Le stranezze che accadono… le domande che restano senza risposta!


Perché tutto ad un tratto gli abitanti di Los Angeles si lamentano che la loro dolce aria, profumata dagli aranceti, è invasa da foschie di gas quasi irrespirabile?

Cosa ha spinto ventimila pacifici sudditi dello zar a marciare, all’improvviso, nelle strade di Kiev intonando canti rivoluzionari?

Perché tante persone vengono ricoverate in manicomio con diagnosi di schizofrenia paranoica, tutte caratterizzate dalla convinzione d’essere segretamente spiate da qualcuno?

Perché si verificano senza preavviso cose tanto incomprensibili?


17 Agosto 1983
Ore 1,18 del mattino — Nicky DeSota

Ero sceso in città per la Daley Expressway migliaia di volte prima d’allora. Mai in quel modo, però. Mai con le sirene spiegate e le luci azzurre che balenavano sulle carrozzerie di quelle grosse Cadillac. A quell’ora del mattino le auto in transito non erano molte, e anche quelle poche s’affrettarono a levarsi di mezzo quando videro i lampeggiatori della macchina del Chicago Police Department che ci apriva la strada. Arrivammo in città in ventun minuti netti. Più veloci del tram; ma furono i ventun minuti più lunghi della mia vita.

Nessuno volle dirmi una parola. — Per quale motivo vengo arrestato?

— Chiudi la bocca, Dominic.

— Ma cos’ho fatto?

— Lo scoprirai da te.

— Avete ordine di non dirmi niente?

— Ascolta, ragazzo, per l’ultima volta tappati la bocca. L’Agente Capo Christophe ti dirà quello che vuoi sapere… anche qualcosa di più, magari!

«Ragazzo» mi chiamava. Costui era il gorilla alla mia destra, inzuppato da capo a piedi dopo il suo tuffo in piscina, e dimostrava almeno un paio d’anni meno di me. Ma c’era una differenza fra noi: io ero il prigioniero, lui quello che non voleva dirmi perché lo fossi.

Non c’era nessuna targa fuori dallo stabile per uffici sulla riva del Wabash, solo un portiere notturno che si fece da parte senza aprir bocca. Nessun nome anche sulla porta dell’ufficio al ventesimo piano. E nessuno neppure nell’anticamera, dove mi spinsero seguitando a ignorare le mie richieste. Ma una di esse, se non altro, aveva trovato risposta appena gli occhi m’erano caduti sulla foto appesa al muro, dietro una scrivania nell’ingresso. Avevo riconosciuto all’istante quella faccia illustre (chi non la conosceva?), severa come una vecchia tartaruga, inflessibile quanto una valanga.

J. Edgar Hoover.

Il messaggio telefonico non era stato un garbuglio completo, dopotutto. Ero nelle mani dell’FBI.

Non so se sia vero che davanti alla morte uno si vede scorrere negli occhi tutta la sua vita. So però che nei minuti in cui venni lasciato solo in quella stanzetta rivissi tutte quante le mie malefatte. Non solo la faccenda del topless e la sterzata che per poco non era costata la pelle a un poliziotto di Chicago. Tornai più indietro. Cominciai dalla volta che avevo pisciato contro il muro posteriore della Chiesa Presbiteriana dell’Uliveto, in Arlington Street, quando avevo nove anni e tagliavo dal vicolo per andare alla scuola domenicale. E il compito che avevo copiato, all’esame d’ammissione al «college». E la falsa richiesta per risarcimento danni che avevo fatto dopo un incendio nel dormitorio (vi avevo incluso oggetti personali in realtà appartenuti a un mio compagno dell’Alpha Kappa Nu). Riesaminai perfino fatti che la mia memoria aveva censurato, ad esempio la sera che andai molto vicino ad avere guai con gli arabi. Non era un ricordo di cui andare orgoglioso. Io e un mio compagno delle scuole superiori, Tim Karasueritis, ci eravamo procurati tre bottiglioni di birra di contrabbando per controllare fino a che punto eravamo virili. Non fu un’esperienza malvagia, finché si trattò di bere. Ciò che la rese antipatica fu quando vomitai tutto quanto all’angolo di Randolph e Wacker, proprio davanti alla più grossa e ricca moschea di Chicago. E dopo che ebbi insozzato ben bene il marciapiede fu il turno di Tim. Mentre gli stavo reggendo la testa alzai lo sguardo. E incontrai quello di un Hagji, barba bianca e turbante verde, che ci fissava con occhi furiosi e accusatori. Orrido spettacolo! Suppongo che anche gli arabi abbiano figli adolescenti, comunque fui sicuro che stavamo per passare un brutto quarto d’ora. Non disse verbo. Ci fulminò con le pupille, quindi si volse ed entrò svelto nella moschea. Forse poi tornò fuori, con l’equivalente arabo della polizia, ma per quel momento eravamo già a parecchi isolati di distanza correndo (dovrei dire zigzagando, visto che eravamo ubriachi) come avessimo la morte alle calcagna.

Oh, se mi frugai la coscienza! Esaminai ogni più piccola offesa alla legge che avevo fatto oo meditato di fare, senza trovare nulla che potesse lontanamente spiegare quell’assalto dell’FBI alla mia persona nel bel mezzo della notte.

Dopo dieci minuti mi tornò una certa baldanza e decisi di spiattellare a qualcuno quella verità. Ma con me non c’era nessuno. Mi avevano spinto a sedere in un locale piccolo, quasi senza mobilio, infischiandosene del fatto che indossavo soltanto un costume bagnato. Si stava asciugando, certo, però da qualche parte c’erano delle finestre aperte da cui la brezza fredda del Lago Michigan arrivava fin lì, passando sotto la porta (la porta chiusa, come scoprii quand’ebbi finalmente il coraggio di girare la maniglia).

Divertente, pensai, che mi avessero perquisito con tanta cura mentre indossavo solo un costume da bagno. Chiaramente secondo loro esisteva l’ipotesi che mi portassi addosso magari una lametta da barba, e che avrei potuto usarla per assalirli tutti quanti, o che (supposi) conscio dell’enormità dei miei crimini mi ci sarei tagliato le vene, sfuggendo così a quelli che potevano essere i loro progetti su di me.

Per loro fortuna non ero invece riuscito a ricordare nessun imbarazzante particolare del mio passato che giustificasse l’idea di suicidarmi. Essere arrestato senza motivo era antipatico, ma non potevo farci niente. Anzi lì non c’era da fare niente di niente. Da dietro una griglia posta molto in alto un altoparlante emetteva musica a basso volume, violini mi pare, roba da capelloni. C’era una scrivania. Visto che il piano era totalmente vuoto pensai che forse nei cassetti c’era qualcosa. Ma quando cominciai a innervosirmi e diedi uno strattone a una delle maniglie, constatai che il cassetto era chiuso, come la porta. Dietro la scrivania c’era una poltroncina girevole, e davanti una seggiola di legno. Nessuno era lì a dirmi su quale era mio dovere sedere, comunque mi rimisi sulla sedia.

Imprecai contro il freddo, mi strinsi le braccia al petto e cercai di pensare.

Giusto allora, senza che avessi sentito rumori all’esterno, la porta si aprì e l’Agente Capo Christophe fece il suo ingresso.

L’Agente Capo Christophe era una donna.


L’Agente Capo Nyla Christophe non fu la sola che attraversò la soglia, ma non c’erano dubbi su chi fosse: lei era il boss. Quelli che la seguivano, due uomini e una donna grassoccia di mezz’età, dimostravano quel fatto coi loro atteggiamenti corporali.

Ci misi un po’ per superare la sorpresa. Naturalmente tutti sapevano che l’FBI aveva cominciato a reclutare agenti in gonnella già da tempo. Nessuno però si sarebbe mai aspettato di vederne uno. Erano come le guidatrici di taxi o le donne medico: conoscevate la loro esistenza perché quando una si mostrava in pubblico un cinegiornale la riprendeva, e quando poi andavate al cinema potevate vederla. Ma questo non succedeva con le agenti dell’FBI, ovviamente. La loro storia personale non conteneva abbastanza interesse umano da meritare un servizio nei cinegiornali settimanali. Un operatore che ne avesse ripresa una sarebbe finito probabilmente nei guai, magari accusato d’imprudenza professionale per aver esposto un pubblico ufficiale all’eventuale vendetta di qualche criminale. E costui si sarebbe ritrovato sotto interrogatorio in una stanzetta nuda, senza sapere se sarebbe morto o vissuto…

Più o meno come stava accadendo a me.

Comunque, lei entrò. Prima apparve un tipo muscoloso che tenne rispettosamente aperta la porta, poi l’Agente Capo Christophe, poi la donnetta grassoccia, poi un altro tipo muscoloso che richiuse. Lei lasciò scorrere su di me uno sguardo astratto: ah, sì, ecco alcuni mobili fra cui uno a due gambe. Ma io la fissai con — potete esserne certi — molta più attenzione. Nyla Christophe era d’altronde un bell’esemplare di un particolare tipo di donna. Il tipo alto e atletico. Aveva occhi azzurro chiaro e capelli tirati indietro e uniti in una coda di cavallo. Nel procedere teneva le mani unite dietro la schiena, stile ammiraglio inglese sul ponte di un vascello a vela. E dava ordini come un ammiraglio. Ai due scagnozzi: — Legatelo. — Alla donna grassoccia che ansando sciorinava pratiche e taccuini sulla scrivania: — Scrivi: diciassette Agosto millenovecentottantatré. Testo del colloquio dell’Agente Capo N. Christophe con Dominic DeSota. — E a me:

— Niente nervosismi inutili, DeSota. Si limiti a dirmi la verità, rispondendo a tutte le domande, e ce la caveremo in venti minuti. Prima il giuramento.

Questo era un brutto segno. Esser messo sotto giuramento significava che stavano facendo sul serio. Ciò che avrei detto loro non sarebbe stato considerato alla stregua di informazioni raccolte durante un’indagine. Si proponevano di usarlo come prova a mio carico. La stenografa si alzò e mi porse i due libri, recitando la formula che avrei dovuto ripetere con lei. Io poggiai la destra fra la Bibbia e il Corano, il mignolo sulla prima e il pollice sul secondo, quindi giurai di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, in nome di Dio il Misericordioso, l’Onnisciente, il Vendicatore.

— Bene, Dominic — disse la Christophe, quando gli scagnozzi mi legarono i polsi. Gettò uno sguardo al suo orologio come se realmente pensasse che saremmo stati fuori di lì in venti minuti. — Adesso mi dica per quale motivo ha cercato di penetrare nei Laboratori Daley.

Io gorgogliai: — Penetrare dove?

— Nei Laboratori Daley — disse pazientemente. — Cosa cercava?

— Non so di cosa sta parlando — ansimai.

Quella non era la risposta che l’Agente Christophe desiderava sentire. — Oh, merda, Dominic — brontolò. — Speravo che fosse più ragionevole su questi particolari. Vuol darmi a bere che non ha mai sentito parlare dei Laboratori Daley?

— Naturalmente no. — Tutti sapevano cos’erano i Laboratori Daley, o almeno sapevano che si trattava di un posto top secret per ricerche militari, nel sudovest di Chicago. C’ero passato accanto dozzine di volte. — Però, signora Christophe…

Agente Christophe.

— Agente Christophe, sul serio non capisco cosa intende dire. Non sono mai andato ai Laboratori Daley. E sono sicurissimo di non aver mai cercato di penetrarci con lo scasso.

— Oh, dolce Fatima! — gemette lei, togliendosi per la prima volta le mani da dietro la schiena. Quella fu una sorpresa. L’Agente Capo Christophe avrebbe avuto qualche difficoltà a giurare nel modo prescritto, se qualcuno gliel’avesse chiesto. Non aveva i pollici.

Era tutt’altro che insolito vedere gente senza pollici, naturalmente. Era una sentenza standard per cose come ad esempio il furto recidivo, il borseggio, e talvolta l’adulterio o un incidente stradale colposo che fosse causa di morte. Ma era abbastanza eccezionale, pensai, incontrare un agente dell’FBI coi pollici amputati.

Dovetti fare uno sforzo per distrarmi dalle mani a quattro dita della donna, ma m’ero accorto che le corde mi facevano male ai polsi. — Agente Christophe — dissi. Cominciavo a sentirmi indignato. — Non so chi le abbia dato questa notizia, ma è semplicemente fuori discussione. Non c’è nessuna possibilità che io sia stato visto intorno ai Laboratori Daley, da un mese a questa parte o forse più.

Lei gettò un’occhiata ai due tipi forzuti, poi tornò a fissare me. — Nessuna possibilità — ripeté pensosamente.

— La benché minima possibilità — dissi con fermezza.

— La benché minima possibilità — mi fece eco. Tese una mano di lato.

Uno degli scagnozzi fu svelto a poggiarle sul palmo un fascicolo. Il primo dei documenti allegati era una fotografia. Lei controllò con un’occhiata che non fosse capovolta, poi la protese in modo che potessi vederla chiaramente. Raffigurava un uomo, davanti alla porta di un edificio.

L’uomo ero io.

Ero io sì, anche se indossavo un abito che non avevo mai posseduto, una sorta di tuta a un pezzo unico tipo quella che Winston Churchill rese famosa nella seconda guerra mondiale. Ma costui ero io, certo. — Questa è stata scattata — disse la voce piatta della Christophe, — da una macchina fotografica della sorveglianza ai Laboratori Daley, tre notti fa. E anche queste altre. — Me le sciorinò davanti rapidamente. Non tutte erano state fatte dalla stessa macchina, poiché gli sfondi erano diversi. Ma in primo piano c’era sempre la faccia che io conoscevo grazie allo specchio, e l’abito che non conoscevo affatto. — E queste — disse, tirando fuori dal fascicolo una larga scheda, — sono le sue impronte digitali, prelevate dall’ufficio investigativo del Northwestern College quando lei frequentava i corsi. Le altre, sotto, sono state trovate ai Laboratori.

Sotto la fila delle dieci impronte-campione ce n’erano soltanto quattro, le uniche, supposi, che avessero rilevato sulla scena del crimine. Ma non c’era bisogno della lente per constatare che le spirali e i solchi del medio e del pollice destro, e di ambedue gli indici, corrispondevano abbastanza bene con quelli delle impronte di riferimento.

— Ma deve trattarsi di un falso! — ansimai.

— Questo significa che insiste nella sua dichiarazione? — chiese la Christophe, incredula.

— Certo che insisto! Non sono mai stato là! Mai, le dico!

— Oh, all’inferno, Dominic — sospirò lei. — Credevo che avesse un po’ più di buonsenso. — Intrecciò le sue mani senza pollici e lasciò vagare lo sguardo sul pavimento. Non diede alcun segnale ai suoi aiutanti. Non ne aveva bisogno. I due scagnozzi sapevano benissimo quel che sarebbe accaduto adesso, mentre si muovevano verso di me. Lo sapevo anch’io.


Non mi picchiarono eccessivamente. Avrete sentito le voci che circolano su come vengono interrogati i sospetti, di regola. E rispetto alla regola si può dire che non mi misero un dito addosso. Penso che non si tratti di voci esagerate, d’altronde, perché una volta stesi un’ipoteca per un barista che in seguito venne arrestato in base al sospetto d’aver venduto superalcolici a un uomo al di sotto dei trentacinque anni. Non ebbe più bisogno d’ipotecare niente dopo quella faccenda. Ciò che la vedova mi sussurrò circa le condizioni del corpo che le era stato restituito, al funerale, bastò per rovinarmi la digestione.

Io non ebbi un trattamento di quel genere.

Sbattei nelle pareti, rotolai qua e là. Una cosa dolorosa. Ed è dolorosa il doppio quando vi hanno legato perché non possiate restituire i colpi — be’, non li restituireste comunque, non se sapeste quel che è meglio per voi — né possiate tentare di parare con le braccia i pugni che vi arrivano nell’occipite. Ero completamente suonato ancor prima che avessero finito, anche se si trattò per lo più di colpi dati a mano aperta o studiati per non lasciare lividi o graffi visibili. Dopo un po’ fecero pausa e mi tirarono in piedi davanti all’Agente Christophe.

— Questo nella fotografia è lei, Dominic, è così?

— E come faccio a saperlo? Lui… ouch!… sembra me, forse.

— E le impronte digitali?

— Non so un accidenti di quelle impronte digitali.

— Oh, all’inferno, continuate, ragazzi.

Da lì a qualche minuto si stancarono del mio occipite, o forse s’accorsero che cominciavo ad avere qualche difficoltà nel capire la Christophe. Comunque, presero a lavorarmi al plesso solare e alla colonna vertebrale. Dato che indossavo soltanto un costume da bagno non c’era nulla ad ammortizzare i colpi. Facevano male. Ma picchiarmi nelle vertebre doveva far male anche alle loro nocche, perché smisero di sogghignare con entusiasmo. Fecero un’altra pausa per estrarmi da sotto la scrivania.

— Vuole modificare la sua deposizione, Dominic?

— Non c’è niente da modificare, dannazione!

Il pugno che mi arrivò nello stomaco fu molto doloroso e mi fece schizzar fuori l’aria dai polmoni. Accecato dalle lacrime e piegato in due, non riuscii neppure a sentire quel che l’Agente Christophe stava dicendo.

A stento, quindi, decifrai la frase successiva: — … e nega ancora d’essere entrato nei Laboratori Daley, sabato tredici Agosto?

Rantolai: — No, aspettate… — Naturalmente non aspettarono. Venni colpito da un gancio al fegato e da un altro alla milza. — No, per favore! — gemetti, e la Christophe li fermò. Cercai di tirare un po’ d’aria nei polmoni. Quando ne ebbi il fiato, chiesi: — Vuole dire sabato scorso? Il tredici?

— Proprio sabato, Dominic. La notte in cui è penetrato nei Laboratori Daley.

Mi lasciai cadere sulla sedia. — Ma non posso esser stato io, Agente Christophe — dissi, — perché sabato scorso ero a New York, per il weekend. La mia fidanzata era con me. Lei potrà testimoniare. Onestamente, Agente Christophe! Non so chi sia quell’uomo, ma so che non posso essere io!

Be’, non m’illudevo che mi avrebbero ascoltato. Andai a sbattere nel muro un altro paio di volte prima che cominciassero a esser convinti… o meglio, più che convinti direi confusi. Tirarono giù dal letto Greta per metterla davanti alla mia dichiarazione, e quando lei disse che tutti quanti i membri del suo equipaggio si sarebbero ricordati di me non esitarono a telefonare anche a loro. Confermarono senza esitazioni. Non mi capitava spesso di andare a New York con Greta, e i suoi colleghi non avevano dubbi sulla data esatta.

Mi slegarono e mi lasciarono alzare. Uno di loro giunse perfino a prestarmi un vecchio impermeabile, da indossare sul costume da bagno per andare a casa nell’alba nebbiosa. Non posso dire che esibissero modi aggraziati, comunque. L’Agente Christophe, china sul fascicolo e intenta a masticarsi furiosamente le labbra, non si prese la briga di dirmi un’altra parola. Fu uno dei pugili a informarmi che potevo andarmene:

— Ma non lasci la città, DeSota. Niente viaggi a New York, capito? Resti dove la si possa trovare, se ce ne sarà bisogno.

— Ma ho provato la mia innocenza.

— DeSota — ringhiò. — Non ha provato niente. Noi abbiamo tutte le prove che ci servono. Foto della sorveglianza e impronte digitali. Più che abbastanza per sbatterla al fresco per cent’anni.

— Salvo il fatto che io non ero là — dissi, ma non aggiunsi altro, perché Nyla Christophe aveva rialzato gli occhi dall’incartamento e mi stava di nuovo confrontando con le foto.

Sarebbe stato perlomeno decente che mi mettessero a disposizione un’auto per tornare a casa, ma non avevo alcuna voglia di stare lì ancora per il tempo di farglielo notare. Non ci misi molto a trovare un taxi, del resto, e poi lo feci aspettare mentre entravo in casa a prendere il portafoglio. Venti dollari. Una giornata di paga. Ma non avevo mai pagato un tassista più volentieri.

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