Avevano sorvolato i verdi campi d’Irlanda e si trovavano ormai da duecento miglia sull’Atlantico quando finirono di controllare i biglietti. Non era stato un lavoro molto entusiasmante. I passeggeri erano irritati e a disagio; sapevano che qualcosa stava andando storto. C’era stata quell’impiegabile attesa prima che la torre di Heathrow desse il permesso di decollo, tutti quei sussurri nello scompartimento delle hostess, e poi l’insolita richiesta di ricontrollare i biglietti a tutti quanti mentre erano già in volo. Eppure la cosa doveva esser fatta, perché il cancelletto alla dogana aveva marcato il passaggio di 640 persone, e sulla scaletta del grande pulsojet la macchina aveva ticchettato su 640 biglietti, ma a bordo c’erano soltanto 639 passeggeri. Qualcuno, in qualche modo, era salito sull’aereo ma mancava alla conta. Quando ogni poltroncina su ambedue i livelli fu controllata e i sei compartimenti frugati in ogni angolo, incluse le diciotto toilette e i nove bagagliai, l’equipaggio non aveva ancora una spiegazione, ma se non altro aveva un nome. — Be’ — disse cupo il secondo ufficiale, — almeno sappiamo di non aver sbagliato la conta. Ma non vorrei essere al posto di chi dovrà dare la notizia alla famiglia di questo Dr. John Gribbin!


27 Agosto 1983
Ore 11,50 della sera — Maggiore DeSota, Dominic P.

Essere un maggiore non significa affatto essere un maggiore quando non si hanno truppe da comandare, e le mie mi erano state tolte. C’era una battaglia in corso. Alle undici e un quarto tutte le armi che avevo visto sparire oltre il portale avevano cominciato a far fuoco simultaneamente. E lo scontro era stato sanguinoso fin dall’inizio. Lo sapevo perché stavo guardando il portale di rientro presso il ponte quando i primi feriti erano stati rimpatriati. Ma a me non era stato affidato nessun compito. Ero rimasto lì attorno coi pollici infilati nella cintura, aspettando che qualcuno mi dicesse dove si supponeva che io dovessi andare e cosa si supponeva che potessi fare.

L’intera operazione stava prendendo una brutta piega. Forse definitivamente brutta. Le nuove truppe che avevo visto entrare attraverso il portale a sud del ponte non erano combattenti dallo sguardo duro, il passo deciso, addestrati a uccidere o a morire. Erano penetrati nel grande rettangolo nero a bocca chiusa e con scarso entusiasmo. E quelli che venivano rimpatriati…

I medici e gli infermieri non bastavano neppure per portare via i soldati in barella.

Attraverso il portale di rientro passava l’aria, quindi passavano le onde sonore, e potevo sentire i colpi di cannone e le raffiche e le granate che esplodevano al di là. E l’aria che ne proveniva non risultava gradevole alle narici. Era la stessa umida e calda aria di Agosto che c’era da noi, ma puzzava. Puzzava di bruciato, di polvere e di esplosivi al plastico. Puzzava di fogne squarciate dai mortai, e dei gas di scarico dei carri armati.

Puzzava di morte.

In altre circostanze avrebbe potuto essere una piacevole notte. Riuscivo a immaginarmi a passeggio sul lungofiume con un braccio intorno a una ragazza graziosa, immerso in lieti pensieri. Faceva caldo, ma che altro c’è da aspettarsi da Washington in Agosto? L’afa non era insopportabile, e benché in cielo non si vedessero stelle c’era il continuo sciabolare dei nostri riflettori, a dozzine adesso. Non credevo realmente che riuscissero a ingannare i satelliti russi, non più, ma era un bello spettacolo vederli falciare le nuvole compatte.

Le circostanze invece erano spiacevoli. Ero più che mai lontano dall’essere un eroe. Tuttavia mi avevano fatto portare altri indumenti — pantaloni e giacca di pelle, probabilmente dal più vicino K-Mart — cosicché non ero più costretto a recitare la parte dell’ospite in abito da sera. Ma ciò non m’impediva di sentirmi ancora tale. Mentre mi aggiravo intorno al portale dovetti fare un balzo indietro per evitare un cingolato in uscita, carico di barelle, e andai a urtare in un altro sfaccendato indolente come me. — Scusi — dissi, e poi vidi le stellette di generale sul suo colletto. — Gesù Cristo! — esclamai.

— No — borbottò acremente il Generale Magruder. — Sono soltanto io, maggiore DeSota.


Non è facile sentirsi tristi per un Generale, specialmente per un Generale come Facciaditopo Magruder. Ma quello che mi stava davanti era completamente diverso dall’uomo che m’aveva triturato fra i denti giorni addietro nel New Mexico. Sembrava portarsi addosso tutto il peso del destino, e non mi occorse molto per scoprirne il motivo. Bastò che gli domandassi, con formale cortesia, quale aspetto dell’operazione stava dirigendo perché lui grugnisse: — Nessuno, DeSota. Sono stato trasferito. Fort Leonard Wood. Avrò un passaggio aereo domattina.

— Oh! — dissi. Non c’era nient’altro da dire. Quando un generale viene tolto dal teatro d’operazioni e mandato a dirigere un campo d’addestramento, quella è la sola parola che si è autorizzati a dirgli. Suppongo però che la mia faccia rivelasse ciò che stavo pensando, perché lui mi sorrise. Non fu precisamente un sorriso amichevole.

— Se è ancora preoccupato per un’eventuale corte marziale — disse, — se ne dimentichi. Ci sono almeno cento individui in fila davanti a lei.

— Questa è una buona notizia, signore — risposi.

Mi gratificò di un’occhiata fra sorpresa e disgustata. — Buona? — grugnì, come masticando la parola. — Io non userei l’espressione «buona notizia» davanti a… a questo! — agitò un braccio verso il portale, da cui un sergente vacillava fuori sorreggendo una donna coi gradi da sottotenente la cui testa era completamente avvolta in bende zuppe di sangue. Il generale esplose: — Quella stupida cagna di una Presidentessa! Perché ci ha costretti a farlo?

— È una pazza, signore — dissi, per compiacerlo.

— Sicuro, una maledetta pazza! Ma — aggiunse cupamente, — se non altro io riesco a capire il suo genere di pazzia. Non è una traditrice, lei. E quel dannato testaduovo…

— Signore?

— Lo scienziato! — sbottò. — Non parlo di Douglas. Quello che gli avevamo messo alle costole. Sa cosa viene a dirci, adesso? Avremmo potuto salvare l’intera fottuta operazione! Ci sono altri mondi che potevamo usare, mondi dove non c’è gente per niente!

— Niente gente, signore?

— Dove l’intera dannata razza umana si è tagliata la gola anni fa. Li ha visti con l’apparato-spia. Mondi dove c’è stata una guerra nucleare totale, negli anni sessanta o settanta. Certo qualcuno è troppo radioattivo, non è possibile utilizzarlo. Ma altri non lo sono. Avremmo potuto passare attraverso uno di quelli. Nessuna opposizione. Nessuno a metter bocca negli affari nostri. Avremmo potuto mandarci un intero esercito, una flotta, fare base in Russia e piazzare portali dove ci sarebbe piaciuto meglio. Non avremmo avuto bisogno neppure di bombardarli. Sarebbe bastato spingere oltre il portale una testata nucleare, o anche mille, in tutti i punti chiave della loro dannata steppa… bah! Volete una tazza di caffè? — terminò, bruscamente.

— Ecco…

— Andiamo — disse, e attraversò la strada verso l’edificio del quartier generale. — Inutile formalizzarci — bofonchiò, girandosi a mezzo, — adesso che tutto sta andando a farsi fottere.

Anche un generale rilevato dal comando ottiene quello che vuole. Il colonnello che stazionava nell’astanteria mi guardò con aria allusiva mentre passavamo oltre, ma non aprì bocca, neppure quando Magruder riempì due tazze di caffè al distributore e me ne porse una.

— Questa nuova operazione, generale… — cominciai a dire.

— Già, certo. L’abbiamo mandata a catafascio, credo. Ma il fatto è: quanto tempo ci rimane?

— Tempo, signore?

— I russi — precisò. — Si stanno mobilitando. — Ingoiò un lungo sorso di caffè. Era sì e no due gradi sotto il punto di ebollizione, e mi ci ero già ustionato le labbra. Magruder doveva avere la gola laminata in bronzo. — Il mondo sta per saltare in aria, DeSota — disse stancamente. — I prigionieri parlano con le guardie, le guardie parlano con le loro amichette, i feriti parlano con le infermiere, e i giornalisti piombano addosso a tutti come avvoltoi. Non potremo tenere il coperchio sulla pentola ancora per molto… qual è il problema, colonnello? — chiese, voltandosi verso l’ufficiale di picchetto.

Il colonnello s’era avvicinato, con un foglio in mano. Lo agitò nella mia direzione. — Scusi, signore — sbottò, in tono per nulla di scusa, — ma quest’uomo è Dominic DeSota, no? Cristo, DeSota, che accidenti sta facendo qui? È nel posto sbagliato! Mi risulta che dovrebbe essere già passato dal punto di uscita… tolga le chiappe da qui e vada immediatamente allo zoo!


Magruder parve stabilire che una corsa in auto con me era quel che gli si addiceva. Non pronunciò parola. Si limitò a balzare sulla jeep da una parte mentre io saltavo dentro dall’altra, e certo non stetti a obiettare. Continuò a tacere anche quando l’autista filò via facendo stridere i pneumatici. Non c’erano molte auto in giro. I civili avevano ubbidito agli ordini, e quelli che non stavano tappati in casa erano pochissimi. I semafori seguitavano a lavorare però al loro solito ritmo, e oltrepassammo gli incroci facendo ululare il clackson, rosso o verde che fosse, ma non trovammo nulla a ostacolarci finché non girammo sul viale.

E l’autista dovette inchiodare di colpo i freni.

Il viale era bloccato per tutta la sua lunghezza. Sembravano gli schieramenti preliminari per la parata del Giorno delle Forze Armate, con le rappresentanze di ogni arma in sosta anche nelle stradicciole laterali, e i capisquadra dagli elmetti rossi o dorati che andavano nervosamente avanti e indietro accanto ai loro veicoli in attesa di ricevere via radio il segnale di partenza. Solo che non si stavano preparando a una parata. Si preparavano a varcare il portale, per attaccare la Signora Presidentessa. E in quello scenario c’era una nota anacronistica: una corsia del viale era stata tenuta aperta per evacuare un po’ degli animali più ingombranti dello zoo, tutti quanti mezzo imbizzarriti per il rumore e la confusione. Veicoli simili a vagoni ferroviari, con porte e finestre di sbarre, stavano portando via leoni, leopardi e gorilla. Dietro di questi dozzine d’inservienti frenetici stavano facendo marciare le giraffe, gli elefanti e le zebre nella calda notte di Washington. Il nostro autista suonò rabbiosamente il clacson. Un elefante scalpitò con un barrito minaccioso. — Al diavolo! — mi gridò all’orecchio Magruder. — Impossibile passare in questo caos! Dobbiamo proseguire a piedi!

Anche a piedi non fu un divertimento. I cingolati da assalto erano fermi in lunghe file, e zigzagare fra essi significava finire ogni tanto quasi fra le zampe degli elefanti… e dover saltare, qua e là, mucchi di sterco d’elefante. Facciaditopo Magruder avanzava come un mediano di mischia in possesso di palla fra la difesa avversaria, voltandosi a lanciarmi richiami a cui non rispondevo neppure, occupato com’ero a farmi strada verso il cancello dello zoo oltre il quale c’era il portale.

Nessuno era in via di passaggio attraverso il rettangolo nero.

— Dannazione! — imprecò ancora Magruder. — Andiamo! — E si diresse al bar dello zoo, dove gli ufficiali in comando si stavano affollando attorno a un televisore.

— Qual è il problema qui, eh? — sbottò. Un generale con due stellette si volse.

— Guardi lei stesso. — Agitò un pollice verso lo schermo. — C’è una trasmissione via satellite dal palazzo delle Nazioni Unite, a Ginevra.

Un diplomatico grasso, con occhiali a pince-nez, stava leggendo qualcosa alle telecamere. La voce che si udiva era però quella di una donna, che traduceva dal russo all’inglese.

— I russi? — chiese Magruder.

— Indovinato — annuì l’altro generale. — Quello che sta parlando è il delegato sovietico. Nota la sua faccia stanca? Sono circa le sei di mattina laggiù; dev’essere rimasto in piedi tutta la notte.

— Che cos’ha detto, signore? — domandai io.

— Be’ — riferì asciutto il generale, — sta dicendo che hanno… come le ha chiamate? le prove incontrovertibili che stiamo portando avanti un attacco contro di loro passando attraverso un mondo parallelo. Ha detto che se non ritiriamo immediatamente le nostre truppe la Russia agirà come davanti a un’invasione del suo territorio. C’è quasi da ridere, no? I russi che proteggono gli americani da altri americani!

Deglutii saliva. — Questo significa che…

— Che ci attaccheranno? Sì, sembra che voglia dire questo. Perciò può anche trovarsi da sedere da qualche parte. Abbiamo bloccato ogni movimento di truppe finché qualcuno non deciderà quel che dobbiamo fare… e ringrazio Iddio che quel qualcuno stia molto più in alto di me.

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