Un uomo di nome Dominic DeSota era seduto davanti a uno schermo. Le sue dita operavano sui pulsanti, registrando e analizzando. Senza alzare le mani dalla tastiera parlò in un piccolo microfono che aveva agganciato al collo: Capo? Questo è il più lontano, finora. Sembra che in esso non ci sia assolutamente traccia di vertebrati.


24 Agosto 1983
Ore 9,20 del mattino — Senatore Dominic DeSota

Quando feci ritorno al recinto che era diventato la mia residenza provvisoria, quello eretto nell’area di parcheggio J-3, scoprii di aver perduto la prima colazione. E avevo perduto anche sei dei miei compagni di prigionia. All’interno della rete era rimasta una dozzina dei militari di stanza alla Base, compresi due graduati che adesso (e con l’aria di vergognarsene) indossavano divise del personale di mensa e stavano raccogliendo i vassoi e gli avanzi di cibo lasciati in terra dagli altri. Un soldato in tuta, con una fascia verde al braccio e un’automatica in pugno, li sorvegliava pigramente. Uno di quelli del maggiore DeSota, senza dubbio.

Ma dei pochi civili che quella notte avevano dormito accanto a me avvolti in una coperta non ce n’era più neanche uno. La cosa destò la perplessità del caporale che mi aveva riportato lì, e lo vidi parlottare preoccupato con l’altra guardia. Ma io non mi chiesi dove fossero finiti. Gli interrogativi che mi stavano tormentando erano altri.

E tutti riguardavano una sola persona: Nyla Bowquist!

Non sarei riuscito a esprimere in parole lo sbigottimento provato nel vedere la donna che amavo infagottata in un’uniforme da assalto, con strisce nere di trucco mimetico sulla faccia, una pistola appesa al cinturone, e uno sguardo in cui avevo potuto leggere chiaramente che per lei io ero uno sconosciuto.

Ora che avevo il modo di riflettere mi rendevo conto che secondo ogni probabilità doveva esserci un’altra Nyla nella loro linea temporale, così come c’era un altro Dominic DeSota… e senza dubbio un’altra Marilyn (ma chi aveva sposato là?) e un altro Ferdie Bowquist, e un intero esercito di doppioni. L’altro Dom DeSota non era del tutto uguale a me. Dunque non c’era ragione che anche Nyla non fosse diversa. Questa non era una famosa suonatrice di violino. Portava i capelli più corti e non si metteva l’ombretto sugli occhi. E il suo vestito… be’, era un’uniforme, dopotutto. La mia Nyla si vestiva con eleganza, questa invece non sembrava avere molta scelta.

Ma era così identica da farmi tremare il cuore! E non mi aveva riconosciuto per niente! Oppure aveva visto in me solo una copia di quell’altro Dominic, quello che lei conosceva (conosceva, supposi, ma non in senso biblico). Mi chiesi se l’avrei rivista ancora…

E quel che mi chiesi subito dopo fu se avrei mai rivisto di nuovo la mia Nyla! Eccomi lì, immerso in avvenimenti incredibili, fantastici e pericolosi, e tutto ciò che avevo in mente era la donna con cui avevo una relazione…

— Voi! Prigioniero DeSota! — latrò il caporale, e mi resi conto che stava facendo cenno a me. — Avanti, voialtri, dobbiamo trasferirvi. Voi verrete com me intanto, DeSota.

Girai lo sguardo sugli altri prigionieri. Le loro espressioni erano quelle neutre di chi intende esprimere «Se volete lui OK, io non c’entro». Strinsi i denti. — Cosa significa? — protestai. Ma la sola risposta che ebbi fu un minaccioso cenno del mitra.

Non andammo lontano. Mi fu fatta ripercorrere la strada che avevo appena fatto, fino al Club Ufficiali di fronte alla Casa dei Gatti.

C’ero già stato in precedenza. Parecchie volte. Era una specie di locale di soggiorno dove gli ufficiali sedevano a far quattro chiacchiere davanti a una tazza di caffè, tanto per togliersi dalle loro scrivanie, anche se poi finivano per levarsi di tasca qualche documento e rileggerselo in pace. L’atmosfera all’interno era né più né meno che la solita, benché le nove persone che ci trovai avrebbero evidentemente preferito non essere lì. Due degli scienziati non militari andavano avanti e indietro, sbirciando fuori dalle finestre. Il colonnello Martineau era seduto a parlare con una delle donne, un’esperta in matematica dell’ITT che faceva parte del mio stesso comitato. — Edna. Colonnello — li salutai, con un cenno. Proprio come se fossi capitato lì per prendermi una Coca Cola e nient’altro di strano stesse accadendo.

— Ci chiedevamo dove fossi finito — disse il colonnello.

— Sono stato convocato dall’altro Dominic DeSota. Ben poco simpatico. E mi ha fatto perdere la colazione.

— Se hai qualche quarto di dollaro — disse lui, — c’è un distributore in corridoio e la guardia te lo lascerà usare. — Non avevo moneta, ma la dottoressa Edna Valeska s’era procurata dei quarti di dollaro da qualcuno degli invasori. Erano identici ai nostri, salvo che la faccia era quella di Herbert Hoover. Un analcolico e un paio di sandwich non erano un pasto, ma almeno informarono il mio stomaco che avevo fatto per lui quel che potevo. Mentre mangiavo vidi il colonnello Martineau fare il giro del locale e sbirciare da ogni finestra (scosse il capo: guardie armate dappertutto), controllare poi le altre porte (chiuse) e sollevare il ricevitore del telefono (staccato). Mi sedette di fronte e osservò il lavorio della mia mandibola. — Anche noi siamo stati interrogati — disse. — Sembra che quel che li interessa maggiormente sia tu, Dom… mi correggo, il tuo primo doppio. Quello che scomparve.

— Mi hanno chiesto la stessa cosa — bofonchiai, con la bocca piena di pane e formaggio. — Non ho visto niente di male nel dir loro ciò che sapevo… e non era molto, naturalmente. O avrei dovuto dir loro nome, grado e un numero di matricola che non ho?

Mi fissò sorpreso. Anch’io ero sorpreso, accorgendomi di quant’era stato tagliente il mio tono. — Penso che dovremo suonare a orecchio, senatore — cercò di placarmi lui. Gli chiesi scusa con un sorrisetto, intanto che Edna Valeska si sedeva sulla poltrona alla mia sinistra per unirsi alla conversazione.

— La notizia buona — ci disse, — è che adesso abbiamo la prova che il progetto Casa dei Gatti funziona. Quella cattiva è che loro ci sono arrivati prima di noi e lo stanno usando; e quella ancora peggiore è che nella faccenda sembra essere coinvolta più di una linea temporale. Non ci sono altre ipotesi che spieghino i fatti.

— Anch’io la penso così — fui d’accordo. — Ma chi sono questi altri? — Scossero la testa. — Cristo! Non mi sento adeguato a fronteggiare una cosa del genere.

Edna ebbe un sorriso storto. — Chi lo è?

— Ma è il vostro progetto! — protestai. — Se non capite voi cosa sta succedendo, chi altro potrebbe?

— Ho ammesso che non sono preparata, senatore. Non ho detto che non lo capisco… comunque, non del tutto, certo. — Vide che fissavo la sua sigaretta e mi porse il pacchetto. — Ad esempio — disse, facendo scattare l’accendino, — sappiamo molte cose sulla linea temporale dei nostri visitatori… gli invasori, voglio dire, quelli del vostro alter ego maggiore dell’esercito.

— Sappiamo molto?

— Abbastanza, sì. Ci hanno invaso perché intendono annientare il loro nemico aggirandolo alle spalle, ovvero attraverso la nostra linea temporale. La stessa strategia che stavamo preparando noi.

— Dottoressa Valeska — dissi, — noi non stavamo preparando niente. Lo scopo della Casa dei Gatti era di studiare la fattibilità. Non esisteva nessun piano strategico.

La sua scrollata di spalle m’informò che per lei quella distinzione era accademica. — C’è un’altra solida deduzione, e un altro fatto. La deduzione è che, per quanto abbiano ben sviluppato la loro tecnica di attraversamento fra le realtà parallele, esiste almeno un’altra linea temporale più progredita di loro. Quella che ha prodotto il nostro primo Dominic DeSota.

Notai che non soltanto gli altri presenti nel locale si stavano avvicinando per ascoltare, ma anche la guardia sulla porta tendeva gli orecchi verso di noi. Be’, perché no? Forse avrei potuto dedurre qualcosa dalla sua espressione. — Come lo sapete? — chiesi, controllando la guardia con la coda dell’occhio.

— Perché quest’altra gente… chiamiamoli, per intenderci, America Uno, perché costoro possono proiettare un individuo attraverso l’interfaccia dimensionale e ritirarlo indietro con la massima facilità. Non credo che America Due, gli invasori, riescano a fare altrettanto. — Il modo in cui vidi accigliarsi la guardia me lo fece ritenere plausibile. Anche Edna Valeska, mi parve, aveva notato l’espressione dell’uomo. — Così — concluse, — nella partita c’è un terzo giocatore.

— Dunque potremmo avere un alleato — dissi speranzoso. — America Uno potrebbe ritenersi, come noi, vulnerabile alle mire di America Due.

La guardia ci fissava a occhi stretti, e il suo sguardo preoccupato era confortante. Stavamo parlando di cose che a lui non faceva piacere neppure pensare. Mi volsi a fargli un sorrisetto. Errore. Mi rivolse una smorfia e guardò ostentatamente altrove, il mitra rigidamente inbracciato e la faccia inespressiva. Ma anche quella era una specie di conferma.

— D’altra parte — disse Edna Valeska, — se America Uno avesse avuto intenzione di aiutarci in qualche modo, certo non le sarebbe mancata l’occasione. Non lo hanno fatto.

Questo era abbastanza vero, e cominciai a sentirmi più a disagio della guardia. — Ebbene, qual è quest’altro fatto che conosciamo su America Due, gli invasori? — domandai.

— L’Unione Sovietica è il loro principale nemico.

Dissi: — Sì, così pare. Ma è difficile da credersi! Dopo la guerra atomica, quando i cinesi decapitarono la nazione bombardando Mosca e Leningrado e…

— Certo, Dom — intervenne il colonnello Martineau. — Ma vedi, nel loro universo questo non è successo. Sono notizie che abbiamo messo assieme dopo esser stati interrogati. Sembra che i loro nemici sovietici abbiano combattuto l’ultima guerra intorno al 1940, a quanto ho capito. Hanno assalito la Finlandia, e la Germania ha attaccato loro…

— La Germania!

Martineau annuì. — Da loro i tedeschi non hanno fatto la rivoluzione. A quell’epoca prese il potere un uomo di nome Hitler, e la guerra fu maledettamente dura. I russi la vinsero, e subito dopo occuparono l’Europa dell’est. Il loro capo era un certo Josip Stalin.

Quella era ancora più dura da mandar giù. — Aspetta un momento! Io so chi era Stalin. Governò la nazione per un po’ di tempo, finché non fu assassinato. Conosco personalmente suo nipote. Come forse sai è l’ambasciatore russo presso di noi. Spesso giochiamo a bridge insieme. È un buon amico di… è mio amico — mi corressi. Non volevo menzionare Nyla Bowquist. Gettai un’occhiata alla guardia: con più cautela adesso, tuttavia ci stava ascoltando. — Suo nonno Joe, come lo chiama scherzosamente lui, fu ucciso da non so quale organizzazione di separatisti georgiani. Fu all’epoca in cui quello sciopero generale condusse l’Inghilterra alla rivoluzione. Loro divennero socialisti, come sono ancor oggi, mentre in Russia Litvinov prendeva il potere grazie alle sue connessioni con l’Inghilterra. Aveva una moglie inglese, come saprete. In seguito, nel 1960, in Germania ci fu la controrivoluzione e la Kaiserina tornò a Berlino. E oggi loro e i giapponesi sono i nostri maggiori competitori. — Tacqui. Non volevo sbalordire la guardia. Volevo solo confonderla un po’. Anche se quella mia digressione aveva confuso ancor più Edna e il colonnello.

Martineau scosse il capo. — Niente di tutto ciò è accaduto nel loro universo — stabilì, secco. — Negli ultimi trenta o quarant’anni loro hanno avuto due vere e proprie superpotenze, la Russia e l’America. E quel che vogliono è distruggere il loro avversario.

La guardia non ci stava più ascoltando. All’esterno del Club c’erano delle voci e l’uomo s’era voltato a guardare quel che stava succedendo. Poiché fino ad allora avevamo parlato più che altro per dedurre qualcosa dalle sue reazioni, quando smise di reagire la conversazione languì.

— Oh, all’inferno! — borbottò uno degli scienziati più giovani, e scosse le spalle come a dire che reputava inutile fare piani di qualche genere. Anche gli altri parvero trovare sufficiente quel commento.

— All’inferno e maledizione — sospirò anche Edna Valeska. — Mio marito si starà preoccupando a morte. Non sopporta neppure che io passi la notte fuori di casa. Vorrei almeno fargli sapere che sto bene.

— Non credo che ve lo permetteranno — dissi.

Il colonnello annuì. — Col lavoro che faccio, mia moglie è abituata a queste cose… cioè, non queste cose, però non si impensierisce se non le telefono regolarmente. So che per i civili è diverso. Scommetto che sei preoccupato per lei, Dom.

— Cosa? Oh, certo — mormorai, ma non aggiunsi anche per lei.


Prima di mezzogiorno ci portarono il pranzo. Si trattò solo di spaghetti e polpette precotti, tirati fuori dal frigo della Mensa Ufficiali, ma la frutta era fresca e il caffè appena fatto. — Ci ingrassano prima di metterci in pentola — fu la facezia di uno degli scienziati, ma i nostri sorrisi si spensero al risuonare di passi militareschi nel corridoio. A entrare furono un soldato col mitra spianato e Nyla. O meglio la sergente Nyla Sambok, alle spalle della quale vennero dentro altri due uomini armati.

La ragazza apprezzò l’attenzione che le prestavamo. — Se volete finire i vostri caffè, prego — disse, — siamo pronti per condurvi in alloggi più confortevoli.

— E dove? — chiese il colonnello Martineau.

— Non lontano da qui, signore. Volete seguirmi, per favore? — La sua voce era quella della mia Nyla. E anche quel «per favore»; un tocco di gentilezza piacevole, pensai, date le circostanze. Lo stesso non si poteva dire del modo in cui i suoi uomini ci stavano puntando addosso le armi. Che avessimo finito il caffè o no, ci alzammo tutti.

Non dovemmo camminare per molto. All’esterno, dopo l’aria condizionata del Club, la calura del deserto ci colpì come l’alito di un drago. Ma il luogo dove venimmo condotti fu di nuovo la Casa dei Gatti, appena di fronte. Scendemmo nel seminterrato dell’edificio, in un locale piuttosto vasto che una volta era stato adibito al tiro a segno. Adesso era pieno di gente con la fascia verde al braccio, e da un lato vidi dei macchinari dall’aspetto di generatori con su stampigliate le lettere OD. Lunghi cavi risalivano all’esterno, in strada, dove si sentiva pulsare sordamente un motore diesel. E mi trovai a guardare una specie di grande schermo rettangolare nero come una notte senza stelle.

Quella fu la prima volta che vidi un portale. Non ci fu bisogno che mi dicessero di cosa si trattava. Era semplicemente una parete di tenebra pura che aleggiava nell’aria, così larga che riempiva l’estremità del locale quasi da un lato all’altro. Mi diede un brivido. Il colonnello Martineau sbottò: — Sergente! Esìgo di sapere che intenzioni avete!

— Sì, signore — fu d’accordo lei. — Un ufficiale vi informerà. Questo è per vostra maggiore comodità e sicurezza, signore.

— Merda secca, sergente!

Ma lei si limitò a ripetere: — Sì, signore — e si allontanò. Dopodiché lei non fu più lì a rispondere alle domande, e le guardie armate, ovviamente, non ci avrebbero dato altra informazione che le loro armi puntate.

La guardai attraversare il locale e raggiungere il mio vecchio e buon doppione maggiore Dominic, che stava discutendo presso uno dei macchinari con un individuo la cui vista mi lasciò un attimo stranito. Più che stranito. Sembrava un civile a disagio in una tuta da fatica militaresca, come me, e il suo profilo mi era familiare. Come me non aveva gradi; e come me non portava la fascia al braccio. Tuttavia non era un prigioniero, poiché era occupato alla regolazione di vari strumenti su un largo pannello. Il maggiore Dominic lo osservava da vicino, e sull’altro lato aveva un soldato con la carabina imbracciata. La sua guardia? E se aveva bisogno di una guardia, ma non era uno di noi, chi era?

Il maggiore me-stesso diede qualche ordine alla sergente Nyla. La ragazza annuì e tornò da noi. — Vi faranno attraversare fra un minuto — ci informò.

— Ehi, un momento, sergente! — ringhiò il colonnello. — Chiedo di sapere dove ci state portando!

— Sì, signore — disse lei. — L’ufficiale le spiegherà tutto.

Martineau sbuffò come un toro. Gli misi una mano su un braccio. — Lei è Nyla Christophe, non è vero? — dissi in tono discorsivo.

Sorpresa sbatté le palpebre. Per la prima volta parve vedermi come un essere umano, non come un pezzo di carne semovente da far spostare qua e là. La carabina che imbracciava anch’ella restò ferma; non era puntata esattamente verso di me, ma le sarebbe bastato girarsi un po’ di più per cacciarmela nell’ombelico. — Questo è il mio nome da ragazza — ammise, con cautela. — Mi conosce?

— Conosco la sua controparte del mio universo — dissi, e sorrisi. — Lei è la mia… uh, amica. È anche una delle più grandi violiniste del pianeta.

I suoi occhi avevano avuto un lampo di curiosità alla parola «amica», ma la sua attenzione s’accese di colpo quando dissi «violinista». Per qualche secondo mi studiò con interesse. Gettò una rapida occhiata al maggiore e tornò a fissarmi. — Di cosa sta parlando? — domandò.

Io dissi: — Zuckerman, Ricci e Christophe. Questi sono i tre violinisti al vertice del mondo della musica, oggi. In questo mondo, intendo. Ieri sera Nyla ha suonato con la National Simphony Orchestra davanti, fra gli altri, al Presidente degli Stati Uniti.

— La National Simphony? — esclamò. Io annuii. — Mio Dio — disse. — Io ho sempre sognato di… si sta prendendo gioco di me, Mr. DeSota?

Scossi la testa. — Nel mio universo lei è sposata a un proprietario di beni immobiliari di Chicago. Ieri sera ha suonato il Gershwin Violin Concerto, con la direzione di Rostropovich. Due mesi fa la sua foto era sulla copertina di People.

Lo sguardo con cui mi considerò era in parte stupito e in parte scettico. — Gershwin non ha mai composto un concerto per violino — affermò. — E cosa sarebbe People?

— È una rivista, Nyla. Lei è famosa.

— Proprio così, sergente — brontolò il colonnello, che ci stava ascoltando con interesse. — Io stesso l’ho sentita suonare.

— Sì? — Era ancora scettica, ma l’idea la stava affascinando.

Accennai gravemente di sì. — E di lei che mi dice, Nyla? — chiesi. — Anche lei suona il violino?

— Lo insegno — disse. — O almeno, lo insegnavo prima d’essere richiamata in servizio.

— Ma sul serio? — esclamai, divertito. — E cosa…

E quello fu tutto ciò che potei dire. — Sergente Sambok! — chiamò un capitano, di fronte allo schermo nero. — Li porti fuori!

La pausa delle chiacchiere era finita. E di colpo tornò ad essere efficiente e professionale, la mia Nyla. Se tornò a posare gli occhi su di me fu con lo stesso interesse che l’uomo con la pistola a chiodi, in un mattatoio, può mostrare per il vitello in arrivo su per la rampa.

— Muovetevi, per favore — ordinò al nostro gruppo, e stavolta il «per favore» significava «senza discutere».

— Ascolti una cosa, sergente — cominciò il colonnello Martineau, ma lei ne aveva già abbastanza delle sue proteste. Fece un cenno con la carabina. Il colonnello mi gettò uno sguardo e scosse le spalle. Venimmo allineati l’uno dietro l’altro lungo una striscia gialla, dipinta sul pavimento così di recente che ci lasciai un’impronta. Di fronte al terribile buio del rettangolo ce n’era un’altra, orizzontale, simile allo «stop» della segnaletica stradale. Il capitano in attesa li davanti ci fece fermare, con un occhio su di noi e l’altro sul civile che m’era parso familiare.

— Quando vi darò il segnale — disse, — avanzerete dritti attraverso il portale, uno alla volta. Attendete finché non verrete chiamati: questo è importante. Sull’altro lato i vostri piedi si troveranno esattamente allo stesso livello di questo, perciò non abbiate paura d’inciampare o di qualcos’altro. Comunque di là troverete il personale di servizio pronto ad aiutarvi, se sarà il caso. Ricordate: uno alla volta…

— Capitano! — sbottò in un ultimo sforzo il colonnello Martineau. — Io esigo che…

— Lei non esige niente — lo rimbeccò l’altro, ma senza rudezza, anzi esibendo un’espressione paziente. — Quando sarà dall’altra parte ci sarà qualcuno a prender atto delle sue lamentele, se avrà lamentele da fare… signore. — Il tono di quel «signore» fu una via di mezzo fra l’ironico e l’indifferente, perché il capitano stava prestando assai più interesse al civile presso il pannello di comando che a quello che avremmo potuto dirgli noi.

Anch’io osservavo il suo operato con attenzione. All’apparenza era intento a mettere in sincronia diversi strumenti difficili da regolare, soprattutto due lancette a scorrimento verticale, una verde e una rossa, che sembravano muoversi di vita propria per non combaciare. Quando la rossa correva troppo, girava una manopola per riportarla indietro. Ma non ci mise molto a stabilizzarle alla stessa altezza, e si volse a mezzo verso di noi. — Mandateli avanti!

E la dottoressa Edna Valeska, dopo essersi voltata a gettarci un’occhiata supplichevole, assunse l’aria di chi sta pregando con fervore e s’incamminò verso la tenebra, dove semplicemente scomparve.

Io e gli altri sette sospirammo un’imprecazione all’unisono. — Il prossimo — ordinò il capitano. Toccava al colonnello Martineau. Lo vidi inghiottire dal buio senza lasciarvi più tracce di quante ve ne aveva lasciate Edna Valeska.

Io ero il successivo, nella fila. Mi fermai sulla linea, a un paio di metri dal misterioso tecnico civile, e solo allora, quando tornò a voltarsi, potei vederlo pienamente in faccia.

Sussultai. Aveva un’aria più efficiente, soprattutto molto più tormentata, ma era indubbiamente lo stesso uomo. — Lavrenti! — lo chiamai, stupito. — Tu sei l’ambasciatore Lavrenti Djugashvili!

La sua guardia mi fulminò con lo sguardo. — È impazzito? Non distragga il dottor Douglas!

— Aspetta un maledetto momento — protestò il civile. — Lei! Cosa stava dicendo?

— Djugashvili — ripetei. — Tu sei l’ambasciatore dell’Unione Sovietica, Lavrenti Djugashvili.

Mi considerò senza troppo interesse. — Io non mi chiamo Djugashvili — disse, tornando ai pannelli di controllo. Regolò un paio di quadranti e si volse ad annuire al capitano, che mi fece avanzare fino al portale. — Ma quello era il nome di mio nonno — mi gridò dietro, proprio mentre penetravo nella parete di tenebra.


Quand’ero un ragazzo vivevo molte avventure con la fantasia, e queste riguardavano in particolare due campi. Uno erano i viaggi nello spazio. L’altro era il sesso. La ragione per cui avevo sognato di diventare uno scienziato (sogno che svanì quand’ero al secondo anno, al Lane Tech) stava nella possibilità di partecipare alle imprese spaziali. Non avevo esattamente rinunciato a quella fantasia; era stato il trascorrere degli anni a farla pian piano evaporare.

L’altra cosa non era di quelle che svaniscono. Avevo la più grossa collezione di libri porno del North Side. Quel genere di materiale non era ancora di libera vendita, ma c’erano posti in cui con due dollari potevate entrare e mettervi a sedere in una saletta fumosa, dove proiettavano filmetti in bianco e nero provenienti da Tijuana o dall’Avana (a quattordici anni non ero ancora sicuro che una donna potesse fare all’amore con un uomo senza indossare un paio di calze nere e una maschera). Vantavo avventurette inesistenti spacciando elaborate fandonie agli amici del club degli scacchi e della squadra di tennis, e pur avendo delle amiche la notte me ne andavo regolarmente a letto in bianco, com’è normale per ogni adolescente; ma con la fantasia costruivo in me lo scenario della perfetta seduzione: il negligé trasparente, la cenetta al lume di candela, le calze di rete…

E poi c’era stato quel Quattro Luglio. Peggy Hoffstader.

La casa dove abitava era abbastanza vicina al lago da poter vedere bene i fuochi artificiali, e quella sera sul tetto c’eravamo soltanto noi. M’ero dato da fare per ottenere due bottiglie di birra, che risultarono calde e di pessima qualità. E proprio quando i fuochi stavano esplodendo nel cielo per l’abbagliante finale, sentii una mano di Peggy poggiarsi in un posto dove fin’allora soltanto le mie s’erano posate, e seppi che adesso qualcuno stava chiamando il mio bluff. La fantasia era all’improvviso diventata realtà. Quel debutto mi trovò decisamente impreparato, ma del resto voi come ve la sareste cavata con tutte quelle braccia e gambe e bottoni e fibbie?

Fu una fortuna che Peggy conoscesse meglio di me certi particolari della faccenda. Per cavarmela ebbi bisogno di tutto l’aiuto che mi fu possibile ottenere.

Ma lì, adesso, non c’era nessuno ad aiutarmi.

Per quanto in modo diverso, stavo annaspando contro le stesse sconosciute, preoccupanti, sconvolgenti sensazioni. C’era un altro mondo sul lato opposto di quel sipario nero come la morte.

Trassi un profondo respiro, chiusi gli occhi, e ci camminai dentro.

A cosa potrei paragonare quella sensazione?

Forse non ci furono neppure sensazioni vere e proprie. M’era capitato un paio di volte di metter piede in quei laboratori sofisticati dove hanno porte fatte d’aria per separare i locali, correnti straliformi proiettate dal basso in alto, miste a vapor d’acqua che le fa sembrare tendine di nebbia. Erano così dense che potevano proiettarci sopra varie scritte e avvertimenti, attraverso i quali voi passavate con un fremito. Il transito oltre il portale che separava due universi non pretese dalla mia pelle neppure quel lieve brivido. Un momento prima ero nel seminterrato di un edificio, pieno di gente e di aria viziata, illuminato da impianti portatili di luci al neon…

Poi il piede che avevo spinto avanti toccò terra, e d’un tratto mi trovai sul fondo di uno scavo. Le mie scarpe poggiavano su un graticcio metallico, e in alto brillava l’infuocato sole di Agosto del New Mexico.

Intorno a me si levavano delle impalcature su cui erano piazzate apparecchiature dal curioso aspetto di grosse telecamere, che al posto delle lenti avevano antenne emisferiche da microonde. Dietro di esse c’erano tecnici che mi stavano osservando con indifferenza professionale. Tutto il perimetro era formato dalle pareti in pendenza dello scavo, con pagliolati che tenevano a posto la sabbia. Poco più avanti era in sosta un camion col motore acceso: il primo rumore che mi aveva colpito gli orecchi.

Non ebbi più di due secondi per studiare quella scena. Accanto a me c’erano due soldati, che mi presero per le braccia e mi spinsero avanti. — Sali sul camion — ordinò uno di essi, e tornò ad occuparsi del successivo prigioniero che vacillava fuori dal portale.

Mi arrampicai sul retro del veicolo, uno di quei massicci camion scoperti dell’esercito con le panche sui due lati, e ricevetti la regolamentare occhiata d’avvertimento da parte del soldato pigramente appoggiato alla cabina di guida, che puntava il mitra più o meno verso di noi. Appena fummo a bordo tutti e nove il motore ruggi, il veicolo s’avviò su per una rampa e sbucammo sul terreno sabbioso dirigendoci verso una piccola altura dalla cima piatta. Su di essa erano in attesa due elicotteri militari, coi rotori in moto che già giravano lentamente.

— Fuori — ordinò la guardia. Uno alla volta saltammo al suolo. Lui ci seguì, mentre l’autocarro si allontanava rombando. La guardia continuò a tenerci sottomira e sott’occhio, e camminando quasi all’indietro andò a scambiare qualche parola con il pilota di uno degli elicotteri. Noi ci guardammo l’un l’altro.

L’altura su cui ci trovavamo era spoglia e sabbiosa. Da li si poteva vedere, a un miglio di distanza, una serie di edifici tipici di una base militare piccola e isolata. La Sandia originale del nostro universo, mi dissi, doveva esser stata così. Sul bordo destro dell’altura su cui eravamo giunti c’era un lungo carrozzone privo della motrice, che dalle finestre supposi essere un ufficio, mentre presso lo scavo stavano altri grossi veicoli contenenti macchinari e generatori, dai quali grossi cavi scendevano fino alle apparecchiature sul fondo della fossa.

Stavo già grondando di sudore. Anche gli altri sbuffavano, ma eravamo troppo tesi per preoccuparci della calura. Edna Valeska mi diede di gomito. — Hanno dovuto scavare per portarsi al livello del seminterrato — disse, accennando alla fossa.

— Cosa?

— Avevano già progettato di sbucare nello scantinato dell’edificio — ripeté lei. — Ma qui non c’era nessun edificio. Così hanno dovuto scavare.

— Ah, certo. — Non mi sembrava importante. A dir la verità la mia testa era un guazzabuglio di riflessioni, e non sapevo neppure quale fosse importante e quale no. Riuscivo a scorgere anche il grosso rettangolo nero, e ne vidi uscire altre due persone: la sergente Nyla e l’uomo che sembrava, ma che aveva detto di non essere, Djugashvili. Scambiarono qualche parola, poi Nyla gli volse le spalle e salì su una jeep.

— Che ne pensate di quelle impalcature? — chiesi.

— A occhio e croce — rispose la dottoressa Valeska, — è la loro soluzione ai problemi di posizione. Dovevano spiarci, penetrare nei laboratori. Alcune di quelle impalcature corrispondono, direi, all’altezza dei pavimenti del nostro primo piano.

Sembrava razionale, anche se l’intera faccenda aveva aspetti che mi riusciva difficile accettare come reali e razionali. Uno degli scienziati più giovani mise il dito sulla piaga: — Secondo voi cos’hanno intenzione di farci? — chiese, con voce tremula.

Nessuno aveva una risposta da dargli. Il colonnello Martineau si avvicinò. — Penso che la sergente ce lo farà sapere, adesso — borbottò, mentre sollevando una nuvola di sabbia la jeep veniva a fermarsi accanto a noi.

Lei non ci disse nulla… o almeno, non direttamente. Appena balzata a terra era andata a parlare coi piloti dei due elicotteri. «Parlare» è un eufemismo, perché dopo qualche istante costoro cominciarono a discutere accanitamente, e non si preoccupavano certo di tener la voce bassa. Nyla li stava facendo incavolare.

L’argomento del loro disaccordo aveva dei singolari punti in comune con il rompicapo dei missionari che devono traghettare il cannibale al di là del fiume. Ogni elicottero poteva portare cinque persone oltre al pilota. Noi eravamo in nove — nove cannibali — e con la guardia dieci. Ma dovevamo dividerci in due gruppi. Solo che nessuno dei due piloti voleva essere quello che avrebbe messo a repentaglio la pelle caricando cinque di noi maniaci sanguinari disperati senza una guardia a tutelarlo.

— Allora si fa così — gridò infine la sergente Sambok: — tu ne prendi quattro, tu altri quattro, e io terrò sotto sorveglianza il maledetto ultimo finché uno di voialtri torna indietro. — E dopo che i piloti ebbero grugnito il loro assenso, mentre la guardia e l’autista della jeep ci facevano salire a bordo, lei puntò un dito su di me.

— Questo lasciatelo da parte — stabilì. — Baderò io a lui fino al prossimo viaggio.

— Sissignora, sergente — belò uno dei soldati. — Ma il maggiore ha detto che…

— Muoviti! — ordinò Nyla. E loro si mossero. Quando furono tutti a bordo degli elicotteri lei si volse a considerarmi attentamente. I suoi occhi mi dissero che non costituivo un problema per una ragazza robusta e armata di un’efficiente carabina. Annuì fra sé. — Non ha senso restare qui a friggerci il cervello — disse. — Andiamo nel rimorchio.


Il carrozzone con le finestre aveva, benedetto lui, l’aria condizionata.

Era anche vuoto. All’apparenza era lì solo per essere usato dagli elicotteristi, e in quel momento costoro non c’erano. Mi fece entrare per primo, e salì soltanto quando fui a distanza di sicurezza. Poi si fermò in un angolo, con dita esperte si fece sgusciar fuori da una tasca due quarti di dollaro e me li porse. — Laggiù c’è un distributore di Coca Cola — disse. — Io sono…, occupata. Apritemi una lattina e mettetemela lì, sul tavolo. — E dopo un momento aggiunse: — Per favore.

Sedette e bevve un lungo sorso di Coca Cola, senza togliermi gli occhi di dosso. Io ricambiai il suo sguardo. Vista a tu per tu, senza nessun altro a distrarci nelle vicinanze, sembrava più identica che mai alla mia Nyla. Oh, certo, indossava qualcosa che lei non si sarebbe messa neppure ad Halloween per una festa in maschera. Ma davanti a me vedevo Nyla Christophe Bowquist.

Naturalmente non era lei. Era Nyla Qualcun Altro. Ma qualunque nome avesse sui documenti era bella e desiderabile come la mia Nyla, il che non era cosa dappoco. Non voglio dire sensuale, benché lo fosse in abbondanza. Il fatto è che c’era di più. Io la amavo. Amai lo sguardo fra perplesso e ironico che mi elargì. Amai il movimento con cui si appoggiò all’indietro, e che fece risaltare i suoi seni al punto che quella tuta da fatica mi parve più bella di un abito d’alta sartoria. E quando parlò amai il suono della sua voce.

— Cos’è questa storia, DeSota? Voglio dire, cos’è quello di cui mi stava parlando?

— Lei è una concertista, tutto qui. Una delle più grandi suonatrici di violino mai esistite.

— Ma non mi dica! Io sono un’insegnante di musica, Mr. DeSota. Ammetto d’aver sempre desiderato suonare con una grande orchestra. Però non l’ho mai fatto.

Scossi le spalle. — Ma ne ha la capacità potenziale — dissi, — perché nel mio universo questo è esattamente ciò che lei è. E c’è un’altra cosa che non le ho detto circa il suo doppione della mia linea temporale e… e me.

Mi gratificò di un’occhiata ironica. Se non borbottò la parola cosa? furono le sue sopracciglia a dirla per lei.

— Noi siamo amanti. Io… io ti amo. Capisci?

Il suo sguardo da divertito si fece sorpreso, con una sfumatura di sospetto. Ma era ancora piuttosto caldo. Caldo per un tipo come Nyla, voglio dire, che era una specialista nel mostrare agli sconosciuti una maschera abbastanza gelida. Era anche lo sguardo con cui Rossana doveva aver considerato Cyrano de Bergerac, quando aveva scoperto che era stato lui, e non quell’ottuso bellimbusto di Cristiano, a scriverle le lettere d’amore. Poi disse: — Questa è una notizia che mi dà, DeSota.

— Non sto cercando d’imbrogliarti, Nyla.

Lei ci pensò su qualche istante, si guardò attorno e sorrise.

— Viste le circostanze — disse, — potrebbe benissimo essere come dice lei. Comunque parliamo di qualcos’altro. Ad esempio, perché ha nominato quel concerto di Gershwin? Morì giovane, dovrebbe saperlo. — Io scossi le spalle; non sapevo molto di lui. — Ha lasciato un sacco di buona musica — continuò lei, mentre io mi accostavo alla finestra per guardar fuori. — Tutta la musica popolare, naturalmente. Oltre alla Rapsodia in Blu, al Concerto in F, e l’Americano a Parigi… ma, sul serio, non ha mai composto nulla per il violino.

Io stavo osservando il portale, più in basso, dove il Non-Realmente-Djugashvili stava operando su una consolle identica a quella che c’era dall’altra parte. Scossi il capo con decisione. — Ti sbagli, Nyla. Ti sbagli proprio. Non che io sia un esperto di musica classica, questo è certo, ma ho imparato qualcosa standoti attorno… attorno all’altra Nyla. Suonava spesso quel concerto per violino. È molto melodico, il che lo rende facile anche per un incompetente come me. Magari riesco a fischiettartelo… aspetta un minuto. — Camminai su e giù cercando di rammentare l’eccitante e piacevole tema d’apertura che Nyla eseguiva così bene nel suo assolo. Quando cominciai a fischiare seppi che non gli stavo rendendo giustizia, ma uno dei pregi della musica davvero bella è che non si lascia rovinare facilmente.

Lei si accigliò. — Non l’ho mai sentito. Ma è assai piacevole. — E sporse le labbra provando a fischiare a tempo con me.

Anch’io sporsi la labbra, quando mi chinai in avanti per baciarla.

Lei mi restituì il bacio.

O almeno fui quasi certo che me lo stesse restituendo. Potei sentire quelle soffici e dolci labbra aprirsi sotto le mie, ma non volli accertarmene. La colpii alla nuca col taglio della mano, con la stessa durezza che avevo appreso a usare al corso di judo.

Cadde sul pavimento come un sacco vuoto.

Quel genere di combattimento a mani nude era soltanto teoria per me. Non l’avevo mai messo in pratica fino ad allora, salvo che durante gli esercizi dove non si affondano i colpi. Né avevo programmato di farlo, benché una parte del mio cervello continuasse a dirmi che la divisa di Nyla e quella che avevano dato a me erano del tutto uguali, a parte il fatto che lei portava una fascia verde al braccio e una carabina, ed io non avevo né l’una né l’altra.

Quando la vidi abbattersi al suolo non potevo esser sicuro in alcun modo di non averla colpita troppo forte.

Ma allorché poggiai una mano su quel seno, così familiare al tatto come m’era estranea quella stoffa militare, potei sentire che il cuore e la respirazione erano del tutto normali.

— Mi dispiace, tesoro — mormorai. M’infilai sulla manica la sua fascia verde. Raccolsi la carabina dal pavimento, me l’appesi alla spalla, e uscii dal rimorchio senza più voltarmi indietro.

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