Quando l’anziano signore, sbirciando fuori dalla porta, si fu accertato che sulle scale non c’erano vicini curiosi o rumori sospetti, scese rapidamente a controllare la cassetta della posta. La preziosa busta marrone con l’assegno dell’Assistenza Sociale era lì. Se la mise in tasca, ciabattò svelto su per le scale, e appena dentro diede tre mandate al catenaccio della serratura. Adesso avrebbe potuto passare qualche serata allegra al Seven Eleven, pagare i conti del droghiere e comprarsi quelle eleganti scarpe nere in vetrina da Macy’s. Non s’accorse del lieve sospiro di… qualcosa… che lo sfiorò. Ma quando si volse constatò stupefatto che il suo appartamento era stato saccheggiato! Nello spazio di un minuto il televisore era scomparso, il contenuto degli armadi scaraventato al suolo, le poltrone sventrate, e la cucina era un massacro di stoviglie e cibarie rovesciate dappertutto. Con un gemito aprì la porta della camera: la sua preziosa collezione di stampe era stata fatta a pezzi… e c’era qualcuno steso di traverso sul letto. Un uomo. Aveva la gola tagliata, gli occhi sbarrati, un’espressione di spavento e d’orrore incollata sul volto… e quel volto era il suo.


24 Agosto 1983
Ore 4,20 del pomerìggio — Mrs. Nyla Christophe Bowquist

Avrei dovuto essere già in volo verso Rochester, per gli spot pubblicitari pre-concerto. Non ero stata capace di lasciare Washington. La giornata mi roteava attorno in una serie d’immagini folli, scoordinate, nebulose, e l’ora della partenza era passata senza che me ne accorgessi. Amy mi aveva prenotato un posto su un volo della sera, e le avevo detto di cancellare anche quello. Poi feci ciò che faccio quando mi sento disperata, confusa, stordita e preoccupata: mi esercitai sul violino. Misi nel registratore una cassetta con la parte per orchestra di un pezzo di Čajkowskij, tolsi l’audio al televisore acceso e cominciai a suonare in concerto. Ripetei l’esecuzione più volte, ma i miei occhi non si staccavano dalla TV che ogni venti minuti circa ripeteva la pazzesca trasmissione della sera prima, dove Dom — caro Dom, mio amato, mio amante, mio complice nell’adulterio! — sedeva con quell’untuoso sorriso sul volto e presentava quell’incredibile Presidente degli Stati Uniti, dicendo quelle cose incredibili. I programmi normali erano stati abbandonati, ma tutti continuavano ad occuparsi di quell’unica notizia. Le truppe straniere nel New Mexico tenevano saldamente l’area che avevano invaso, le nostre non le attaccavano, e a Washington nessuno voleva rilasciare dichiarazioni ufficiali.

Non ero la sola persona completamente disorientata e confusa in città, quel giorno. Perfino il tempo era incomprensibile: al largo della costa stava passando una specie di uragano, e i momenti di afoso sereno si alternavano a ondate di pioggia.

Il telefono cominciò a trillare. Jackie mi chiamò due volte, poi entrambi i Rostropovich, e il direttore di scena di Slavi, e poi l’anziana Mrs. Javits… e quindi tutti coloro che sospettavano che io avessi qualche interesse personale per il senatore Dominic DeSota. Prestarono grande attenzione a non dire nulla d’imbarazzante, e furono gentili come al capezzale d’un malato. Dopo le prime conversazioni cominciai a tagliare corto dicendo che non sapevo nulla, non ricordavo nulla, ero così confusa e no, durante la nostra ultima chiacchierata Dom non aveva neppure accennato alla Base di Sandia. Per fortuna non ci furono chiamate da parte della stampa. Il nostro segreto, la nostra vita privata, era momentaneamente al sicuro.

Dedicai qualche istante a compatire la povera Marilyn DeSota, seduta sotto la sua veranda, coi suoi telefoni che squillavano incessantemente, e che si stava domandando cosa accidenti e maledizione aveva combinato l’uomo che s’era preso per marito.

Sì, provai pena per la moglie del mio amante. E non era la prima volta. Però era la prima volta che ciò occupava più di mezzo secondo dei miei pensieri: tanto mi occorreva, di solito, per dirmi che dopotutto la responsabile dell’infedeltà di Dom era lei, e non io.

Comunque questo era quel che mi costringevo a pensare.

E Amy cominciò ad arrivare di continuo… con una tazza di tè, con importanti domande sul vestito che avrei indossato a Rochester, e per chiedere se non avevo dimenticato l’intervista con Newsweek per l’indomani mattina, e per riferire cos’aveva detto l’amministratore di Rochester quando aveva chiamato e io non avevo voluto parlargli.

Non avevo dimenticato di avere un concerto a Rochester, ovviamente.

In un certo senso stavo lavorando più duramente di quel che avrei fatto una volta sul palcoscenico. Stavano cercando di convincere Riccardo Muti a dirigere il concerto, e fra me e lui c’erano già state delle divergenze di opinioni. Gli avevo fatto sapere che avrei suonato Čajkowskij, e su questo s’era detto d’accordo, ma io intendevo eseguirlo senza i soliti tagli. Muti aveva incominciato a imprecare. Rochester adesso aveva difficoltà a ingaggiarlo. Be’… quello era l’uomo per loro, se riuscivano a ottenerlo. E una primadonna direttore non era il tipo che si adattava a dividere l’orchestra con una primadonna strumentista. Avevo sempre difficoltà di quel genere quando suonavo Čajkowskij, e di solito finivo per abbozzare. Ma stavolta non volevo farlo.

Così eseguii tutta la mia parte, due volte; bevvi un paio di tazze di tè e la suonai ancora.

Il guaio era che le mie dita viaggiavano con la musica, ma la mia mente era altrove. Che cosa stava facendo Dom? Non poteva almeno telefonarmi? Era possibile che quel pazzo progetto della Gasa dei Gatti, di cui mi aveva parlato, fosse una cosa in qualche modo reale? E cosa ne stavo facendo della mia vita? Ogni tanto mi accadeva di pensare che se volevo davvero avere un bambino non sarebbe mai stato troppo presto per…

Ma con chi volevo avere un bambino?

Cercai di costringermi a pensare alla musica, mentre quei dolci, lussureggianti temi romantici fluttuavano dal mio Guarnerius. Čajkowskij aveva avuto i suoi guai. Con quel concerto, ad esempio. «Per la prima volta si deve credere nella possibilità che la musica puzzi agli orecchi», aveva commentato un critico alla Prima. Come si può vivere dopo una recensione del genere? Ma adesso era messo in repertorio come uno dei concerti più amati. La sua vita era stata molto più travagliata della mia, politica a parte… forse politica a parte, perché doveva certo esserci stato un sapore bizantino in quel destreggiarsi attorno alla corte dello zar. Col matrimonio gli era andata peggio di me, e il risultato era stata una separazione tempestosa. Per vent’anni aveva scambiato torride lettere d’amore con Najeda von Meck, senza mai dare alla poverina la soddisfazione d’incontrarlo una volta, e arrivando a fuggire dal retro della casa quando lei, inattesa, s’era presentata alla porta d’ingresso. Folle di un Peter Ilych! Si diceva che all’inizio desiderasse fare il direttore d’orchestra. Ma la cosa fu un fallimento, dato che cominciò a dirigere gli orchestrali tenendo la bacchetta nella mano destra e il mento stretto nella sinistra, perché misteriosamente s’era sviluppata in lui la convinzione che se non si afferrava il mento la testa gli sarebbe ruzzolata per terra. Pazzo Peter Ilych…

Sping! esplose una delle mie corde, la seconda che spaccavo quel mattino. Dopo un sospiro dovetti mio malgrado sogghignare, al ricordo di quel che una volta Ruggero Ricci mi aveva detto: «Uno Stradivari lo devi sedurre, ma un Guarnerius lo devi violentare». Solo che io lo stavo violentando troppo rudemente.

All’istante Amy si precipitò nella stanza. Non le domandai se stava origliando: naturalmente non aveva di meglio da fare. Le lasciai esaminare il violiono, e lei se lo studiò con estrema cura prima di cominciare a togliere la corda. — Meglio sostituirle tutte — suggerii, e lei annuì. Intanto che le tirava fuori dagli involucri tornai ai sogni a occhi aperti. Pazzo vecchio Peter Ilych, riflettei… solo che quel pensiero si modificò in «Pazza di una Nyla Bowquist, che ne stai facendo della tua vita?».

Mi leccai pensosamente i polpastrelli. Erano malridotti. Non stavano sanguinando: per arrivare alla carne viva dei polpastrelli della mia mano sinistra ci vorrebbe un rasoio. Però mi dolevano. Avevo dolori da tutte le parti.

Dissi: — Amy, dove credi che sia mio marito in questo momento?

Lei controllò l’orologio da polso. — In questo fuso orario sono le cinque. Laggiù sono un’ora indietro… suppongo che sia ancora in ufficio. Vuoi che te lo chiami?

— Sì, per favore. — Perfino quand’era un altro a pagare, Ferdie non era contento che lo chiamassi da lunga distanza, così avevamo ottenuto l’uso di una linea speciale. E Amy era speciale nel tenere a mente tutti i numeri di cui potevo aver bisogno. Riuscì ad avere la comunicazione in un paio di minuti.

— Era già uscito diretto al Club — disse, porgendomi il ricevitore. — L’ho raggiunto sul telefono della sua auto.

Le rivolsi un’occhiata che lei interpretò subito correttamente. — Andrò a lavorare nell’altra stanza — sospirò, e raccolse il Guarnerius, le corde e gli attrezzucci per la pulizia.

— Caro? Sono Nyla — dissi.

— Grazie per avermi chiamato, dolcezza — rispose la sua voce calda e morbida. — Ero un po’ in pensiero per te, con tutto quel che sta succedendo…

— Oh, io sto perfettamente — mentii. — Ferdie?

— Sì, tesoro?

— Io… uh, c’è un gran caos qui, oggi.

— Lo so. Stavo pensando che potresti avere delle difficoltà a trovare un volo per Rochester. Suppongo che su ogni linea aerea ci sia il tutto esaurito. Vuoi che ti mandi il jet della compagnia?

— Oh, no — mi affrettai a dire. Ciò che volevo poteva essere molto confuso, ma sapevo benissimo ciò che non volevo. — No, Amy riesce a meraviglia in cose di questo genere. Il fatto è, Ferdie caro, che c’è qualcosa che devo dirti. — Trassi un lungo respiro per buttar fuori quelle parole.

Non volevano saperne di uscirmi di bocca.

— Si, cara? — chiese educatamente Ferdie.

Feci un altro respiro e decisi di avvicinarmi all’argomento con molta cautela. — Ferdie, tu conosci Dominic DeSota?

— Naturalmente, tesoro! — ridacchiò lui. Be’, che domanda sciocca. Quel giorno non c’era nessuno in tutta la nazione che non conoscesse Dominic DeSota, a parte il fatto che per ragioni d’affari Ferdie allacciava contatti con chiunque nell’Illinois detenesse un briciolo di potere.

— Da non credersi, vero? — commentò. — Capisco che devi essere sconvolta al pensiero di quel che ha fatto.

Deglutii saliva. Naturalmente non aveva inteso alludere a nulla di personale, ma quando avete la coscienza sporca riuscite a sentire doppi sensi anche in un semplice «Ehilà». Cercai d’immaginare quello che Ferdie poteva cominciare a dedurre dalla mia domanda. E mi resi conto che stavo recitando proprio la classica parte della moglie che ha qualcosa da confessare e non riesce a trovare il modo di dirlo. Ma il peggio era che forse il mio subcosciente stava lavorando per arrivarci in un modo più vile: insinuare nella mente di Ferdie il germe del sospetto, per far sì che fosse lui a fare quelle domande a cui volevo rispondere.

Solo che Ferdie non divenne sospettoso. Semmai anzi divenne più tenero, fra noncurante e divertito, verso quella moglie svanitella che ad un tratto non ricordava più ciò che voleva dirgli. — Ferdie — tornai a farmi forza, — c’è una cosa di cui devo parlarti. Vedi, tu sai che io ero… Eh? Che cosa succede, Amy? — sbottai, seccata, vedendola apparire sulla porta.

— È appena arrivata la signora Kennedy — m’informò.

— Oh, all’inferno! — sussurrai. Il ricevitore mi trasmise la risata di Ferdie.

— Ho sentito quel che ha detto Amy — sogghignò. — Hai un’ospite illustre. Bene, tesoro, il mio autista ha parcheggiato in doppa fila di fronte al Club, e come senti stiamo scatenando i clacson altrui. Ne parliamo più tardi, d’accordo?

— Sì, sarà meglio, caro — dissi, frustrata e ansiosa… e alquanto sollevata. Un giorno o l’altro avrei dovuto dirgli tutto, tutte quelle parole, tutte quelle verità. Ma grazie a Dio quel giorno doveva ancora venire. E quando Jackie entrò, annunciando che stava per trascinarmi a cena a casa sua… «Solo una cena in famiglia, cara, nessuna formalità, ma ci fa piacere averti con noi», fui lieta di accettare l’invito.


Non fu veramente una cena in famiglia — i bambini non c’erano — e neppure una di quelle sedute parlamentari che uno può immaginare siano le cene della famiglia Kennedy, sebbene a tavola ci fosse il principale collaboratore di John con la moglie, perché l’unico altro ospite era il nostro vecchio amico Lavrenti Djugashvili. Ottimo compagno di tavola e piacevole conversatore, certo, ma data la situazione fui sorpresa di vederlo. Questo rendeva però la mia presenza più facile da capire, perché quella sera Lavi era solo e a Jackie non piaceva una tavola sbilanciata. — Ah, mia cara Nyla! — esclamò, baciandomi la mano. — Quest’oggi sono scapolo. Xenia è tornata a Mosca per accertarsi che il collegio fornisca tutte le giuste pillole di vitamine alla nostra bambina.

— Ma noi non propineremo pillole a te — disse il senatore. — Quel che ti offriamo è solo una cenetta tranquilla, e ce n’è bisogno dopo una giornata com’è stata quella di oggi. Albert! Vedi che drink preferisce Mrs. Bowquist.

Sarà bene precisare: Ferdie è ricco all’incirca quanto John Kennedy, ma quando noi facciamo una normale «cena informale in famiglia» non la teniamo in sala da pranzo con un cameriere in livrea che passa coi vassoi. Ci sediamo in quello che oggi si chiama «spazio colazione», e Hannah, la cuoca, arriva coi piatti e ce li mette davanti. I Kennedy non erano mai informali fino a quel punto. Avemmo i nostri cocktail nel grande salotto, dove i ritratti dei tre defunti fratelli del senatore ci osservavano dalle pareti, e quando passammo in sala da pranzo, a guardarci furono i ritratti a olio del vecchio Joe e di Rose. Il vino proveniva dai vigneti della famiglia, e l’argento non era argento, era oro bianco.

John Kennedy non aveva però mentito promettendoci una cenetta tranquilla. Questo mi aiutò a far tornare la realtà al suo posto. Fu né più né meno uno di quei piccoli «dinner party» a cui mi adattavo per un buon centinaio di sere all’anno, comprese le chiacchiere sul tempo (l’uragano faceva il suo corso, la pioggia sarebbe peggiorata), sugli esami scolastici della figlia di Lavi, e su quanto divinamente (mi ripeté Jackie) avessi suonato il concerto di Gershwin, e che peccato che quella spiacevole faccenda avesse distratto il pubblico.

L’ambasciatore mi dedicò molta della sua attenzione e dei suoi sorrisi attraenti, facendo garbati e divertenti complimenti al mio vestito, ai fiori sulla tavola, al vino e alle portate. Lavrenti m’era sempre piaciuto, anche perché amava veramente la musica. Non sempre si trattava della musica che io capivo. Una volta mi aveva portata ad assistere all’esibizione di una troupe della Georgia sovietica, cinquanta uomini robusti e scuri di pelle, molto energici e virili, che muggivano canti d’intonazione vagamente religiosa intercalandoli con vigorosi Hai! e Hei! ogni pochi secondi. Non si trattava del mio pane quotidiano, ma nell’uscire dal teatro gli occhi di Lavi erano ancora lucidi di mistiche lacrime. E l’avevo visto ammalarsi d’estasi nella sua poltrona di platea, mentre eseguivo la Seconda di Prokofiev. Il che era rivelatore, perché sebbene sia musica bellissima e piacevole solo una minima frazione del pubblico ne viene toccata al cuore.

Ma poi, per oltre un’ora, l’argomento in discussione fu l’invasione da parte degli altri Stati Uniti d’America, e naturalmente si parlò del mio Dom.

A tirarlo in ballo fu Jackie. Lei e Mrs. Hart erano impegnate in una raccolta di fondi per la Constitution Hall, e ambedue raccontarono cosette divertenti su Patricia Nixon, che voleva portare sul podio un gruppo «country-and-western» e su Mrs. Helms la quale s’era incapricciata di un tenore della Southern Methodist University e intendeva mandarlo alla ribalta. Mentre attaccavamo la gallina della Guinea in salsa di riso, Jackie si volse a me: — Che ne pensi, Nyla, te la sentiresti d’intervenire e suonare qualcosa, ad esempio Berg?

Il senatore si raddrizzò con una smorfia (la sua schiena, come sapevamo, non era mai guarita bene) e commentò: — Berg? Quella roba tutta squittii e cigolii, non è così? Davvero ama una simile musica, Nyla?

Be’, nessuno veramente «ama» un concerto di Berg. Voglio dire, sarebbe come «amare» un elefante selvaggio: dovete prestargli attenzione, vi piaccia o no. Ma è un pezzo di bravura, così ero costretta ad eseguirlo una volta ogni tanto per impressionare i critici. A casa mia non potevo ottenere un buon risultato, perché la Chicago Orchestra Hall non ha un’acustica adatta. È ottima, ad esempio, per un Beethoven o un Bruch, così ritmici e melodici che l’orchestra non ha bisogno di sentir vibrare le note. A loro serviva qualcosa sul genere di Berg, però anche l’acustica della Constitution Hall aveva gravi difetti.

Mentre li illustravo mi accorsi che non godevo dell’attenzione di John Kennedy. I suoi occhi erano su di me ma guardavano dritti attraverso il mio corpo, e invece di mangiare la salsa di riso ci stava facendo dentro dei ghirigori con la forchetta. Diedi la colpa alla sua schiena, e Lavi ebbe lo stesso pensiero: — Ah, senatore! — intervenne, con quel suo buonumore da orso russo. — Perché non viene a Mosca a farsi vedere da uno specialista? L’Istituto Medico Djugashvili, che deve il nome a mio nonno e non a me, ha i migliori chirurghi del mondo, senza discussione!

— Potrebbero darmi una schiena nuova? — borbottò lui.

— Trapianto spinale. Perché no? Abbiamo Azimof, il migliore in questo campo. Ha già fatto quattrocento trapianti di cuore, senza contare quelli di fegato, di testicoli e Dio sa cos’altro. Si dice che un giorno, dopo una mattinata molto intensa, sedette a tavola davanti a un pollo alla diavola, e prima di rendersene conto gli aveva già trapiantato i reni e un polmone.

Io risi. Jackie rise. Tutti intorno al tavolo ridemmo, eccetto il senatore. Piegò le labbra, ma il suo sorriso non durò. — Scusami, Lavi — disse. — Ma ho paura che stasera il mio «sense of humor» sia in sciopero. — Mise giù la forchetta e si sporse in avanti. — Gary, hai detto che stavano portando qui in volo Jerry Brown, vero? Voglio dire il nostro Jerry.

— È così, senatore. L’hanno localizzato nel Maine, ma l’aereo era in ritardo a causa del cattivo tempo.

Il senatore si massaggiò ancora la schiena, con un grugnito. — Dio solo sa a cosa potrà servirci Brown — disse, accennando al cameriere di portar via il suo piatto. — Ma suppongo che almeno ci darà un’immagine personale e politica del suo doppione, sulla quale regolarci.

Hart annuì. — Vorrei che avessimo stabilito una miglior linea di condotta con quella gente. Forse possiamo scovare un po’ dei loro doppioni, qui da noi, e metterli al lavoro su qualche idea.

Nessuno dei due stava guardando me, ma Jackie si. — Nyla — disse, — tu conosci Dom DeSota, naturalmente. — E cominciai a capire il motivo per cui ero stata invitata. Senza esprimere il concetto apertamente, Jackie mi stava conferendo il titolo onorario di moglie… come si potrebbe dire… fidanzata. Non avrebbe potuto trattarmi meglio se Dom e io fossimo stati regolarmente sposati. E non mi avrebbe trattato meglio, se fossimo stati sposati, perché la reputazione di Dom era chiaramente colata a picco.

O forse no, dato che proseguì: — Penso che tu gli abbia parlato poco prima che partisse per il New Mexico, al party, no? — Un’esibizione di tatto! Ma l’aiutante di Dom doveva aver parlato. — Mi chiedo se non abbia detto qualcosa circa il motivo.

Esitai. — Non so se voi siate al corrente di quel che facevano a Sandia…

Lavrenti disse: — Penso proprio di sì, mia cara Mrs. Bowquist. Perfino io ho raccolto certe voci.

— Potete parlare liberamente — dichiarò il senatore. — Se prima era un segreto, adesso non lo è più.

— Bene… il senatore DeSota disse qualcosa a proposito di un doppione di se stesso. Identico. Voglio dire, aveva perfino le stesse impronte digitali. L’hanno convocato là per metterlo a confronto con quest’altro uomo.

— Eccolo il fatto! — esclamò trionfante Gary Hart. — È proprio come sospettavamo, senatore. L’uomo che ha parlato in TV non era per niente il nostro Dom DeSota.

Il senatore annuì. Si volse al maggiordomo. — Prenderemo il caffè nel mio studio, Albert. E poi a noi: — Andiamo a dare un’altra occhiata a quest’uomo, in TV.


Anche così mi occorse un po’ di tempo per capire quello che volevano provare. Lo studio in cui ci accomodammo… be’, non era ciò che io avrei chiamato uno studio. Era più largo del mio salone di soggiorno a Chicago, e una trentina di persone avrebbero potuto riunirsi lì senza sentirsi in carenza di spazio. C’erano quattro schermi televisivi normali e uno gigante, collegamenti diretti con tutti i satelliti americani o stranieri, e un certo numero di videoregistratori. John Kennedy sedette in un angolo col suo sigaro in mano, sotto il condizionatore d’aria, e mordicchiandosi le nocche delle dita studiò il replay dell’esibizione di Dom, della faccia di Dom, delle parole che io non riuscivo a credere di sentire dalla bocca di Dom.

Anche John Kennedy sembrava non crederci. — Che ne pensate? — domandò attorno. Nessuno gli rispose, e vidi che Hart stava fissando me.

Per un attimo mi chiesi se, in qualche modo, non mi ritenessero complice o responsabile dell’incredibile voltafaccia di Dom. Di nuovo la coscienza sporca, naturalmente.

Poi a quel pensiero se ne sostituì un altro.

— Fatemelo vedere di nuovo, vi spiace? — chiesi, e m’accorsi che mi tremava la voce. Frugai nella borsetta, ne tolsi gli occhiali e li misi, cosa che non facevo mai in pubblico. Fissai intensamente il volto del mio amante, studiandone ogni linea, analizzando il tono di ogni parola, assorbendone ogni gesto.

Dubbiosa mi accigliai. — Mi sembra alquanto dimagrito, no? Come se fosse stato sottoposto a molta tensione… o qualcos’altro.

— O qualcos’altro — affermò Hart. — Avevamo intuito giusto, senatore. Questo non è il nostro Dom DeSota, è il loro.

— Io lo sapevo — affermò placidamente Jackie, che era venuta accanto alla mia poltrona. Sentii una sua mano su una spalla, rassicurante. Avrei potuto baciarla. Quel nodo d’angoscia che non m’ero accorta d’essermi portata dentro fino ad allora si sciolse di colpo. Oh, Dom! Sarai un adultero è vero, ma non potresti mai essere un traditore!…

— Adesso — annunciò il senatore, — credo che dovremmo dare un’occhiata a quel rapporto della CIA, Gary. — Inforcò gli occhiali, prese il fascicolo che il collaboratore gli porgeva e cominciò a leggere la prima pagina.

Non li ascoltavo più. Ero troppo occupata ad assaporare il mio sollievo. Non che questo sistemasse tutto, naturalmente. C’era ancora Ferdie. Per non parlare di Marilyn DeSota. Ma almeno uno dei pesi che mi schiacciavano m’era stato tolto di dosso.

Mi chiedevo che ore fossero. Se avessi potuto liberarmi presto e tornare all’albergo… se ce l’avessi fatta a chiamare Ferdie prima che andasse a letto… forse adesso sarei stata capace di controllarmi abbastanza da potergli dire quel che avevo tanta paura di dire. Ovviamente restava il problema Marilyn…

E non c’era niente di ovvio, in Marilyn! Che diavolo stavo pensando? Come potevo meditare di confessare il nostro segreto senza informarne Dom? Come potevo soltanto pensarlo, senza prima essermi consultata con Dom innanzitutto?

Di nuovo brancolante nelle mie incertezze cercai di prestare attenzione a quel che John Kennedy stava dicendo: — … due persone. Il primo un poliziotto di Albuquerque più sveglio di quel che credevano loro. La seconda, una graziosa agente dell’FBI, in short aderenti e bicicletta, sulla collina dove altri di loro piantonavano il ripetitore della TV. Nessuno dei due ha avuto difficoltà a far chiacchierare gli uomini del nemico.

— Misure di sicurezza piene di buchi — si accigliò Hart.

— Piene di buchi le loro, e meglio per noi — disse John. — Comunque questi non hanno detto niente… o almeno non molto, circa questioni d’interesse militare. Ma sia il poliziotto sia la ragazza dell’FBI li hanno fatti parlare sulle differenze fra il loro mondo e il nostro. Penso che adesso abbiamo una discreta idea dei punti in cui la loro storia e la nostra divergono.

Mi sforzai di capire bene quel che John Kennedy disse poi. Non mi era facile. La mia cultura riguardava principalmente la musica, e al tempo in cui frequentavo la Juilliard il corso di storia non c’era neppure. Per questo mi restò arduo capire cosa intendesse per «linee temporali parallele», anche se Dom me l’aveva già spiegato. Come fatto reale era molto difficile da accettare.

— Sembra che i loro nemici — spiegò John, — siano l’Unione Sovietica e la Repubblica Popolare Cinese.

Fece una pausa e gettò un’occhiata all’ambasciatore, che con aria aggrondata restò seduto nella sua poltrona e non fece alcun commento. — Quale Cina? — chiesi io, come chiunque altro avrebbe fatto. Si riferiva al Protettorato Coreano, o all’Han Pekinese, o al Regno di Hong Kong, o alla Manciuria, o all’Impero Taiwanese, o ad uno degli altri dodici o quindici staterelli in cui la Cina s’era divisa dopo la Rivoluzione Culturale?

— Hanno una Cina soltanto — disse John. — Una nazione unita, la quale, per loro, è la più grande della Terra.

Ci fissammo l’un l’altro. Questa era abbastanza dura da mandar giù. E l’idea che l’Unione Sovietica minacciasse qualcun altro mi sembrava perfino più assurda. Cercai di leggere nell’espressione di Lavi, ma su di essa non era ancora emerso niente: si limitava ad ascoltare. Dopo un po’ allungò una mano e prese uno dei sigari del senatore, benché sapessi che di solito non fumava. Lo esaminò rigirandoselo lentamente fra le dita, e continuò a star zitto.

Potevo accorgermi che certi aspetti di quella situazione lo mettevano assai più a disagio di noi. Dopotutto era stata la guerra atomica con l’U.R.S.S. che aveva precipitato la Cina nella Rivoluzione Culturale. Ciò che i russi avevano subito, con la perdita di Mosca e Leningrado e la distruzione economica, era stato ancor peggiore.

Cercai di ricordare un po’ della storia russa. C’erano stati gli zar. Poi Lenin, che era morto assassinato o qualcosa del genere. Poi Trotzky, sotto cui la nazione era stata trascinata in una serie di guerre con stati confinanti come la Finlandia e l’Estonia, quasi tutte perdute. Quindi era andato al potere per un po’ di tempo il nonno di Lavrenti (travagliato da carestie e insurrezioni interne) che aveva dato il via alle ricerche atomiche costringendoci a una vera e propria gara nucleare, terminata solo quando i cinesi avevano annientato Mosca, la loro industria nucleare e tutto quanto…

Ma nell’altra linea temporale, a quanto pareva, Trotzky non era andato al Cremlino. Il nonno di Lavrenti invece sì, per molti anni. C’era stata una sola grande guerra, chiamata Seconda Guerra Mondiale, e l’avevano fatta contro un uomo chiamato Hitler, un tedesco che intendeva conquistare il mondo, e che quasi c’era riuscito prima che il resto del mondo si alleasse contro di lui.

Questo era ben strano. La Germania era una nazione come tante! Io avevo suonato là! Non era neppure minimamente abbastanza grossa e forte da poter minacciare il mondo intero!

E comunque… lì c’era Lavrenti, seduto dall’altra parte del salotto, che accendeva con calma il suo Cuban Claro. Naturalmente, di nome era comunista. Ma i russi non erano in alcun modo militanti come, ad esempio, i Bolscevici Inglesi, con le loro basi militari sparse in tutte quelle che chiamavano le Repubbliche Federali del Commonwealth. Grazie al cielo il Canada e l’Australia li avevano sbattuti fuori… Scossi la testa. Queste faccende non avevano mai avuto senso per me.

Lo avevano, sfortunatamente, per Lavrenti Djugashvili. Prima che Kennedy avesse finito di leggere il rapporto della CIA, era arrivato a metà del sigaro, e lo stava masticando pensosamente allorché il senatore depose il fascicolo e si volse a interrogarlo con lo sguardo.

— Capisco dove volete arrivare — annuì Lavi. — E la cosa è molto preoccupante. Se quest’invasione della vostra terra è, in definitiva, diretta contro la mia…

— Non esattamente contro la tua, direi — lo corresse subito John. — Suppongo invece contro l’Unione Sovietica della loro linea temporale.

— La cui gente — disse Lavi, cupo, — è pur sempre la mia gente, o no?

Kennedy non disse nulla, però ebbe un gesto d’assenso impercettibile.

Lavi si alzò. — Col suo permesso, mia cara signora Kennedy — disse gravemente, — penso che adesso dovrò fare una capatina alla mia ambasciata. La ringrazio per le informazioni, senatore. Forse si deciderà di fare qualcosa, anche se ora come ora non posso immaginare cosa.

Ci alzammo tutti, anche noi donne. Non fu tanto un segno di rispetto quanto una muta dichiarazione di simpatia. Quando se ne fu andato, il senatore Kennedy suonò per il maggiordomo e gli chiese di portarci i soprabiti. — Povero Lavrenti — sospirò. E poi: — Poveri noi, anche, in quanto a questo, perché neppure io immagino cosa si debba fare.


Ad onta della sua schiena indolenzita il senatore decise di riaccompagnarmi all’albergo lui stesso. Jackie si aggregò a noi tanto per fare un giro in macchina. Il tragitto non fu esilarante. Aveva ricominciato a piovere, e sull’asfalto c’era una patina scivolosa d’acqua e morchia.

Nel largo sedile anteriore ci stavamo comodamente tutti e tre. Non parlammo molto, neppure Jackie, che innervosita si preoccupava solo di suggerire al marito l’una o l’altra strada… da quando i suoi due fratelli più giovani erano morti in modo spiacevolissimo, uno investito e l’altro arso vivo fra le lamiere contorte, bastava un po’ di traffico a tenerla sulle spine. E io avevo i miei pensieri. Le dieci di sera erano appena passate. A Chicago erano le nove. Senza dubbio Ferdie era ancora in piedi. Avrei dovuto chiamarlo? Avevo il diritto di stabilire quale fosse il bene di me e di Dom? Avevo il diritto di stabilire cosa fosse o non fosse meglio anche per Ferdie?

Così non mi accorsi subito che avevamo rallentato a causa di un inatteso ingorgo un po’ più avanti, e l’imprecazione irritata del senatore mi fece sussultare. — Che diavolo fanno? — sbottò, cercando di vedere al di là delle auto bloccate di fronte alla nostra.

— È successo qualcosa? — chiese Jackie. — Un incidente?

Non si trattava di un incidente.

Kennedy imprecò. Attraverso il parabrezza della macchina più avanti intravidi un veicolo che veniva nella nostra direzione, sull’altra corsia. Era grosso e veloce, ma non aveva i lampeggiatori della polizia o delle ambulanze. Anzi non aveva luci per niente, a parte un faro che sciabolava ritmicamente di qua e di là un raggio nitido e tagliente come una lama. E quella luce si rifletteva su qualcosa che sporgeva sul davanti del veicolo stesso.

Mi sembrò quello che avrei detto un cannone.

— Gesù Cristo e tutti i Santi! — esclamò il senatore. — È un maledetto carro armato!

Jackie mandò un’esclamazione simile a un gemito… e così anch’io, credo, perché il senatore aveva dato gas con una violenta sterzata a sinistra. Fece compiere alla grossa Chrysler un mezzo giro, sfiorando il marciapiede opposto così da vicino che un coprimozzo si staccò e rotolò via. Poi cambiò marcia e accelerò energicamente, conservando una ventina di metri sul carro armato che ci arrivava alle spalle. Continuò ad aumentare velocità sul tortuoso lungofiume, superando i centocinquanta all’ora, ma il mezzo blindato non aveva perso molto terreno, e voltandomi vidi con orrore che il cannone si abbassava. Ci stava mirando dritto addosso. Anche il senatore dovette accorgersene, perché al primo incrocio inchiodò i freni e girò a destra di colpo. La sbandata ci portò fin sul marciapiede opposto di quella traversa, e dopo che una delle ruote posteriori lo ebbe urtato — e lo urtò a non meno di settanta all’ora — ci fermammo di traverso sulla strada.

Un taxi ci stava arrivando addosso strombazzando disperatamente.

Non mi ero mai sentita tanto vicina alla morte. Con un miracolo di abilità l’autista del taxi riuscì a fermarsi, anch’egli di traverso, e con non più di un palmo di spazio fra la portiera e il nostro parafanghi. Attraverso il finestrino vidi l’autista che urlava maledizioni a John, rosso in faccia e sconvolto.

Non gli prestammo alcuna attenzione.

Il nostro motore era in folle, ma John non tentò neppure di ripartire. Aprì la portiera e uscì, raddrizzandosi con un grugnito di sofferenza, gli occhi fissi sull’altra strada. Il carro armato ci passò davanti in un rombare di cingoli, veloce e minaccioso, seguito da una dozzina di camion da trasporto-truppe. Erano aperti, e potei veder luccicare gli elmetti di molti soldati in assetto di guerra. A chiudere la fila c’era un altro grosso tank.

— Da non credersi — mormorò John Kennedy.

— Perché stiamo facendo pattugliare le strade da mezzi blindati? — domandai. Lui si volse a fissarmi. John non era certo un giovanotto, ma non l’avevo mai visto così vecchio e stanco come in quel momento. Mise un braccio attorno alle spalle di Jackie con fare protettivo.

— Non siamo noi a farlo — disse. — Quelli non sono nostri. Non ho mai visto carri armati di quel genere.

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