A quell’ora di notte il grande parcheggio sotterraneo era deserto, e guardandosi attorno in cerca della sua auto l’avvocato cominciò a pentirsi d’essersi trattenuto in ufficio fino a tardi. Non ricordava più dove l’aveva posteggiata. E mai che ci fosse un poliziotto in giro, quando ce n’era bisogno. Perché in quel momento ne sentiva il bisogno: due rapine, un omicidio, e numerosi furti d’auto, erano il bilancio di quel garage negli ultimi sei mesi. Ma quando girò un angolo vide due poliziotti di ronda, col mitra appeso alla spalla. — Buonasera — li salutò. E si sentì più sollevato… finché non s’accorse che le loro uniformi erano grigioverdi, bordate di rosso, e i loro berretti non avevano nulla in comune con quelli della polizia di Chicago. Peggio ancora, quando gli rivolsero la parola lui riconobbe la lingua: russo! D’istinto si volse e scappò via, con la pelle d’oca e senza riflettere. Alle sue spalle risuonò una raffica di mitra, ma le pallottole rimbalzarono fra le auto in sosta senza colpirlo. Tuttavia quello era un vicolo cieco, e allorché all’estremità del parcheggio l’avvocato fu costretto a voltarsi, ansimando, si disse che quella era la fine. Ma i due uomini erano spariti.


26 Agosto 1983
Ore 7,40 della sera — Senatore Dominic DeSota

Trascorsi quel pomeriggio gettando occhiate di desiderio alla piccola piscina che vedevo fuori dalla finestra, sul piazzale, grondando di sudore e con le scottature che non mi davano un attimo di requie. Ma non erano l’insolazione e l’afa a tormentarmi. Da qualche parte, non lontano da lì — e tuttavia disperatamente al di là di qualunque cosa fosse ciò che separava una linea temporale dall’altra — la mia patria era stata invasa, e una mia controfigura s’era mostrata alla televisione per portare avanti i piani dell’invasore. Non riuscivo a ricordare nessun caso nella storia degli Stati Uniti, dalla guerra civile in poi, di un comportamento simile da parte di un senatore democraticamente eletto. Che opinione s’erano fatta di me i miei colleghi?

E cosa stava pensando di me Nyla Bowquist?

Neppure io sapevo bene cosa pensare di me stesso. Le ultime quarantott’ore erano state le peggiori della mia vita. C’era stato lo shock di scoprire che le ricerche della Casa dei Gatti erano una realtà, e che esisteva un numero infinito di mondi dove c’erano un infinito numero di Dominic DeSota, ciascuno indistinguibile da me. Ero stato preso prigioniero da uno di essi. Avevo picchiato una donna che era in tutto e per tutto quella che amavo. Ero stato di nuovo imprigionato e stavolta da un’altra copia di lei, differente solo per i pollici amputati. Avevo rapito un uomo. Mi sentivo stordito al pensiero che la mia nazione era stata attaccata dalla mia nazione. E avevo vagato nel deserto senza cibo né acqua prendendomi delle brutte scottature solari, che mi bruciavano come ustioni.

Bruciavo dentro e bruciavo fuori… e non mi permettevano neppure di rinfrescarmi in piscina. Non che me l’avessero esattamente proibito. Era solo una di quelle cose che potevano esser fatte su espresso ordine di Nyla, e lei se n’era andata per gli affari suoi. Il lavandino nell’angolo non era un buon sostituto. Ogni mezz’ora circa mi spogliavo e mi spruzzavo l’acqua addosso; e ogni quarto d’ora mi applicavo uno strato fresco di quella crema buona a niente che loro chiamavano crema idratante. Questo mi dava qualcosa da fare. Non che mi aiutasse molto.

Un’altra cosa che non mi tirava su di morale era la presenza del mio involontario compagno di viaggio, il Dr. Lawrence Douglas. Per l’intera interminabile giornata non s’era mosso dal letto. C’era poco da meravigliarsene. Aveva passato le mie stesse traversie: la stessa insolazione, le stesse lunghe ore di sete e d’afa marciando nel deserto. E inoltre non solo s’era fatto mordere da un crotalo, non solo gli avevano fatto un’iniezione antivenefica peggiore del morso stesso, ma era stato riempito di non so che droga affinché Nyla Senzapollici potesse interrogarlo. Io non avevo assistito a quel terzo grado, però quando l’avevano riportato dentro in stato d’incoscienza m’ero accorto che alle sue scottature s’erano aggiunti alcuni lividi.

Adesso mi chiedevo se non fosse il caso di svegliarlo, per farlo reagire alla droga.

Non ebbi bisogno di provarci. Quando mi volsi inaspettatamente, dal lavandino, vidi che mi scrutava. Fu svelto a richiudere gli occhi, ma non abbastanza. — All’inferno, Douglas — dissi stancamente. — Se vuoi dormire, dormi. Se vuoi alzarti, alzati. Ma a che scopo fare la commedia?

Per un altro minuto tenne le palpebre serrate con testardaggine, poi parve capire che era una cosa stupida. Si tirò su dal letto, girò attorno lo sguardo in cerca di un gabinetto che non esisteva e poi, senza dir nulla, orinò nel lavandino.

Quand’ebbe finito, sbottai: — Almeno sciacqualo, — Io l’avevo fatto. Non si prese la briga di guardarmi, comunque diede svogliatamente una lavata alla maiolica; poi unì le mani a coppa e bevve, lappando quasi come un gatto. Rifiutava di rivolgermi la parola con ogni suo atteggiamento.

— Bagnati i capelli, ti farà star meglio — consigliai. — E qui c’è della crema per le scottature.

Si raddrizzò lentamente, accigliato, poi tornò a chinarsi e mise la testa sotto il rubinetto. Mentre si asciugava la faccia si volse a borbottarmi scontrosamente quello che interpretai come un «Grazie». Quando girò lo sguardo in cerca della crema gliela porsi con un sorrisetto incoraggiante.

La sua espressione rimase cupa. Pur facendo le debite concessioni a quel che era stato costretto a sopportare, non avevo mai visto un uomo così disperato, risentito e depresso.

Naturalmente anch’io ero alquanto giù di morale. A parte l’accaduto e i dolori che avevo addosso ero preda di una sensazione spiacevole. Mi sentivo sotto costante osservazione, anche se non avevo mai sorpreso le guardie a sbirciar dentro dalla finestra. E c’era un’altra cosa a preoccuparmi. — Senti — dissi, — non è il caso di prendertela così.

Smise di spalmarsi la crema sul viso per elargirmi un’occhiata astiosa. — E come mi consiglieresti di prenderla?

— Già che ci siamo potresti almeno soddisfare la mia curiosità circa un particolare che mi dà da pensare. Quando ti sono venuto accanto, al portale, tu avevi regolato i comandi dell’apparecchiatura approfittando della distrazione di chi ti sorvegliava. Poi hai attraversato con me…

Ebbe una risata amara come un latrato. — Poi mi hai scaraventato dentro, vorrai dire!

— Sì, certo. Ma subito dopo siamo precipitati per quattro metri, dall’altra parte. Cristo! Avresti potuto avvertirmi che c’era un salto — lo accusai, per nessun’altra ragione che dividere le colpe a metà. — Credevo che avessimo fatto ritorno nella mia linea temporale. Ma mentre tu dormivi ci ho pensato sopra.

Fece un grugnito. — DeSota, se hai qualcosa da dire vuoi per favore venire al punto?

— Il punto è: tu dove stavi cercando di andare?

— Cercavo di scappare — borbottò.

— E dove? Ma… questa è la tua linea temporale, no?

— Questo buco d’inferno primitivo? — ringhiò. — No!

— Ma perché…

— Perché non ho tentato di tornare nel mio mondo? Perché non ne ho più uno, DeSota! C’è una sola cosa che voglio, adesso, ed è di starmene alla larga! — Tornò a gettarsi sul letto.

— Ascoltami… — cominciai, in tono ragionevole.

Scosse il capo. — Dimenticatene! — stabilì.

Per il momento decisi di lasciar perdere. Non perché lo diceva lui, ma perché avevo sentito il rumore di un’auto che era venuta a fermarsi nelle vicinanze, fuori vista. M’accostai alla finestra e cercai di capire cosa stava accadendo, ma da lì non si scorgeva niente. Ci fu il rumore delle portiere che sbattevano, poi alcune voci indistinguibili, fra cui quella di una donna. Una voce che conoscevo meglio di ogni altra. Qualche secondo dopo apparve Nyla, sul bordo opposto della piscina, e la giovane donna cominciò a spogliarsi. Non si preoccupò di gettare neppure un’occhiata verso la nostra finestra. Sedette sulle mattonelle, tastò l’acqua con un piede, poi scivolò fuori dalla sottoveste e con un guizzo scomparve sotto la superficie, tappandosi il naso con una mano.

E benché fosse una mano senza il pollice un’altra sensazione, dolorosa e pressante, si aggiunse a quelle che mi stavano opprimendo il sistema nervoso.


Se Nyla Senzapollici non guardò dalla nostra parte, quel che è certo è che io guardai lei. Potevo vedere una delle guardie, appoggiata a una colonnetta davanti all’ufficio del motel, e i suoi occhi non si stavano perdendo niente di quel corpo eccitante e a me così familiare. Perfino Douglas era venuto alla finestra, al mio fianco. — È fatta bene, quella puttana d’inferno — borbottò.

Avrei potuto strangolarlo.

Provare sentimenti di quella fatta, ovviamente, era pura follia. Cercai di dirlo a me stesso. Ma non serviva a niente, perché tutti i pensieri che avevo nella testa si dileguavano, sparivano, e il vuoto che lasciavano veniva riempito dall’immagine di Nyla. Di ogni Nyla. Tutte le Nyla. Nyla Bowquist, la mia amata, virtuosa del violino. Nyla Sambok, soldatessa di un esercito nemico. Nyla Senzapollici: Nyla Christophe anche lei, che però non era… naturalmente non era sposata, perché chi avrebbe voluto quel pezzo di ghiaccio? Zelante burocrate della legge, al comando di scagnozzi e picchiatori in completo grigio, esperta nel terzo grado.

E tutte quante erano la stessa persona. Non avevo bisogno d’impronte digitali e analisi delle urine per saperlo. Me lo sentivo nelle viscere, con un’intensità che avevo imparato a conoscere fin da quando avevo quattordici anni e sbirciavo da una grata nello spogliatoio delle ragazze, al campo scuola del liceo.

C’erano delle incongruenze di cui non ero riuscito a capacitarmi, quando avevo cominciato ad avere a che fare con loro. Nella prima, la sergente, avevo trovato un carattere abbastanza brusco da sentirmi scuotere i nervi. Ma dopo le prime perplessità ero riuscito a vedere l’essere umano dietro quella maschera. Se non era un violinista da concerto, quantomeno insegnava musica. E indossava l’uniforme soltanto perché era stata richiamata in servizio. La mia amata avrebbe potuto seguire la stessa strada, se la mano del destino ce l’avesse spinta in un modo o nell’altro quand’era più giovane.

Ma questa qui!

Questa donna senza pollici… senz’anima, senza amore, ma soprattutto con quell’amputazione alle mani che sembrava un’amputazione dei sentimenti. In lei non potevo riconoscere nulla di quella Nyla che amavo.

Nulla salvo le forme deliziose del suo corpo. Ed era il mio corpo che nel riconoscerle reagiva ad esse.

Era un miscuglio di odio e di desiderio che riuscivo a capire, perché avevo già saputo di situazioni simili… non di quel genere, intendo, ma capaci di scatenare emozioni identiche. Me ne aveva parlato un compagno di bevute (bevute politiche, diciamo) dopo uno di quei congressi in cui ci si stordisce a forza di discorsi, di applausi, di risultati che appaiono sui tabelloni, e alla fine chi rimane a far le ore piccole non trascura il supporto di una bottiglia. Disse d’aver sorpreso sua moglie sul fatto con un altro uomo. Quando fu certo che non potevano esserci equivoci la rabbia e il dolore lo accecarono, e tuttavia qualcosa in lui reagiva ancor più bestialmente: incredulo, s’accorse di essere eccitato. Dopo la scenata, le urla, i ceffoni, ciò che sopraffaceva ogni altro suo pensiero era la voglia di fare all’amore con lei, più energicamente e sensualmente di quanto non l’avesse mai fatto. Trovarsi davanti a quello sconosciuto, a quella relazione da cui lui era escluso, a quella donna che d’improvviso gli mostrava un suo lato insospettato ed estraneo, gli metteva addosso un violento bisogno di sbatterla sul letto e di lasciar perdere ogni altra considerazione per sfogarsi con un atto sessuale animalesco.

Guardando Nyla da quella finestra la desiderai allo stesso modo.

Lei e tutte le altre Nyla.

Grottesco? Naturalmente! Sapevo bene quanto fosse grottesco. Eppure non potevo fare a meno di pensare… cosa sarebbe stata la mia Nyla senza i pollici? In che modo sarebbe stato diverso il nostro fare all’amore? Ad esempio, a letto lei compiva certi gesti nell’accarezzarmi, mentre io ovviamente accarezzavo il suo corpo con gesti assai diversi. E spesso ridacchiando parlavamo delle nostre pure e semplici differenze anatomiche, e del fatto che a lei era impossibile capire cosa provocavano in me le sue carezze, così come io non avrei mai saputo ciò che facevo provare a lei. Ma senza pollici non avrebbe potuto compiere quei gesti, o non esattamente quelli… e comunque, come sarebbe stata la cosa?

Mi è perfino difficile dire in parole quanto avrei voluto sperimentarlo in quel momento.

La scena che avevo davanti agli occhi mutò bruscamente quando Moe venne a piazzare la sua mole di fronte alla finestra e si accorse che stavo guardando. Spinse il vetro e la aprì, costringendomi a indietreggiare. — Belle cose che ti ronzano in capo! — mi derise. — Dimenticatele! Lei non lo vede neppure un fringuello come te, anche se ti tratta meglio di quel che meriti. — Si spostò e lo sentii aprire la serratura dall’esterno. — Dio sa perché si è presa la briga di farlo — brontolò, accennando a Douglas di alzarsi. — Vi ha comprato qualcosa da mettere sotto i denti, e dice che potete andare a mangiare nell’appartamento del padrone. C’è anche l’aria condizionata.


Era cibo messicano, in piatti di cartone e appena fuori freddo… be’, niente era davvero freddo in quella zona del New Mexico, comunque il cibo era a temperatura ambiente. E la temperatura ambiente era, come promesso, tenuta appena sotto il massimo sopportabile da un ronzante scatolone applicato alla finestra di quel vasto soggiorno. Con noi c’erano i nostri due alter-ego e Moe, e il calore dei nostri cinque corpi sembrava sufficiente a surclassare le possibilità del condizionatore.

Sedetti accanto all’altro DeSota e ci guardammo in faccia. — E allora, Dom? — lo salutai. Lui sembrò sorpreso.

— Di solito mi chiamano Nicky — mi corresse. — Dico, l’hai vista, là fuori? E pensare che mi hanno accalappiato soltanto perché ero in topless! — Aprii la bocca per chiedergli cosa voleva dire, ma stava già interrogandomi: — Sei davvero un senatore degli Stati Uniti?

— Certo, dal 1978. Eletto nell’Illinois.

— Non ho mai parlato al mio senatore, prima d’ora — constatò, e sorrise. — Buffo scoprire che quel senatore sono io. Come devo chiamarti?

— Viste le circostanze, Dom andrà benissimo. E tu? Nicky? Divertente… cioè, non volevo dir questo. Anche quand’ero un bambino mia madre non mi chiamava mai Nicky.

— E neanche mia madre. Ma quando entrai al lavoro il mio capo mi consigliò in merito. «Dominic suona troppo come dominatore» disse, e questo metterebbe a disagio i clienti. Io sono nel ramo ipoteche. — Esitò, mandò giù una forchettata di fagioli e chiese: — Dom, com’è che sei diventato senatore?

E naturalmente sottintendeva: mentre io non sono nessuno. Ma come avreste risposto a una domanda del genere? Non potevo certo dirgli «Perché io sono un vincente e tu un fessacchiotto». Questo sarebbe stato imperdonabile e oltretutto falso, visto che eravamo la stessa persona. Ma cos’era accaduto in quell’universo che aveva trasformato la mia dolce suonatrice di violino in una gelida burocrate, e me stesso in un pacioccone ingenuo dai grandi occhi spalancati?

Non ebbi la possibilità di indagare meglio. Venne dentro Moe, oberato dal peso di una grossa scatola di cartone, e dietro di lui entrò Nyla Christophe. Adesso indossava una gonna e una camicetta a maniche lunghe, che mi parvero severe e fuori moda oltreché da poco prezzo, anche se da come la stoffa le aderiva avrei giurato che sotto non aveva nulla.

— Piaciuto il pranzo, egregi signori? — chiese in tono faceto. — Ora dovrete cantare, se volete guadagnarvi la cena. Sono andata all’ufficio di Albuquerque per parlare con Washington su una linea sicura, e le cose stanno procedendo proprio come pensavo. Stasera ci saranno ordini per tutti noi.

Fece un cenno a Moe, che poggiò la scatola sul pavimento e cominciò a tirarne fuori roba: un poderoso e antidiluviano registratore, che collegò alla presa del lampadario, due larghe ruote di nastro magnetico, un microfono più grosso del mio pugno e un rotolo di cavo.

L’altro Larry Douglas, non quello che aveva attraversato il portale con me, disse preoccupato: — Nyla, di che ordini stiamo parlando? — Lei sogghignò e puntò un indice verso il cielo. — Washington? — gemette l’uomo con voce rotta per l’improvvisa angoscia. — Ascolta, Nyla, ti giuro che non so un accidente di niente di questa…

— Adesso saprai, tesorino — disse dolcemente lei. — Moe? Pronto a registrare?

— Tutto pronto, capo — fece rapporto lui, tirando il nastro da una ruota all’altra. Girò un interruttore, e attraverso la griglia frontale dell’apparecchiatura potei vedere delle grosse valvole termoioniche — valvole termoioniche! — illuminarsi debolmente.

— Ecco quel che faremo adesso — spiegò la donna che indossava il corpo della mia amante. — Prenderemo ancora nota di tutte le vostre versioni. Non date informazioni extra. — E lanciò un’occhiata d’avvertimento a quel Douglas. — Limitatevi a rispondere alle mie domande. Al direttore non interessa sapere cosa facevate di bello a Chicago, o se vi è piaciuto il trattamento che vi siete sorbito. Solo l’essenziale, perché voglio concludere prima che si parta per l’aereoporto!


Considerando tutte le domande a cui avevo dovuto rispondere, considerando la complessità delle circostanze su cui ciascuno avrebbe riferito, non vedevo come quella serie d’interviste potesse finire prima di notte. Ma mi sbagliavo. Nyla Christophe aveva un’idea ben precisa di ciò che intendeva mettere su nastro, e chiese solo pochi elementi base. Nicky DeSota fu il primo. Rispose fornendo nome, indirizzo e qualcosa chiamato numero del registro civile. Quindi ci furono soltanto due domande:

— È mai stato dentro i Laboratori Daley?

— No.

— Ha mai visto prima d’oggi l’uomo, qui presente, che le somiglia e dichiara di essere il senatore Dominic DeSota?

— No.

Con un cenno del capo Nyla gli comunicò di levarsi di mezzo, e il suo posto fu preso dal Larry Douglas locale. L’interrogatorio non fu più elaborato, e terminò con le stesse due domande, con la sola differenza che l’uomo lì presente e che gli somigliava era il «Dr. Lawrence Douglas». Lui diede le identiche risposte, quindi fui io a sedermi davanti al microfono.

Stavolta occorse più tempo, perché lei ordinò: — Cominci da quando fu avvisato che un uomo corrispondente a lei era stato catturato in una base militare segreta del New Mexico, e riassuma gli avvenimenti. — Dopodiché si limitò ad ascoltare, intervenendo solo con domande tipo: «E poi che accadde?» sino al momento in cui nominai il maggiore DeSota degli invasori. Qui chiese: — Costui era lo stesso che le fu portato davanti ammanettato e vide scomparire? No? Era forse quest’altro qui presente? No? Dunque dichiara che vi sono almeno quattro di voi? Sì? Bene, prosegua.

Riferii tutto quanto, compreso il modo in cui avevo messo KO l’altra Nyla, senza però parlare del bacio; ma soprattutto evitai di dire che era un doppione di Nyla e la nominai solo come «sergente Sambok». La cosa non mi era stata chiesta. — E poi cademmo sulla sabbia, e ci accorgemmo che intorno a noi c’era solo il deserto. Neanche un’anima in vista, e il caldo era terribile. Dovevamo nasconderci quanto prima, o almeno pensammo di doverlo fare. Ci dirigemmo a sud est, regolandoci a occhio col sole. Camminammo per ore, finché la sete divenne insopportabile. Poi Douglas disse d’aver sentito raccontare che certi cactus contenevano acqua; cercò di sradicarne uno dalla sabbia, e sotto c’era un serpente. — Esitai, chiedendomi quanti dettagli la donna volesse. Avevo sentito i sonagli, e avevo visto Douglas balzare indietro col crotalo che gli penzolava attaccato a una manica. Non era molto grosso, e la blusa di lui aveva un certo spessore, cosicché non era passato troppo veleno. E l’espressione attonita di Douglas, mentre fissava muto e stupefatto il rettile, m’era parsa addirittura ridicola. — Poco dopo giungemmo a una linea ferroviaria. Restammo lì finché il macchinista di un treno ci raccolse.

— Bene — disse Nyla Senzapollici, e annuì verso il suo gorilla. Lui spense il registratore e cominciò laboriosamente a cambiare il nastro. Se Nyla non aveva i pollici, quell’individuo sembrava averne cinque per ogni mano; ma lei fu paziente. Adesso dedicava la sua attenzione al mio involontario compagno di viaggio, che appariva a disagio. Potei capirne il motivo, poiché nel modo in cui la donna lo contemplava c’era qualcosa di strano. Lo avrei detto — ma come poteva essere? — seducente, ma allo stesso tempo sfumato d’incredulità, quasi di paura. Gli elargì un sorriso caldo e dolce. — Tu sei il prossimo, tesoro — disse.

Se i primi tre di noi avevano riempito un rotolo di nastro, questo Dr. Lawrence Douglas doveva avere tanto da raccontare da esaurire tutte e sei le bobine che Moe aveva tirato fuori. Nyla sparava domande secche e concise e di tanto in tanto si aiutava con certe sue note per esser certa di non aver trascurato niente. Douglas comunque cominciò subito con una dichiarazione sorprendente:

— In primo luogo — disse, fissando me con aperta acredine, — la linea temporale da cui sono stato rapito è il Paratempo Gamma. Non è quella da cui provengo io, ma…

— Un momentino, dolcezza. Che cos’è questo Gamma?

— È il nome che gli diamo — spiegò stancamente lui. — Tanto per averne uno con cui identificarlo. Il mio è il Paratempo Alfa. Questo è il Tau. Quello del senatore è l’Epsilon, quello che è stato invaso. E l’altro, da cui è partita l’invasione, è il Paratempo Gamma.

— Vai avanti.

— Non è stato il Paratempo Gamma a inventare il portale. Lo abbiamo realizzato noi in Alfa.

— Noi chi, caro? L’hai inventato tu?

— Nessuno inventa roba simile da solo. Non cose complesse come il portale… è come l’invenzione della bomba atomica. Io facevo parte della squadra, ma ci entrai che ero appena laureato. Quelli che idearono la teoria di partenza furono tre scienziati: Hawking e Gribbin in Inghilterra, e il Dr. DeSota negli Stati Uniti. Non trovate divertente quest’ultimo particolare?

Non stava cercando d’essere sarcastico, soltanto d’essere capito bene, ma dalla gola di Moe uscì un ringhio d’avvertimento. Nyla scosse il capo senza guardare il gorilla. — Continua — disse, e stavolta non aggiunse «tesoro».

Ubbidiente lui proseguì: — All’inizio tutto ciò che potemmo fare fu di spiare. Voglio dire, era possibile ricevere segnali attraverso la barriera. Captare onde elettromagnetiche, ad esempio; e dopo un po’ riuscimmo anche con la visione diretta. Non per tutti i Paratempi. Alcuni sono accessibili, molti altri no. Il Dr. DeSota dice che si tratta di un effetto di risonanza: eravamo fuori sintonia con molte delle linee temporali. Ma naturalmente esse sono in numero infinito. Al tempo in cui io… uh, me ne andai, ne avevamo identificato circa duecentocinquanta, ma da molte di esse non riuscivamo a percepire che segnali sfocati. È questo che voleva sapere?

— Quello che vogliamo sapere, caruccio — disse Nyla, — è tutto quanto. Se non potevate far altro che guardare, come sei arrivato qui?

— No, no — sospirò lui. — Questo succedeva all’inizio. Vale a dire al tempo in cui mi aggregai alla squadra, ai primi di Agosto del 1980. In Ottobre riuscivamo già a mandare oggetti oltre la barriera, senza però poterli recuperare. E nel Gennaio 1981 inviammo un volontario. Io. — Inarcò un sopracciglio. — Fui io a offrirmi.

— E come otteneste questo? — chiese Nyla.

Lui esibì un’espressione paziente, molto paziente. — Se ve lo spiegassi, in questa stanza non c’è una sola persona che avrebbe la più vaga idea di quello che direi.

Nyla aveva un ferreo controllo di se stessa, ma se fossi stato al posto di Douglas-Alfa ci sarei andato più cauto. — Provaci — gli disse, secca.

A Douglas non dovette piacere il lampo dei suoi occhi, perché degluti saliva e disse subito: — Non volevo dire che non siete abbastanza intelligenti. Solo che ci sono due soli modi per spiegarlo. Uno è con le parole che coniammo in fase di realizzazione: la struttura del portale genera una corrente di crononi verdi-negativi che interferisce col flusso naturale dei crononi rossi-positivi. Capite cosa voglio dire? Astruso, no? L’altro modo è in formule matematiche. E per favore, se volete seguirmi dovete prima studiare la fisica dei quanta e la meccanica ondulatoria.

Quel che intendeva era chiaro, e lo capì anche Nyla, ma ciò che chiese fu: — Precisa le date.

Lui scosse le spalle. — L’analisi del Dr. DeSota fu, suppongo, la prima dimostrazione inequivocabile che esistevano davvero effetti-quanta del genere già suggerito da Schroedinger. Questo accadde nel 1977. E fu ciò che mi spinse a specializzarmi in quel ramo di studi. Poi lui ed Elbert Gillespie scoprirono l’esistenza dei crononi, nel 1979, e pochi mesi dopo svilupparono il prototipo per osservare oltre la barriera. Infine, come ho detto, io passai nel Paratempo Gamma.

Tacque, in attesa. Nyla strinse pensosamente le palpebre. — Dove hai pensato bene di restare. Dopodiché hai disertato — constatò.

— Io li ho aiutati — la corresse lui. — E non ero obbligato a stare là in eterno, le pare?

— Avrai modo di aiutare anche noi — sorrise lei, di nuovo tutta sesso e caldi lampi nello sguardo.

— No, aspetti un momento! — obiettò lui. — Io… forse ci potrei provare, certo, ma… guardi questo vostro registratore! Se è il meglio che potete fare, non possedete neppure lontanamente la tecnologia di base. Io ho bisogno di mezzi tecnici con cui lavorare. Capisce?

Lei annuì dolcemente. — Che ne dici di tutte le risorse del governo degli Stati Uniti? — E quando lo vide accigliarsi: — Lo hai già fatto per… come li hai chiamati? La gente di Gamma, no?

— Ma mi hanno minacciato di morte, se non avessi… — S’interruppe, lanciandole un’occhiata nervosa.

Lei sorrise, e per qualche istante gli lasciò assaporare quel sorriso. Poi fece qualcosa che non mi sarei mai aspettato: si alzò e andò a sedersi sul bracciolo della sua poltrona, cingendogli il collo con un braccio e premendoglisi addosso come una gatta. Se prima avevo sospettato che sotto i vestiti non avesse nulla, ora ne fui certo. Gli solleticò un orecchio. — Noi non minacciamo — disse, suadente. Vidi Douglas roteare gli occhi per la stanza: un animale in trappola, a cui veniva offerta un’esca. — Al contrario — continuò lei in un languido sussurro. — Offriamo ricompense. Oh sì, tesoro, ricompense. E sarà mio privilegio ricompensarti personalmente in tutti i modi che potrò.

Riuscivo quasi a sentire l’odore degli ormoni che schizzavano fuori dalla sua pelle.

E ci riusciva anche il Larry Douglas locale. — Puttana — sussurrò, così piano che potei appena sentirlo benché fosse seduto sul letto al mio fianco. — Lo sai a cosa mira? È ambiziosa, la vecchia Nyla, ecco cos’è. Vuole usare questa faccenda per arricchirsi e uscire dall’FBI, per salire sulla cima della piramide. E quando avrà questo povero figlio di buona donna nel suo letto gli farà fare tutto quello che vuole… credimi, io lo so!

Tacque, perché Moe ci stava guardando storto.

Ma per me aveva parlato anche troppo. Deglutii un groppo di saliva che la rabbia mi rese amaro come il fiele. Pazzesco! Io ero geloso! Ero geloso di quel topo di fogna seduto accanto a me, così follemente che l’impulso di saltargli alla gola mi fece fremere. E tutto questo perché? Perché s’era portato a letto quest’altra Nyla.

Allucinante.

Stavo vivendo nelle mie stesse allucinazioni. Lo sapevo, e non me ne importava nulla. Se fosse bastato un pensiero per dargli fuoco avrei riso ferocemente sul rogo delle sue carni. E non solo lui: quello a cui Nyla stava sussurrando paroline all’orecchio… specialmente lui! Tutti quelli come lui. Il mio odio stava dilagando verso ciascuno degli altri Larry Douglas, detestabili doppioni, stupide controfigure, compreso il mio vecchio conoscente e compagno di bevute, Sua Eccellenza l’ambasciatore sovietico, l’Onorevole Lavrenti Yosifovitch Djugashvili.

E per me fonte di costante meraviglia vedere fino a che punto di pazzia può arrivare un individuo sano di mente.

Avevo la testa cosi satura di rabbia e di gelosia che non notai subito l’espressione di Nyla. S’era raddrizzata, corrugando le sopracciglia, e guardava fuori dalla finestra. — Moe — ordinò, — chiudi quelle dannate tendine. Non voglio che tutto il mondo stia a curiosare qui dentro!

— Capo — protestò lui, — nessuno verrebbe a guardare cosa…

— Chiudile! — E tornò a volgersi, di nuovo tutta un sorriso, all’uomo che ormai reagiva con l’aria di un beota alla sua seduzione.

E mi sentii ribollire il sangue.

Era ossessionante. Ciò che volevo era prendere quella femmina e possederla li, in quel momento, e uccidere chiunque si fosse messo fra me e lei. I miei pensieri erano un tale garbuglio che quasi non notai il lieve click uscito dal nulla. L’impercettibile rumore era appena scivolato sulla superficie della mia mente allorché Moe, nel voltare le spalle alle tende chiuse, si piegò in avanti e cadde, rovinando sul grosso registratore. Tornai alla realtà soltanto nel vedere Nyla che balzava in piedi sbigottita, il volto contratto da un improvviso spavento. Aprì la bocca per gridare…

Ci fu un altro click.

Anche Nyla si abbatté al suolo, come una marionetta dai fili spezzati. La luce si rifletté su un sottile oggetto metallico, una minuscola freccia, che le sbucava dalla camicetta sulla spalla destra.

Paralizzati dallo stupore ci fissammo l’un l’altro. Ma le confuse domande che mi roteavano nella mente non tardarono ad avere una risposta, perché sentii un soffio d’aria spostata simile a quello di una porta che si apre, e d’un tratto, davanti a me, ci fu un altro sogghignante me stesso. Quell’altro me stesso che indossava la strana tuta piena di tasche. — Salve. Come va? — Ci rivolse un cenno del capo. — Qua, datemi una mano a toglierla di mezzo.

I Douglas furono più svelti di me a ubbidirgli; per quanto sbalorditi si alzarono e spostarono dal centro del pavimento la giovane donna priva di sensi. Appena in tempo. L’aria vibrò a un’altra silenziosa onda di pressione, e un alto oggetto metallico di forma cilindrica si materializzò nella stanza. — State calmi, per favore — ordinò il nuovo Dominic. Aprì un pannello del cilindro, manovrò qualcosa che stava all’interno e poi alzò gli occhi, in attesa.

Uno scintillante ovale fatto di pura tenebra apparve davanti a noi.

— Sembra che funzioni — commentò lui con una scrollata di spalle. Stava sorridendo. E mi accorsi di rispondere al sorriso: chiunque fosse, qualunque cosa si proponesse, probabilmente rappresentava un miglioramento della mia attuale situazione. Girò un’occhiata per la stanza. — È meglio non perdere tempo — disse. — Però credo che ci converrà portare questi due con noi. Fate passare per prima la ragazza.

Stavolta mi affrettai a dare una mano, sebbene non fosse un grande sforzo per noi quattro portare il corpo inerte di Nyla attraverso l’ovale. Mi causò tuttavia un brivido arcano… non il fatto di vederla sparire centimetro per centimetro, ma il sentire la presenza di mani invisibili che la sollevavano e la attiravano dall’altra parte.

Il gorilla fu un lavoro più duro. Ma eravamo sempre in quattro, senza contare l’aiuto di quelle mani al di là dell’ovale. — Adesso voialtri — ordinò il Dominic in tuta. Ubbidimmo: il Dominic sempliciotto con meraviglia, il Douglas scienziato a denti stretti, il Douglas topo di fogna reprimendo lo spavento. E da ultimo io, con la pelle d’oca e spingendo cautamente avanti un piede per esplorare il terreno.

Era notte fonda, ma potenti lampade squarciavano il buio. Stavo al centro di una piattaforma di legno, e due uomini in abiti borghesi mi presero subito per le braccia. — Spostatevi da qui, per favore — disse uno di loro, e tornò a voltarsi verso il punto dov’ero emerso.

Qualche istante dopo apparve il cilindro di metallo nero.

Due secondi più tardi fu il Dr. Dominic DeSota del Paratempo Alfa a sbucare dal nulla. — Tutti presenti all’appello — annunciò con un sorriso soddisfatto. — Ragazzi, benvenuti nel Paratempo Alfa… e tu, Doug — aggiunse, rivolto allo scienziato, — bentornato a casa.

Ma dall’espressione di Douglas-Alfa fu chiaro che non apprezzava per nulla quell’accoglienza.

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