò John. — Di tutte le cose, questa è la più strana da credere.

— Ma è così. — L’altro Dom sollevò una forchettata di falafel e disse: — Ottime queste alghe. Dovrò vedere se qualcuno è capace di prepararle allo stesso modo, una volta a casa. E questo è un altro vantaggio del Paratempo, vedete? Imparare cose diverse che migliorino la qualità della vita.

— Non posso dire che il nostro abbia imparato qualcosa di buono finora, Dom — disse John con una smorfia. — Parlaci di queste altre linee temporali.

— Be’, ce n’è un paio dove Ronnie Reagan è Presidente.

Ronnie?

— Sì. E in queste Lyndon Johnson è stato Presidente vent’anni fa, dopo la tua presidenza. Solo che… — Esitò, come se avesse difficoltà a dirlo. — Solo che in quelle linee temporali tu sei stato assassinato durante il mandato, senatore. Da un individuo di nome — Lee Harvey Osvald.

Jacqueline deglutì a vuoto e mandò un ansito… il rumore che emise fu un misto dei due. John le gettò un’occhiata apprensiva, poi si volse a Dom. Per un attimo aveva stretto i denti, a disagio quanto sua moglie, ma le sopracciglia inarcate rivelavano curiosità. — Lee Harvey Osvald? Aspetta un momento… non era… sì, ora ricordo, quel tipo che sparò al governatore del Texas?

— Proprio lui.

— Singolare — mormorò John Kennedy. Non sembrava esserci altro commento da fare. Era una sorta di ammazzaconversazione. Poi John trovò un sorriso. — Povera moglie mia! — disse, battendole un colpetto su una mano. — Mi chiedo che genere di vedova tu sia stata. Tu lo sai, Dom?

— Io… uh, non ricordo con precisione — disse lui in tono di scusa, e per qualche ragione mi parve che non stesse dicendo la verità. John annuì con aria assente. Aveva avuto la mia stessa impressione, era chiaro; ma venne salvato dall’imbarazzo di far altre domande da un maggiore dell’esercito, con cordoni dorati che gli pendevano dalle spalle, che entrò proprio allora nella camera. Era rasato di fresco e tirato a lucido, ma con gli occhi più stanchi che avessi mai visto; sembrava non aver dormito per tre giorni di fila, e probabilmente era così.

— Senatore DeSota? — chiese, perplesso, girando lo sguardo da un Dominic all’altro. — La Presidentessa vuole vedervi subito. Tutti e tre voi — aggiunse. E Dom, il mio Dom, mi diede un bacetto su una guancia e si alzò, lasciandomi.

Sedetti su un divano coi Kennedy. Suppongo che chiacchierammo. Non credo d’aver prestato molta attenzione a quel che dicevamo, perché avevo la mente aggrovigliata su altre cose. Compresa l’altra Nyla. Benché avessimo concesso delle pause al nostro match di occhiate, non avevamo perso interesse. Lei era in piedi davanti al tavolo del buffet, e l’assenza dei pollici non le impediva di destreggiarsi a meraviglia nel servire fette di formaggio al suo scimmiesco compagno e a se stessa. Anche se i suoi occhi non erano su di me ero certa che distoglieva lo sguardo un attimo prima che fossi io a fissarla. Non avevo alcun dubbio su questo, perché facevo altrettanto con lei. Avevo l’impressione che il suo interesse per me fosse ancor maggiore del mio, o forse il suo interesse si accentrava su riflessioni diverse. Non c’era solo curiosità in lei. C’era un proposito, benché non sapessi immaginare che proposito fosse.

Decisi che io e lei dovevamo fare due chiacchiere.

Non potei però mettere in pratica quella decisione, perché proprio mentre stavo pensando di alzarmi e andare da lei nel vasto locale entrò a passo svelto Lavrenti Djugashvili, quello vero. Sorrise, inarcò le sopracciglia elargendo la sua curiosità all’altra Nyla, ma fu decisamente verso di me che si diresse. — C’è di che confondersi! — esclamò, baciando la mano a me e poi a Jacqueline. — Che giornata difficile!

— Hai accompagnato qui i tuoi ragazzi? — domandò John Kennedy.

— Oh, sì, naturalmente. Zupchin e Merejkowsky, due brillanti fisici dell’Istituto Lenin per la Ricerca di Base. Poi sono stato informato che la mia presenza non era necessaria — aggiunse, un po’ acremente.

— Non ti ha dedicato molto tempo, eh? — annuì con simpatia il senatore Kennedy.

Lavi scrollò le spalle. — Non ho potuto scambiare una sola parola con la vostra Presidentessa — disse, allargando le braccia per mostrare il suo disappunto. — Ma mi sembra chiaro che i comunisti non le piacciono, incluso particolarmente me.

Il senatore si scurì in viso. — Neppure io sono in ottimi rapporti con lei — ammise. — Non siamo dello stesso partito. D’altronde ha ben altri pensieri per la testa, Lavi. Hanno catturato suo marito. Hanno occupato la Casa Bianca. Non ha molta voglia d’essere cordiale in questo momento, e soprattutto non vuole essere il primo Presidente dal 1812 ad avere forze nemiche nella stessa capitale.

— Oh, sì, questo è certo — annuì Lavrenti. — Specie da quando si nota una nuova attività fra gli invasori… — Tacque, guardandoci. — Non ne siete stati informati? Ma se perfino la televisione ne sta dando notizia! Dovrà pur esserci un apparecchio in questo appartamento monumentale. Coraggio, vediamo di rintracciarlo!


L’apparecchio c’era infatti, benché nascosto dietro due sportelli di mogano intarsiato. E le notizie che stava trasmettendo erano molte.

Nessuna di esse era buona.

Lo accendemmo nel bel mezzo della ripresa in diretta di un duro scontro a fuoco. E non si stava svolgendo in chissà quale terra lontana: era a pochi isolati di distanza da noi, all’estremità del Mall e tutto intorno al Campidoglio. Carri armati e cingolati da trasporto truppe sembravano avvicinarsi da dietro il palazzo della Corte Suprema, allargandosi come per prendere il Campidoglio da due lati. C’erano dei cadaveri laggiù. La telecamera zumò per riprendere più da vicino alcuni di essi, e avrei voluto che non l’avesse fatto. La regia staccò su un’altra telecamera, e sullo schermo apparve una fila di carri armati. Abbastanza strani. Non mi resi conto del perché li trovavo strani finché non sentii Lavi imprecare qualcosa: la frase suonò acre e velenosa, ma non potei capirla perché era in russo. Passò all’inglese per dire: — È una nuova arma, senatore!

D’un tratto riuscii a vederli nelle proporzioni giuste: erano carri armati, ma di piccole dimensioni: non più lunghi di due metri e mezzo, e alti meno d’un metro dal suolo, ciascuno con un grosso cannone che ruotava da una parte e dall’altra come la coda di uno scorpione. — Non abbiamo niente di simile in Russia — si lamentò Lavi.

— Neppure noi, in questa America — disse John Kennedy. — Radiocomandati, ci scommetto! Gesù santo, stanno sparando! — E infatti quei cannoni non erano giocattoli: facevano fuoco contro il Campidoglio, e ad ogni colpo grandi nuvole di fumo e rigurgiti di macerie esplodevano dai muri esterni dell’edificio.

La scena cambiò. Sullo schermo apparve il grande studio della NBC, in attività come quando ne facevano il loro quartier generale la notte delle elezioni. Dietro Tom Brokaw e John Chanceller c’era un’enorme carta murale con la situazione del Distretto di Columbia, e i due stavano illustrando quello che succedeva.

Non era necessario che dicessero molto. La carta parlava per loro. Pressoché un quarto della città era adesso ombreggiato di rosso — il rosso delle forze d’occupazione — ovvero tutta l’area circostante il Campidoglio che avevamo appena visto, la Casa Bianca, l’Ellisse, parte della zona intorno al Monumento a Washington, una vasta fascia lungo il fiume e piccoli punti isolati sparsi per il Distretto. Scaglionate lungo il perimetro c’erano luci rosse che segnalavano combattimenti in corso.

Brokaw stava indicando il Campidoglio. — L’ultimo loro attacco — disse, — è avvenuto senza preavviso appena quarantacinque minuti fa sulla Prima Strada e lungo la Constitution Avenue. Simultaneamente hanno aperto il fuoco in quasi tutti gli altri punti della città dove le nostre truppe fronteggiavano le loro. — Li elencò uno a uno, poi constatò: — Contro ogni aspettativa, ci risulta che vi sia stato un costante contatto telefonico fra il quartier generale degli invasori, alla Casa Bianca, e il nostro, situato in un punto del Distretto che non siamo autorizzati a rivelare. È ormai di dominio pubblico che gli invasori hanno catturato tre membri del Gabinetto e almeno i tre quarti dei Capi di Stato Maggiore col loro staff, oltre ad alcuni senatori, congressisti e varie importanti personalità politiche. Lo stesso Ronald Reagan è caduto nelle loro mani. Tutti gli ostaggi, così li ha definiti il nostro governo, hanno avuto il permesso di registrare messaggi che sono stati trasmessi telefonicamente. Ecco la voce del Generale Westmoreland…

Il messaggio venne mandato in onda, ma non feci caso alle parole. M’ero girata a guardare Nyla Christophe, e stavolta lei sostenne tranquillamente il mio sguardo. Dal poco che Dom mi aveva sussurrato di lei mi sarei aspettata, non so, una specie di agente della Gestapo combinata con Mata Hari. Non ne aveva l’aspetto. Sedeva con le mani sotto le cosce, come se non volesse mostrarle. Quella che vedevo era una giovane donna della mia età, con la mia faccia, il mio corpo — be’, no, forse era quattro o cinque chili più leggera di me, ma questo non andava certo a suo svantaggio — una donna che avrei potuto vedere guardandomi allo specchio ogni mattina. Sapevo che aveva fatto paura a molti. Io non avevo mai fatto una cosa simile, no, a nessuno e mai; e non credevo proprio che mi fosse possibile istillare paura fisica in qualcuno. Ma io non ero cresciuta in un mondo che amputava i pollici a una ragazza per aver rubato nei negozi. Non disse nulla, anche se mi parve che non ci fosse nulla di ostile nel modo in cui studiava il mio volto. Neppure io parlai, anche se cominciavo a sentire che se avessimo potuto sederci da qualche parte per un tête-à-tête fra noi donne avremmo potuto, in realtà, capirci molto bene.

Poco a poco mi rendevo conto che lei e io non eravamo le sole a fissarci a vicenda. Lavi Djugashvili, che s’era alzato per uscire, adesso esitava. Stava scrutando i due uomini di nome Larry Douglas. Sussurrò qualcosa a John Kennedy, apparve perplesso, scosse il capo e finalmente disse: — Mr. Douglas? Posso scambiare una parola con voi… con tutti e due voi, forse?

— Perché no? — rispose uno di loro (non avevo modo di sapere chi).

— Ho notato — disse Lavi, — che ci rassomigliamo molto. È mai possibile che fra noi ci sia una parentela?

Uno dei Larry Douglas rise. — Diavolo, uomo, questo è il più grosso eufemismo che abbia mai sentito. Noi abbiamo gli stessi due genitori, e gli stessi quattro nonni.

— Stai parlando di nonno Joe — annuì l’altro Larry.

— Sto parlando di tutti e quattro — disse il primo. — Nonno Joe era solo il più famoso. Le fece veramente grosse, ottanta o novant’anni fa… banche svaligiate in Siberia, fughe con la polizia alle calcagna, tutto quanto. Quando in Russia la terra cominciò a scottargli sotto i piedi venne in America, e usò il malloppo per mettersi in affari a New York. Divenne ricco, quel drittone.

— Anche il mio ha fatto lo stesso! — esclamò l’altro. — E il tuo ha fatto la stessa fine? Ammazzato da uno che lo colpì con un punteruolo da ghiaccio, nella sua residenza estiva ad Ashokan?

— Non fu uno scalpello da ghiaccio, e non fu in inverno, e accadde a Hobe Sound — disse il primo. — Però, sì. Dissero che c’era di mezzo la politica. Aveva intascato fondi che si supponeva dovessero andare ai sindacati comunisti, come saprai. Anche tuo nonno, ambasciatore, è finito così?

Lavi li fissò, gravemente, poi disse: — Fino a un certo punto sì. Solo che i miei nonni non hanno mai lasciato la Russia. Nonno Josip rimase là, e divenne famoso sotto il nome che assunse entrando nel partito: Stalin. — Si passò una mano sulla faccia. — Tutto questo — aggiunse, — è molto sconcertante. Adesso vi prego di scusarmi. In ogni caso è ora che io torni alla mia ambasciata, ma voi gentiluomini… la situazione… mi piacerebbe chiarirla, devo dire. — Tacque e scosse la testa.

Io non ne potei più. Mi alzai e gli misi un braccio intorno alla vita. Era sbigottito. E anch’io un poco. Ma si sciolse da me e mi afferrò per una spalla, guardandomi con occhi vacui. Poi mi lasciò, fece un passo indietro, mi baciò la mano e disse: — Bisogna che vada a…

S’interruppe a metà della frase, accigliandosi.

Sono certa che anch’io mi accigliai, perché udivo quello che udiva lui. Quel vago e lontano esplodere d’armi da fuoco non era più né vago né lontano. Proveniva giusto dalla strada sottostante.

Nessuno mi stava guardando. M’accorsi che tutti i presenti avevano girato gli occhi alla scala che saliva all’appartamento privato della Presidentessa, al piano di sopra. Le guardie del Servizio Segreto che stazionavano sugli scalini, sorvegliando che fra noi non ci fossero dei traditori, avanzarono nel salone e ordinarono a tutti di accostarsi alle pareti. Quello che passò di fronte a me disse: — Sono Jenner, Servizio Segreto. La Presidentessa sta per essere evacuata.

— Evacuata! — esclamò Kennedy. — Qual è il problema, Jenner? Siamo in pericolo?

— È possibile, signore. Se volete andarvene, potete farlo appena la Presidentessa avrà abbandonato i locali. C’è una via d’uscita attraverso il garage sotterraneo. Ma restate dove siete finché il suo gruppo è in corso di uscita. Per favore — aggiunse. E dopo un attimo: — Signore.

La Presidentessa e il suo entourage vennero giù lungo la scala. Li accompagnavano vari agenti del Servizio Segreto, tre dei quali donne; alcuni agenti della Polizia Distrettuale con alla testa il Capitano Glenn; il colonnello di collegamento del WAC coi codici delle armi nucleari; quattro o cinque uomini in borghese che stavano facendo di tutto per dire qualcosa alla Presidentessa mentre scendeva, a passi misurati e con una mano sulla ringhiera. E lei riusciva a rispondere a ciascuno di loro. Non ero mai stata d’accordo con la politica di Nancy, ma dovevo ammettere che aveva un aspetto presidenziale, anche nei ritratti.

Appena la Presidentessa fu nell’ascensore, gli uomini del Servizio Segreto rimasti in sala tornarono sulla scala, e quelli che erano stati a colloquio con lei furono autorizzati a scendere. Fra loro un gruppetto che attrasse subito i miei occhi: Dom, o meglio i tre Dom, seguiti da due russi e da un paio d’altri anch’essi probabilmente scienziati, reduci dal loro incontro con la Presidentessa.

Si fermarono quasi alla base della scala. Anch’io mi fermai. Nella sala c’era stato un improvviso mormorio, come di gente che trattenesse il respiro o mandasse soffocate esclamazioni di stupore e paura. Non mi resi conto di quel che significavano… non di preciso. Pensai solo che dalle scale scendeva meno gente di quanta credevo che ce ne fosse al piano di sopra. Ma già non li guardavo più.

Nell’aria c’era stato una specie di fremito… suppongo che avrei potuto chiamarlo un fremito di silenzio, quel calo di sonorità che si avverte in un jet dopo un improvviso calo di pressione negli orecchi.

E poi: — Scusami — disse una voce dietro le mie spalle, una voce che conoscevo molto bene, — ma penso che tu e io dovremmo fare due chiacchiere, non è così, Nyla?

— Naturalmente, Nyla — dissi. E mi volsi a guardare me stessa negli occhi. Stava sorridendo.

C’era qualcosa nel suo sorriso che m’indusse ad abbassare lo sguardo fra i nostri due corpi. Aveva le mani unite fra loro all’altezza della cintura, e da esse spuntava la lunga lama affilata di uno dei coltelli del buffet, puntato nel mio addome.

Загрузка...