Nella villetta dei sobborghi a nord della città l’anziano padre di famiglia finì la sua seconda tazza di caffè, si stiracchiò, raddrizzò la visiera del suo berretto da baseball e se lo calcò in capo. Le ferie erano l’occasione buona per rimettersi in pari con tutti i lavori di casa che attendevano due abili mani, e il prato sul retro aveva bisogno d’esser falciato. Uscì dalla porta scorrevole che dava sulla veranda e subito si fermò, meravigliato. — Marzia! — chiamò. — Vieni a vedere. Ci sono dei colibrì fra le tue petunie. Cielo, non credevo che avessimo colibrì da queste parti! — E mentre la moglie usciva si godette l’espressione di lei: dapprima incuriosita, quindi un sorriso di piacere… e poi il sorriso scomparve, gli occhi si sbarrarono di colpo. Ma l’uomo non capì il motivo dell’improvvisa angoscia sul viso della moglie finché non si voltò, e vide la strana pianta spinosa che si stava mangiando i colibrì.


27 Agosto 1983
Ore 12,30 del mattino — Maggiore DeSota, Dominic P.

Non è molto ciò che si può vedere dagli oblò di un aereo da trasporto truppe, ma quando ci inclinammo in una larga virata nel cielo della capitale potei scorgere quasi l’intero Distretto, steso sotto di noi. Nulla faceva pensare alla guerra, laggiù. Avevano acceso i riflettori attorno alla Casa Bianca e al Lincoln Memorial, e ovunque si vedevano file e file di fari d’automobili come se tutta Washington fosse in strada per celebrare la notte del T.G.I.F… no, non ovunque! Al di là del Potomac le luci delle auto erano pochissime, e quello non sembrava il traffico normale. Riconobbi i fari bassi e azzurrati dei veicoli militari. Rigido di stupore mi volsi verso il colonnello dell’esercito seduto accanto a me, e gli battei una mano su una spalla. — Se quelli laggiù sono ciò che penso — ansimai, — com’è possibile che i satelliti-spia russi non li avvistino?

Si sporse a guardare dove gli stavo indicando. — Ah, sì. — Sorrise. — Stanno facendo pratica per la parata del Labor Day. Cosa credeva?

— Il Labor Day? — mi sbalordii.

Lui si alzò a mezzo per guardare meglio il panorama. — Ecco là il mio battaglione, proprio sul terreno della Casa Bianca. Lo vede? — chiese, e mostrò un certo disappunto quando scossi il capo. — Ci occuperemo dei controlli di sicurezza durante la parata — annunciò, e mi strizzò l’occhio.

— Gesù! Ma mancano ancora dieci giorni al Labor Day. O pensa che i russi siano così coglioni da cascarci davvero?

Scrollò le spalle. — Se non fossero coglioni, non sarebbero russi — dichiarò, poi intercettò un’occhiata del sergente-steward e s’affrettò a riallacciare la cintura di sicurezza.

Ma a parte la zona priva di traffico, là c’era il solito vecchio Distretto, pacifico, indaffarato e felice. Tutte le altre strade avevano l’aspetto che dovevano avere. Perfino da quell’altezza avreste potuto comprendere senza equivoci che quella gente non si preoccupava e non temeva alcuna invasione…

E sull’altro lato della barriera, come sapevo bene, c’era un’altra Washington, dove la nostra prima ondata d’assalto era andata a impadronirsi di tutti i ponti sul Potomac.

E cosa stesse facendo e pensando la gente di quella Washington quel venerdì sera, era una cosa che non riuscivo affatto a immaginare.


Quando fummo al Campo Bolling ed esibimmo i nostri ordini, l’impiegato addetto ai trasporti si offrì di procurare al colonnello un’auto di servizio, purché nel suo tragitto verso la Casa Bianca desse un passaggio anche a me. La cosa risultò piacevole per entrambi. Seduto al volante il colonnello fece di tutto salvo che rovesciarsi a testa in giù sul sedile, tanto si agitava per la soddisfazione e l’impazienza. Mi aveva già fatto sapere che era uscito da West Point, e sul suo petto erano bene in vista i nastrini della campagna cilena e di quella tailandese. — Questa sarà la nostra grande occasione — promise. — Ci guadagnerete la vostra foglia d’argento, maggiore, perciò sorridete! Non è stando dietro le linee che si fa carriera, quando c’è un’invasione in atto!

— Già — dissi, lasciando scorrere gli occhi sui campi di periferia. Quel che aveva detto era abbastanza vero. Quel che invece non sapeva era che il Generale Facciaditopo non me l’avrebbe fatta passare liscia. Non aveva potuto sbattermi davanti a una corte marziale, due ore dopo avermi dato una medaglia. Ma se l’era legata al dito. Un giorno, prima o poi, sarei stato sorpreso a bere una birra al Circolo Ufficiali, o a sputare su un marciapiede nei recinti del Pentagono, e allora il generale sarebbe stato lì pronto ad affondarmi i denti nella gola.

A meno che, naturalmente, non mi fossi procurato un altro po’ di medaglie in quell’operazione. Io sono un uomo prudente. Ma in quel momento mi sembrava che la cosa più prudente che avrei potuto fare fosse di meritarmi l’aureola dell’eroe, se mi si fosse presentata l’occasione…

Attraversammo il ponte proprio sotto il Cimitero di Arlington, con la sua eterna luce che brillava in cima alla collina. Il traffico di automezzi civili era intenso, mentre riflettevo che proprio li, su quello stesso ponte, le nostre truppe stavano tenendo a bada il nemico, al di là di un’impalpabile barriera temporale. E davanti a noi…

— Ma che diavolo c’è lassù? — chiesi, indicando quelli che sembravano riflettori da un milione di watt puntati verso il cielo.

— Qualcosa che tapperà gli occhi ai satelliti dei russi — spiegò il colonnello. — Quei proiettori sono sopra la Casa Bianca e sul Centro di Comando Sheraton, e se i russi scatteranno foto sopra quell’inferno di luce saranno i benvenuti. Comunque — aggiunse con un sogghigno, — la notizia ufficiale è che anche loro stanno facendo pratica per la luminaria del Labor Day.

Mi lasciò al vialetto d’ingresso dello Sheraton Hotel, trasformato per l’occasione in un quartier generale. Quando mostrai i miei ordini scoprii che l’ingresso principale era riservato ai gradi da colonnello in su: la gente come me doveva girare sul retro, entrando dalla parte del parcheggio. Era enorme, e pieno zeppo. Ma non di auto di turisti o delle limousine dei VIP: c’era almeno una divisione di carri armati e di mezzi cingolati, allineati con ordine… e fra essi molti veicoli per nulla in ordine, evidentemente riportati indietro dopo il primo attacco. Alcuni di essi erano stati sottoposti a un fuoco d’inferno. Uno o due mi sorpresero addirittura, perché a vederli non si capiva come avessero fatto a riportarli indietro: torrette rotanti d’acciaio massiccio strappate via di netto, un cannone che sembrava fuso come cera, quattro o cinque autoblinde sforacchiate da gragnuole di colpi o squarciate da esplosioni. Tutti quanti erano coperti da reti mimetiche, per ingannare gli occhi orbitanti dei russi, e l’area era sorvegliata da un bel po’ di guardie armate.

E soltanto al di là della siepe fiorita c’erano le strade indaffarate del Distretto, dove milioni di persone ronzavano attorno senza un pensiero al mondo.


Qualunque cosa stesse accadendo nei salotti, nei bar e nei ristoranti dell’Hotel Sheraton, i graduati come me non erano destinati a saperlo. La parte dell’albergo riservata a noi erano le sale di riunione, e acquartierata lì c’era già una folla di sottufficiali al lavoro. Presentai i miei ordini a un furiere e ne ebbi in cambio una tessera d’identità da appuntarmi sulla giacca, quindi fui dirottato all’appartamento William McKinley per altre disposizioni. Nel tragitto oltrepassai una sala da ballo piena di gente. Non era una riunione di nozze o un bar mitzvah: si trattava di militari, molti dei quali in mutande, che si cambiavano le uniformi (le loro, con cui erano stati catturati) in altre uniformi (le nostre) con le quali sarebbero stati discretamente trasferiti in un campo sulle colline del Maryland.

Prigionieri.

Mi fermai sulla soglia a curiosare. Questi non erano i militari dell’Aeronautica da noi catturati a Sandia. Erano soldati che avevano combattuto, e le bende che molti portavano stavano a testimoniarlo. Le differenze fra le nostre uniformi e le loro erano numerose, ma a una prima occhiata non si notavano troppo. Il colore di base era lo stesso verde oliva. I loro gradi erano più piccoli dei nostri, e bordati d’argento invece che in nero. I nastrini sul petto avevano certo significati diversi, e da lontano non potevo comunque vederli bene. Inoltre il capitano degli MP mi stava già indirizzando occhiate ostili, così mi allontanai: avevo l’ordine di presentarmi immediatamente a rapporto da chi occupava le camere «William McKinley», e c’era il caso che la guardia alla porta avesse telefonato per annunciare il mio arrivo.

Se anche l’aveva fatto, nessuno gli aveva badato. La sergente di fureria al tavolo presso la porta non aveva mai sentito il mio nome. Scartabellò fra i suoi fogli, parlò al telefono con una certa «Tootsie», ributtò i fogli sottosopra, infine li lasciò perdere e dichiarò: — Si prenda una sedia, maggiore. La sistemeremo appena possibile.

Non ebbi difficoltà a tradurre: «Appena possibile» significava «Quando qualcuno scoprirà chi diavolo sia e cosa si suppone che sia venuto a fare». Mi rassegnai a trascorrere la successiva considerevole frazione della mia vita a strusciare la schiena sulla spalliera dorata di una delle panche allineate in corridoio.

Non mi annoiai poi tanto. Potei assistere all’ingresso e all’uscita di quasi un centinaio di persone, tutte dal passo molto veloce e che non mi prestarono la minima attenzione. Ma una ventina di minuti più tardi, quando i piedi mi erano stati pestati appena due volte, la sergente si alzò e mi fece un cenno.

— Da questa parte, maggiore — disse. — Il sottotenente Kauffmann l’aspetta.

Mai qualcuno mi aveva aspettato con l’impazienza del sottotenente Kauffmann. La prima cosa che gli uscì di bocca fu:

— Dove diavolo si era cacciato, maggiore? Credevano che fosse già alla Casa Bianca!

— Alla Casa… — esclamai, ma lui m’interruppe:

— Proprio così. E in abiti civili, inoltre. Qui si dice — e sbatté una mano su un foglio che aveva davanti — che lei assomigli moltissimo a un senatore dell’altra parte…

— Un accidente che gli assomiglio. Io sono lui.

Si strinse nelle spalle. — Comunque deve assumere la sua identità. Dopo che la prima ondata avrà occupato la Casa Bianca…

Fu il mio turno d’interromperlo: — Stiamo attaccando la Casa Bianca?

— Ma lei dov’era? — si stupì sinceramente. — Non hanno risposto al nostro messaggio, così siamo passati alle maniere forti. Deve mettersi in borghese, le stavo dicendo, e due guardie in uniforme la scorteranno. A darle istruzioni sarà il direttore del portale, ma se ho capito bene vogliono che trovi la loro Presidente, la catturi e la riporti da questa parte.

— Merdasanta! — dissi. E poi: — Un momento. E se il vero senatore DeSota fosse di là?

— Non c’è — affermò lui con sicurezza. — Non l’ha fatto prigioniero lei stesso?

— Ma è passato… voglio dire, credevo che fosse tornato nella sua linea temporale.

Scrollò le spalle. Traduzione: Non è di competenza del mio dipartimento. — Perciò — continuò, — prenda la sua valigia B-quattro e si metta in borghese, poi la porteremo subito a…

— Non ho con me alcun bagaglio — dissi, — e non ho nessun abito civile.

Sbarrò gli occhi. — Cosa? Per Cristo, maggiore! E io come accidenti dovrei fare per trovarle degli abiti civili? Pensava che glieli avrei comprati in sartoria? Perché, maledizione… — La presenza della sergente, sulla porta, gli ricordò la tattica prevista dal manuale per attaccare un bunker del nemico. — Sergente! — ordinò. — Vada a cercare degli abiti civili per quest’uomo!


Fu cosi che venti minuti più tardi la sergente e io venimmo sbarcati da una limousine Cadillac lunga quanto un pullman dinnanzi a un negozio, la cui insegna al neon diceva: AFFITTO abiti da cerimonia VENDO. Il neon era spento, ma il proprietario aveva riaperto per noi. E dopo altri venti minuti l’uomo tirò giù la saracinesca e ripartimmo per la Casa Bianca. — Ottimo lavoro, sergente — le dissi, semisdraiato sul sedile di pelle nera largo quanto un letto a due piazze. Ammirai i riflessi delle scarpe di vero coccodrillo in affitto, mi lisciai la fascia-cintura di seta in affitto, aggiustai il nodo della cravatta in affitto. Stavo già entrando nella parte di un genuino senatore degli Stati Uniti, reduce da un elegante cocktail party e convocato a tarda ora dal Presidente per un’urgenza alla Casa Bianca. — Credo che l’abito da sera sia stato un’idea vincente — commentai. — È impossibile dire quale sia la moda corrente nella loro linea temporale, ma gli abiti da cerimonia non tramontano mai, no?

— Speriamo — si limitò a dire lei. Da lì a poco fummo all’ingresso dei VIP, e la sergente esibì i nostri documenti a un sospettoso MP spalleggiato da altri due diffidenti MP. Erano tutti armati, ma avrebbero potuto anche farne a meno perché il vialetto d’accesso era sbarrato da un’autoblinda con una mitragliera binata puntata su di noi.

Mi occorse un po’ per rendermi conto che sulla Casa Bianca c’era stato un cambiamento. I riflettori! Non c’erano più… evidentemente il satellite russo era passato oltre, e li avevano tolti. Notai anche qualcos’altro.

Perfino all’inizio del weekend il traffico del dopocena a Washington rallentava molto. Ma non da quelle parti. Intorno a noi c’era un lento e continuo movimento di veicoli, e quelli che avevano smesso di macinare i prati erano parcheggiati sulle aiuole. Il verde della Casa Bianca avrebbe avuto bisogno di cinque anni di giardinaggio prima di dimenticare i cingoli dei tank e degli autocarri che l’avevano arato via… «esercitandosi per la parata», naturalmente.

Era chiaro che non intendevano lasciar passare i comuni civili.

Io non ero però un comune civile. Dopo un po’ ci fu fatto cenno di proseguire. L’autoblinda mise in moto e per darci via libera si spostò sull’erba — altri cento dollari di prato buttati nel gabinetto — e l’autista ci portò davanti a un piccolo porticato che non avevo mai visto. — Buona fortuna — disse la sergente. Esitò, poi si sporse a darmi un bacio su una guancia per dimostrare che diceva sul serio.

Quella doveva essere l’ultima volta per un certo periodo di tempo che qualcuno avrebbe mostrato un po’ d’affetto per me.

L’unica volta che avevo visitato la Casa Bianca era stato durante il secondo mandato di Stevenson, e l’esperienza aveva avuto ben altro sapore. Adesso non c’erano valletti in uniforme a guidarmi in giro, né corde di velluto per tenere i barbari fuori dalle camere sacre. Non c’erano neppure camere sacre. Quello che vedevo erano uomini armati in metà dei locali, e armi o macchinari in quasi tutti gli altri. Un caporale mi scortò a passo di marcia per un corridoio di servizio e su per una larga rampa di scale, quindi sbucai in una sala tappezzata in verde e resa austera dai ritratti dei Presidenti Madison e Taft. Un distributore di caffè caldo piazzato su un tavolo appena oltre la porta, con i bicchieri di carta, le conferiva però un’atmosfera accogliente. Alcune delle sedie allineate alle pareti erano occupate: quattro o cinque civili, fra cui una donna che dovevo aver già visto altrove. Ma conoscevo di vista anche un paio degli uomini, specialmente il negro, un ex campione dei pesi massimi. Dalla parte opposta sostavano otto o nove soldati, con le armi in pugno e l’aria d’esser disposti a usarle.

Furono due di loro, robusti e coi gradi di caporale, a farmisi incontro. Quello che m’aveva condotto lì disse: — Ecco il maggiore DeSota, signori — salutò e usci in fretta.

A conferma della rapidità con cui si susseguivano gli avvenimenti non riflettei che di norma un caporale non saluta mai un altro caporale. Così dissi al più grosso dei due: — La prima cosa di cui ho bisogno è una tazza di caffè, caporale.

Lui inarcò un sopracciglio spesso come uno dei suoi gradi, poi sogghignò. — Diamo a quest’uomo un po’ di quel caffè, capitano Bagget — disse. E mentre l’altro «caporale» andava a riempirmi un bicchiere di carta si presentò: — Sono il colonnello Frankenhurst, maggiore. Sa quale sarà il suo compito?

— Uh… spiacente, signore — mi scusai. — La missione? Sì, in linea generale. Voglio dire che, a quanto ho capito, dovrò trovare la Presidente Reagan. E a questo punto suppongo che sarete voi due a intervenire, per catturarla e riportarla qui.

— Una rognosa improvvisazione — disse spassionatamente. — Bene, non importa. In queste ultime quarantott’ore il capitano e io abbiamo ripassato la parte. Se qualcuno ci ferma lascerete parlare me. Tutto ciò che lei deve fare è di passare per un senatore. Pensa di cavarsela? — E sogghignò, a chiarire che aveva la situazione in pugno. — Non si preoccupi troppo, maggiore. Tanto per cominciare può darsi che non se ne faccia nulla. Hanno dei guai con l’impianto-spia; quella gente dall’altra parte si muove attorno così in fretta che i tecnici non riescono a seguirli. Secondo le ultime voci, pare che non apriranno il portale prima delle tre del mattino, in ogni caso.

— Sarebbe un’idiozia — osservò il capitano-caporale, tornando col caffè. — Dovranno rimandare almeno alle otto, altrimenti la nostra comparsa desterà dei sospetti.

Il colonnello scrollò le spalle. — Ovviamente — aggiunse il capitano con un sospiro, e mi guardò da capo a piedi, — un abito da sera non apparirà del tutto normale alle otto di mattina.

— Non si scandalizzeranno per così poco — disse il colonnello. — Bene, DeSota, le andrebbe di conoscere gli altri doppioni? Questa è Nancy Davis… naturalmente l’avrà vista alla TV. — Naturalmente l’avevo vista: era la protagonista del serial Mamma sei fantastica, e mi chiesi come fossero riusciti a distoglierla dalle sue molte benemerite (e redditizie!) attività che andavano dalla raccolta di fondi per la Protezione Animali alle campagne per il Diritto alla Vita. — Lei è la Presidentessa — ridacchiò il colonnello Frankenhurst. — John, qui, è un comandante della polizia addetto alla sicurezza interna della Casa Bianca… nella nostra linea temporale fa il pilota civile, nell’Ohio. E il campione del ring è un senatore come lei. — Attese che stringessi la mano a tutti e sorrise compiaciuto. — Riunirvi non è stato facile, ma formate un’ottima squadra. Qualcuno non siamo riusciti ad averlo, purtroppo. Abbiamo anche cercato il Generale Porteco, il consigliere militare della Presidentessa, ma il nostro amico era appena uscito dal trattamento D.T. e quelli del penitenziario non sono riusciti a rimetterlo in piedi.

L’ultimo dei civili si fece avanti. — Professor Greenberg, Scienze Politiche — si presentò. — Non sono il doppione di nessuno. Ho l’incarico di farmi un’idea delle strutture sociali dell’altra linea temporale, e di consigliarvi su come restringere il più possibile le differenze fra voi e i vostri alter-ego. Di conseguenza devo cominciare da lei, maggiore… è già stato nell’altra linea temporale, no? Che idea se n’è fatta?


Così nella mezz’ora successiva fui io a tenere banco. Non avevo granché da dire, in realtà… cos’avevo conosciuto dell’altro universo, oltre quelle poche miglia quadrate di deserto nel New Mexico? Ma era più di quanto sapessero tutti i presenti, e ciascuno aveva delle domande. Il professor Greenberg volle chiedermi quanto costasse una lattina di Cola Cola nei loro distributori automatici. Il «senatore» Clay volle sapere quale percentuale di negri ci fosse nelle loro forze armate. La «Presidentessa» Nancy Davis domandò quali fossero i «serial» di maggior successo alla loro TV, e se per caso sapevo se da loro l’aborto fosse stato legalizzato. Il colonnello-caporale Frankenhurst volle essere informato sulle loro tecniche di combattimento a mani nude, e chiese se durante l’occupazione di Sandia li avessi visti reagire con mosse di judo oppure di karaté.

Feci del mio meglio. Ma mentre cercavo di ricordare, per Nancy Davis, chi fosse il presentatore del loro show Star Parade, ci furono dei passi in corridoio, la porta si aprì e venne dentro il Presidente Brown seguito dal suo entourage al completo. Non aveva l’aria molto soddisfatta.

Non m’ero aspettato che si facesse vedere, poiché avevo sentito dire che s’era incavolato a morte constatando i danni che i militari avevano fatto alla sua dimora legale, senza contare la sua agenda d’appuntamenti buttata all’aria da chi aveva depennato i nomi di quelli non autorizzati a vedere ciò che succedeva… che erano la maggioranza.

— Ah, eccola qua! — disse brusco, riuscendo a trovare una specie di smorfia con cui rispondere al blando sorriso di Nancy Davis. — Ho bisogno di parlare con lei. Adesso, se non le spiace!

Per nulla intimidita lei annuì affabilmente. — Certo, signor Presidente. Cosa posso fare per lei?

— Tanto per cominciare potrebbe dirmi che accidente di persona è — sbottò lui. — Non si è neppure degnata di rispondere al mio messaggio pubblico! Cosa bisogna fare per ottenere la sua preziosa attenzione?

— Suppongo che lei si riferisca all’altra me stessa, signor Presidente — disse lei, sorridendo del suo speciale sorriso televisivo, un trionfo, ne ero certo, della cosmesi e della chirurgia estetica. — Non so se posso darle questa risposta, comunque. Dopotutto io non sono realmente la Presidentessa… qui.

— Entri nella sua parte, santo cielo! — ruggì lui. — Ha un’idea di cosa c’è in gioco? Non sto parlando del pandemonio di quell’altro mondo. Sto parlando di questo qui. I russi stanno facendo domande molto seccanti sui «preparativi per la parata» e sullo «scavo archeologico» nel New Mexico, e ci sono altre nazioni coinvolte. È solo questione di tempo prima che tutto il resto del mondo venga a ficcarci il naso. E allora come la metteremo coi comunisti? — Vedendola sbattere le palpebre ebbe un gesto irritato. — No, non è questo che voglio domandare a lei… che accidente potrebbe saperne di questo? Io mi sto rivolgendo a lei. All’altra lei. Sarebbe d’aiuto, a suo avviso, se cancellassi tutta l’operazione e cercassi di contattare lei, l’altra lei, su una linea telefonica? Da Presidente a Presidente? Una chiacchierata faccia a faccia?

— Ecco, presumo che dipenda da quel che direbbe, signor Presidente — rispose lei, dopo aver riflettuto un attimo.

— Direi la verità! — esclamò lui. — Sarebbe uno scambio, un patto da prendere in considerazione, no?

— Be’ — disse lentamente lei. — Penso, signor Presidente, che dovrei ricordare il mio giuramento ufficiale. Suppongo che sia uguale a quello fatto da lei. Difendere gli Stati Uniti contro tutti i nemici, interni o esterni… perfino se sono interni ed esterni contemporaneamente, per così dire. Quello che non vorrei mai, credo, è di permettere che la mia patria sia invasa da chiunque senza combattere con tutte le armi che abbiamo… anche se l’invasore è la mia stessa patria.

Lui la guardò, scoraggiato. Poi girò gli occhi sui presenti, particolarmente sugli uomini in uniforme. Per la prima volta in vita mia, credo, fui contento d’essere soltanto un ufficiale da campo, senza alcun rapporto con gli strateghi ad alto livello. Non mi sarebbe piaciuto essere uno dei Capi di Stato Maggiore, in un momento come quello.

Il Presidente andò a sedersi su una sedia, corrugò le sopracciglia e fissò lo sguardo in un punto vuoto della parete opposta. Uno dei collaboratori si piegò a mormorargli qualcosa di urgente, ma lui lo allontanò con un gesto seccato. — Dunque, alla resa dei conti, ci troviamo una guerra per le mani — disse ad alta voce.

Nessuno aprì bocca per replicare.

Nella stanza cadde un silenzio di piombo. Il collaboratore che aveva fretta gettò un’occhiata al suo orologio, poi a Jerry Brown. Senza guardarlo il Presidente disse: — Lo so. Probabilmente era un’osservazione accademica, ormai. Qualcuno vada alla finestra a vedere se hanno cominciato.

Il suo aiutante era un giovane, non più che trentacinquenne, ma quando andò a scostare le lunghe tende verdi le sue spalle curve erano quelle di un centenario.

Avrebbe potuto anche fare a meno di aprire i vetri, perché proprio in quel momento udimmo levarsi i sordi brontolii dei mezzi cingolati che mettevano in moto i diesel.

Poi tutti quanti andammo alle finestre. Ce n’erano tre, e istintivamente lasciammo quella di centro al solo Presidente. Andò al davanzale a passi lenti, e senza dir parola spinse uno sguardo pensoso nella calda notte esterna, mentre noi ci affollavamo alle altre due finestre.

Davanti a noi c’era il Prato Sud, quello solitamente riservato ai servizi fotografici durante le visite di capi di stato e alle scolaresche di Washington venute a stringere la mano al Presidente. Al centro era stata costruita una grande struttura coperta da reti mimetiche, per celare qualcosa a chi guardava dalla strada o dall’alta atmosfera, ma dalle finestre era possibile vederne l’interno: c’era il largo rettangolo nero di un portale, simile a uno schermo cinematografico su cui venisse proiettata solo una profonda notte cosmica. Anche se l’avevo fatto più volte, era snervante guardare quella cosa e immaginarsi nell’atto di sprofondarvi dentro.

E fu ancora più snervante quando vidi il primo squadrone di sei carri armati rombare avanti sull’erba sconvolta e scomparire nel portale, insieme al loro rumore. Subito dopo fu la volta di cingolati da trasporto truppe, una dozzina, seguiti da scaglioni di Ranger, altre autoblinde, un’intera compagnia dell’esercito in tute mimetiche… jeep armate di mitragliere, altri cingolati…

Il Presidente fece un sospiro e si volse. Attraversò la stanza, tallonato dal suo staff, e sparì verso i corridoi già piuttosto animati dove aveva preso inizio la parte interna dell’operazione. Io e gli altri che eravamo rimasti nel locale ci fissammo l’un l’altro.

Sapevamo che adesso, molto probabilmente, sarebbe toccata a noi.

Da quel momento in poi l’operazione procedette velocemente, eccitante nei suoi particolari preordinati che scattavano l’uno dietro l’altro. I pezzi grossi si affrettavano qua e là, distribuendo raffiche di ordini, ed io cominciai a sentirmi formicolare la pelle. Ero euforico, vibrante di compulsioni che andavano molto al di là della voglia di fare qualcosa di eroico solo per placare il Generale Facciaditopo Magruder. Appena Frankenhurst diede il segnale uscimmo dalla Sala Verde e passammo al piano di sopra, percorrendo il lungo corridoio anteriore dov’erano scaglionati dozzine di marines col mitra in pugno… e quasi all’improvviso fummo là. Nell’Ufficio Ovale stesso, la sala del trono del Presidente Brown.

In quel momento era la cosa più diversa da una sala del trono che possiate immaginare. Se non avessi saputo dov’ero, l’avrei detta l’incrocio fra una stanza di sgombero e il laboratorio di uno scienziato pazzo: la scrivania presidenziale era stata spostata contro il muro, duemila dollari di preziose poltrone e cinquemila dollari di divani erano accatastati fin quasi al soffitto. E nel centro del locale sorgeva una complicata struttura rettangolare al centro della quale non c’era niente, come una cornice vuota. Era alta quattro metri circa, con la base a livello del pavimento, collegata da un lato col generatore di campo del portale e dall’altro con pannelli di strumenti.

Il campo era spento.

Ciò che compresi dagli ordini e dalle imprecazioni che fioccavano tutto attorno fu che l’apparizione del sipario di tenebra nel rettangolo era ostacolata da qualche inconveniente. Al di là del portale un colonnello, frustrato e irritatissimo, stava sparando ordini ai tecnici che si davano da fare a togliere pannelli in cerca dei fusibili responsabili dell’interruzione di corrente. Tre quarti del plotono d’assalto di cui era previsto il passaggio oltre quel portale stavano in fila davanti alla grande cornice, mentre il loro capitano sbraitava proteste cercando di far voltare il colonnello verso di sé. Se fossi stato un colonnello non avrei permesso a un capitano di usare quel tono, ma lui era troppo occupato a rodersi l’anima sul guasto per ascoltarlo.

La scena era tutt’altro che rassicurante.

Verso di noi si fece largo la direttrice del portale. Aveva i gradi di maggiore, ma non stava abbaiando a nessuno anche se la sua era la faccia di chi ha raggiunto il culmine del disgusto. Si rivolse ai miei due caporali: — Voi dovrete aspettare. Abbiamo mandato di là solo otto uomini prima che cortocircuitasse, e adesso potreste incontrare resistenza. Tenetevi fuori dai piedi.

Il colonnello-caporale Frankenhurst annuì come a dire già fatto, ma non si mosse. — Com’è la situazione sull’altro lato?

Restammo ad aspettare la risposta, ma si trattava chiaramente di una domanda inutile e la direttrice del portale si limitò a inarcare un sopracciglio. Poi ci volse le spalle e tornò ai fatti suoi. Perché, com’era ovvio, non lo sapeva. Non poteva saperlo. Una volta che gli uomini fossero spariti oltre il portale, erano andati. Non potevano essere visti né uditi. Non potevano tornare a far rapporto. E non potevano neppure mandare messaggi di qualunque genere, finché un secondo generatore di campo non fosse stato portato dall’altra parte e messo in funzione. Se avessimo avuto un apparato-spia… ma no, anch’esso avrebbe dovuto essere collegato al portale, e questo era spento. Dunque non sapevamo cosa stesse accadendo nell’altra Casa Bianca.

Poco dopo tuttavia il portale fu riattivato e lo sapemmo, ma non furono buone notizie. L’operazione fu una sorpresa tattica, un successo completo sotto tutti gli aspetti salvo uno: non raggiunse l’obiettivo per cui era stata messa in piedi. La signora Presidentessa se n’era andata attraverso un’uscita di cui nessuno aveva sospettato l’esistenza.

Entro altri dieci minuti il traffico nei due sensi fu stabilito su tutti i piani dell’edificio, ma ormai l’efficienza tecnica aveva scarsa importanza. Prendemmo prigionieri a iosa; i nostri avevano sorpreso le guardie e gli uomini dei servizi segreti praticamente con le braghe in mano. Vidi il consigliere militare della Presidentessa Regan, un brigadiere generale in alta uniforme, portato via con aria furiosa e risentita da «Questo oltraggio a me!». Catturammo perfino il Primo Gentleman, riconosciuto grazie alle videocassette dei suoi vecchi film fatte circolare fra le truppe, ma la persona che più volevamo ci sfuggi.

La signora Presidente aveva tagliato la corda.

Alle prime luci di quell’alba tiepida trovai un passaggio per tornare allo Sheraton in un pullmino della Casa Bianca, anacronistico fra i prigionieri e le guardie nel mio elegante abito da sera.

Quello che ci aspettava adesso era pura e semplice guerra.

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