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Al colmo dell’estate, Halum venne inaspettatamente a trovarci. Il giorno in cui arrivò mi ero allontanato a cavallo sulle terre di Noim, dietro le tracce di uno scudo-di-tempesta maschio che era fuggito dalla sua gabbia. Una maledetta vanità aveva spinto Noim ad acquistare un branco di quei feroci animali da pelliccia, che pure non erano originari di Salla e ci si ambientavano con molta difficoltà. Ne aveva venti o trenta, tutti artigli, denti e feroci occhi gialli, e sperava che si moltiplicassero fino a diventare un ricchissimo gregge. Inseguii il maschio fuggitivo per boschi e pianure, dalla mattina a mezzogiorno, odiandolo sempre più ogni ora che passava perché si lasciava dietro una scia di carcasse mutilate di piccoli erbivori indifesi. Gli scudi-di-tempesta uccidono per il semplice piacere di uccidere, strappano un boccone o due dalle carcasse e abbandonano il resto agli avvoltoi. Finalmente lo raggiunsi in una valletta ombrosa. — Stordiscilo e riportalo indietro vivo, mi aveva raccomandato Noim, in considerazione del valore dell’animale. Ma quando la belva si trovò in trappola, si slanciò su di me con tale ferocia che lo colpii in pieno e lo uccisi con gioia. Mi presi la briga di scuoiarlo per riportare a Noim almeno la preziosa pelle. Infine, stanco e depresso, tornai al galoppo alla grande villa. Un carro da terra che non conoscevo era parcheggiato fuori, e accanto c’era Halum. — Conosci le estati di Manneran — spiegò. — Si progettava di andare nell’isola come al solito, ma poi si è pensato che sarebbe stata una bella cosa prendersi una vacanza a Salla, con Noim e Kinnall.

Era entrata allora nel suo trentesimo anno. Le nostre donne si sposano tra i quattordici e i sedici, non fanno più figli dopo i ventidue o ventiquattro, e a trenta cominciano a scivolare nella mezz’età; ma sembrava che il tempo non avesse neppure sfiorato Halum. Non avendo conosciuto le burrasche del matrimonio ed i travagli della maternità, non avendo spento le sue energie nelle battaglie del letto nuziale e tra le lacerazioni di quello del parto, aveva il corpo sottile e flessibile di una fanciulla: niente accumuli di grasso, niente pieghe, niente vene varicose, niente appesantimento della linea. Solo una cosa era cambiata: negli ultimi anni i suoi scuri capelli erano diventati d’argento. Ma non erano che una bellezza in più, perché brillavano d’una lucentezza straordinaria e offrivano un piacevole contrasto con l’abbronzatura del volto giovanile.

Nel suo bagaglio c’era un pacco di lettere per me da Manneran: messaggi da parte del Duca, di Segvord, dei miei figli Noim, Stirron e Kinnall, delle mie figlie Halum e Loimel, dell’archivista Mihan e di molti altri. Il tono delle lettere era teso, imbarazzato: sembravano le lettere che si scrivono ad un uomo morto se ci si sente colpevoli di essergli sopravvissuti. E tuttavia mi faceva bene sentire quelle parole che venivano dalla mia vita precedente. Mi dispiacque non trovare una lettera di Schweiz: Halum disse che non ne aveva notizie fin da prima del mio processo, e che pensava avesse lasciato il pianeta. Né c’era una parola da parte di mia moglie. — È tanto occupata da non poter scrivere neppure un rigo o due, Loimel? — chiesi, e Halum con aria imbarazzata mi rispose piano che Loimel non parlava mai di me. — Sembra aver dimenticato di essere stata sposata.

Halum mi aveva portato anche un mucchio di regali dei miei amici dell’altra parte del Woyn. Erano sorprendenti nella loro opulenza: massicci agglomerati di metalli preziosi, elaborate file di gemme rare. — Prove d’amore — disse Halum; ma io non mi lasciai ingannare. Si potevano comprare delle grandi tenute, con tutti quei tesori. Quelli che mi amavano non volevano umiliarmi trasferendo del denaro sul mio conto a Salla, ma potevano regalarmi tutti quegli splendori come segno d’amicizia lasciandomi libero di disporne secondo le mie necessità.

— È stato molto doloroso, questo tuo trapiantar radici? — chiese Halum, — quest’esilio improvviso?

— Non si è nuovi all’esilio — le dissi. — E si ha ancora Noim, come legame d’amore e compagnia.

— Sapendo quel che ti costerebbe — disse, — torneresti a giocare con la droga, se potessi rimettere l’orologio indietro di un anno?

— Senza dubbio.

— Valeva la pena di perdere la casa, la famiglia e gli amici?

— Varrebbe la pena di perdere anche la vita — risposi, — se soltanto si potesse esser certi che in tal modo tutta Velada Borthan finirebbe col provare la droga.

Quella risposta sembrò spaventarla: si ritrasse, si portò alle labbra le punte delle dita: forse per la prima volta si rendeva conto della violenza della follia del suo fratello di legame. La mia non era stata solo una frase retorica ed esagerata, e qualcosa della mia convinzione doveva averla raggiunta. Capì che credevo e, vedendo la profondità del mio sentimento, aveva paura per me.

Noim trascorse molti dei giorni che seguirono lontano dalle sue terre; in viaggio verso Città di Salla per affari di famiglia e a Piano del Nand per visitare una proprietà che aveva intenzione di comprare. In sua assenza, ero io il padrone, dato che la servitù, qualsiasi cosa pensasse della mia vita privata, non osava di fronte a me mettere in discussione la mia autorità. Ogni giorno andavo a sorvegliare a cavallo i lavoranti nei campi di Noim. Halum mi accompagnava, anche lei a cavallo.

In realtà, non è che dovessi sorvegliare molto, dato che si era nella stagione intermedia tra la semina e il raccolto, e le messi crescevano da sole. Cavalcavamo più che altro per piacere, fermandoci qui per una nuotata, là per un pranzo al limite del bosco. Le mostrai le gabbie degli scudi-di-tempesta, che non le piacquero, e la portai tra gli animali più mansueti che brucavano nei prati e che si avvicinarono e l’annusarono amichevolmente.

Quelle lunghe cavalcate ci davano ogni giorno molte ore per parlare. Non trascorrevo tante ore con Halum da quando eravamo ragazzi e finimmo col diventare molto intimi. All’inizio eravamo cauti, non volevamo fare delle domande troppo personali, ma presto cominciammo a parlare come due fratelli di legame dovrebbero fare. Le chiesi perché non si fosse mai sposata, ed ella mi rispose semplicemente: — Non si è mai incontrato un uomo che potesse andar bene. — Rimpiangeva di non avere avuto un marito e dei figli? No, disse, non rimpiangeva nulla, perché la sua vita era stata tranquilla e soddisfacente: ma c’era un’ombra di nostalgia nella sua voce. Non potevo insistere. Lei, da parte sua, cominciò a farmi domande sulla droga sumariana, cercando di capire quali meriti potesse avere per indurirli a correre simili rischi. Ero divertito dal modo con cui mi poneva le domande: cercava di essere calma, comprensiva e obiettiva, ma non riusciva a nascondere il suo orrore per quel che avevo fatto. Era come se il suo fratello di legame fosse impazzito e avesse ucciso venti persone in un mercato ed ella volesse capire, con pazienti e serene domande, cosa l’aveva spinto a commettere una simile strage. Mi sforzai di essere anch’io calmo e spassionato, per non bruciarla con la mia violenza come avevo fatto nel nostro primo incontro. Evitavo le prediche e nel modo più calmo e sobrio le spiegai gli effetti della droga, i benefici che io ne ricavavo e le ragioni per cui volevo infrangere il ferreo isolamento della personalità che il Comandamento ci imponeva. Ben presto una curiosa metamorfosi si verificò tanto nel suo atteggiamento quanto nel mio. Ella divenne più una studentessa tutta tesa a comprendere i misteri rivelati da un maestro iniziato a segreti sconosciuti che una dama di alta nascita ben intenzionata che cercava di capire affettuosamente un criminale. E io ero più il profeta di una nuova religione che un cronista che descriveva dei semplici fatti. Descrissi in toni lirici l’estasi del dividere la droga, le dissi la strana meraviglia delle prime sensazioni quando si comincia a schiudersi, e del momento fiammeggiante dell’unione con l’anima di un altro essere umano: le descrissi l’esperienza come un’unione di anime molto più intima di quella che si può avere con un parente di legame o con un confessore. Le nostre conversazioni cominciarono a diventare monologhi. Mi perdevo in estasi verbali, di tanto in tanto scendevo a terra per vedere Halum, coi capelli d’argento e sempre giovane, con gli occhi lucenti e la bocca dischiusa, totalmente affascinata. Il risultato era inevitabile. Un pomeriggio afoso, mentre camminavamo lentamente tra i solchi in un campo dove il grano le arrivava al petto, disse senza alcun preambolo: — Se hai della droga, qui, può la tua sorella di legame dividerla con te? — L’avevo convertita.

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