12

Volli assolutamente confessarmi, prima di lasciare Città di Salla. Non era in programma, e Noim non approvava che si perdesse del tempo ma, man mano che ci avvicinavamo ai confini della capitale, cresceva in me un incontenibile desiderio dei conforti della religione.

Eravamo in viaggio più o meno da un’ora. Pioveva a dirotto ed un vento furioso si scatenava contro i parabrezza dei nostri carri da terra: bisognava guidare con prudenza. Le strade sassose erano sdrucciolevoli. Io sedevo, di cattivo umore, vicino a Noim che guidava uno dei carri; l’altro, con i nostri servi, ci seguiva dappresso. Si era di primo mattino e la città dormiva ancora. Era come se fossi in una sala chirurgica: ogni strada che attraversavamo era una parte della mia vita passata che mi veniva strappata via: i cortili del palazzo, le guglie della Casa di Giustizia, i grandi blocchi grigi dell’università, la Casa del Dio dove mio padre mi aveva portato al Comandamento, il Museo dell’Umanità che avevo così spesso visitato con mia madre per ammirare i tesori venuti dalle stelle. Traversando l’elegante zona residenziale che delimita il Canale Skangen gettai un’occhiata alla ricca dimora del Duca di Kongoroi: tra le lenzuola di seta della sua bella figlia avevo lasciato in una pozza viscosa la mia verginità, non molti anni prima. Avevo vìssuto in quella città tutta la vita e forse non l’avrei più rivista: il mio passato veniva lavato via come la terra delle fattorie di Salla sotto le dirotte piogge invernali. Fin da ragazzo avevo saputo che un giorno mio fratello sarebbe diventato Eptarca e che in città non ci sarebbe più stato posto per me, ma non avevo mai voluto ammetterlo. Mi dicevo: — Non accadrà presto, forse non accadrà affatto. — Adesso mio padre giaceva nella sua bara fatta col legno di Spine di Fuoco, mio fratello stava rannicchiato sotto il peso terribile della sua corolla e io fuggivo da Salla per salvare la vita; mi assalì una tale pietà di me stesso che non osai parlarne neppure a Noim, anche se è inutile avere un fratello di legame se non ci si confida con lui. Fu allora, mentre attraversavamo le ultime strade di Città Vecchia di Salla, che vidi una decrepita Casa del Dio e dissi a Noim: — Fermati a quell’angolo. Si vuole entrare a purificare l’anima.

Noim aveva fretta, non voleva perdere tempo e fece per tirare dritto.

— Vuoi negare il diritto divino? — gli chiesi con ardore. Soltanto allora, sbuffando contrariato, egli fermò il carro e lo fece indietreggiare in modo che io potessi andare nella Casa del Dio.

La facciata era scrostata, cadente. L’iscrizione sul portale era illeggibile e il pavimento antistante era in pezzi. Città Vecchia di Salla ha più di mille anni, e benché siano ormai in rovina, molti dei suoi edifici sono sempre stati abitati, fin da quando furono costruiti. La vita della zona finì, in effetti, quando uno degli Eptarchi medievali decise di trasferire la corte al palazzo dove sono cresciuto, sulla sommità della collina di Skangen, più a Sud. Di notte Città Vecchia si anima di cercatori di piacere, che girano di locale in locale inebriandosi di vino blu, ma in quelle ore caliginose la città era un posto orribile.

Bianche pareti di pietra mi fronteggiavano da ogni edificio: a Salla non costruiamo finestre, ma strette aperture, e là questa abitudine era portata all’estremo. Mi chiedevo se la Casa del Dio aveva un meccanismo di controllo che segnalasse il mio arrivo. Sì, l’aveva. Quando mi avvicinai alla porta della Casa del Dio, questa si dischiuse e un uomo scheletrico in abiti da confessore guardò fuori. Era brutto, per forza di cose. Chi ha mai visto un confessore dall’aspetto piacevole? È una professione per deformi. Quello aveva una pelle verdastra, butterata, un naso che sembrava un’appendice di gomma, e non ci vedeva da un occhio: un esemplare perfetto. Mi gettò un’occhiata viscida e si ritrasse circospetto: sembrava rimpiangere d’aver aperto la porta.

— La pace di tutti gli dèi sia su di te — dissi. — C’è bisogno del tuo aiuto.

Diede uno sguardo al mio costoso costume, alla mia giacca di cuoio, ai miei pesanti gioielli, studiò attentamente la mia figura ed il mio portamento e dovette concludere che ero qualche giovane bravaccio dell’aristocrazia che veniva a cercar guai nei bassifondi. — È troppo presto — mi disse, strozzato. — Vieni troppo presto a cercar conforto.

— Non respingerai uno che soffre!

— È troppo presto.

— Avanti, avanti, lascia che si entri. Hai di fronte un’anima in pena.

Cedette, com’era giusto, e contraendo nervosamente il suo lungo naso, mi fece entrare. Dentro c’era puzza di marcio. Il vecchio rivestimento di legno era impregnato d’umidità, i drappi erano consunti, il mobilio era roso dagli insetti, le luci erano fioche. La moglie del confessore, brutta quanto lui, diede un’occhiata, e scomparve. Egli mi guidò verso la cappella, una stanzetta angusta e umida oltre la zona dell’abitazione e mi lasciò lì in ginocchio davanti ad uno specchio crinato ed ingiallito, mentre accendeva le candele. Indossò i paramenti e finalmente venne verso il punto dove io ero inginocchiato.

Mi disse quanto voleva. Sussultai.

— La metà di quel che mi chiedi è sempre troppo. Ridusse la cifra di un quinto. Quando rifiutai ancora,

mi disse di cercarmi un altro confessore. Io non feci cenno d’andarmene ed egli finì col ridurre di malagrazia il suo prezzo ancora di un poco. Probabilmente era cinque volte quel che chiedeva di solito alla gente della Città Vecchia per il medesimo servizio; d’altronde lui sapeva perfettamente che avevo denaro, e io non potevo permettermi di star lì a mercanteggiare, con Noim che mi aspettava impaziente nel carro.

— D’accordo — dissi.

Subito dopo, mi portò il contratto. Ho già detto che noi di Borthan siamo sospettosi, ma ho detto anche che facciamo assegnamento soltanto sui contratti? Le parole sono aria. Prima di portarsi a letto una prostituta, anche un soldato prende degli accordi con lei e li mette sulla carta. La formula era la solita: il confessore mi garantiva che tutto quel che avrei detto sarebbe rimasto segreto, dato che la sua funzione era unicamente quella di intermediario tra me e il dio che avrei invocato, e io, da parte mia, mi impegnavo a non ritenerlo responsabile della conoscenza che aveva di me, a non convocarlo come testimone, a non indicarlo come mio alibi in qualche processo, eccetera, eccetera. Firmammo e ci scambiammo le copie. Gli diedi il suo denaro.

— Quale dio vuoi convocare?

— Il dio che protegge i viaggiatori.

Non chiamiamo mai i nostri dèi coi loro nomi ad alta voce.

Accese una candela del colore appropriato, rosa, e la pose davanti allo specchio. Da questo era inteso che il dio avrebbe ascoltato le mie parole.

— Guarda il tuo viso — disse il confessore. — Fissa gli occhi nei tuoi occhi.

Fissai lo specchio. Noi siamo soliti sfuggire la vanità e soltanto in queste occasioni religiose abbiamo modo di esaminare il nostro viso.

— Adesso apri la tua anima — ordinò il confessore; — lascia che vengano in superficie le pene, i sogni, i desideri, i dolori.

— È il figlio dell’Eptarca che fugge da! suo paese — cominciai, e immediatamente il confessore si fece attento, stupefatto di quel che dicevo. Anche senza staccare gli occhi dallo specchio, mi rendevo conto che si stava dando da fare per cercare di leggere la firma che avevo apposto al contratto. — La paura che ha del fratello — continuai, — lo spinge a partire, ma il suo animo è gonfio di pena.

Continuai così per un po’. Il confessore mi incoraggiava quando esitavo, e con l’arte del suo mestiere riusciva a farmi continuare; ben presto, comunque, non ci fu più bisogno della sua mezzaneria, perché le parole sgorgavano veloci. Gli dissi del desiderio che avevo di Halum, del turbamento che mi aveva dato il suo abbraccio, di come ero stato per mentire a Stirron, parlai dell’offesa che avrei fatto a mio fratello non partecipando alle sue nozze; confessai mille piccole colpe di autocompiacimento, di quelle che tutti commettiamo, ogni giorno.

Il confessore ascoltava.

Li paghiamo per ascoltare, nient’altro che per ascoltare, fino a quando ci siamo purificati e placati. Questa è la nostra santa comunione, togliere i rospi dal pantano e metterli nelle loro Case del Dio, assicurandoci la loro pazienza col denaro. Il Comandamento ci consente di dire tutto ad un confessore, anche le cose più disgustose, i sordidi desideri soffocati, le oscenità nascoste. Abbiamo il diritto di annoiarlo, un diritto che non abbiamo coi parenti di legame, perché stendiamo con lui un contratto che lo obbliga a star lì a sentirci, paziente come le montagne. Non dobbiamo preoccuparci dei suoi problemi, né di quel che pensa di noi, né del fatto che probabilmente preferirebbe fare qualcos’altro. Viene chiamato, prende il suo denaro e sta ad ascoltare quelli che hanno bisogno di lui. C’è stato un periodo in cui mi sembrava magnifico che ci fossero i confessori, che con la loro presenza ci liberavano dal dolore. Dovette passare molto, troppo tempo, prima che mi rendessi conto che sfogarsi con un confessore non è più piacevole che far l’amore con la propria mano: ci sono modi migliori di amare, ci sono modi più felici di confessarsi.

Ma allora non lo sapevo, e stavo lì rannicchiato vicino allo specchio a ricevere la miglior purificazione che il denaro mi potesse dare. Tutta la mia pena scivolava via, sillaba dopo sillaba, lentamente come il dolce liquore dei nodosi e repellenti alberi-carne che crescono nel Golfo di Sumar quando si batte sui loro fianchi irti di spine. Mentre parlavo, la magia delle candele mi affascinava: al tremolio luminoso mi persi nella superficie ricurva dello specchio. Ero in un incantesimo, il confessore era solo un’ombra confusa nel buio, irreale, insignificante. Ormai parlavo direttamente col dio dei viaggiatori, che mi avrebbe placato e guidato. Credevo veramente che fosse così. Non che immaginassi che esistesse veramente un posto dove gli dèi convocati venivano ad ascoltarci, ma a quel tempo avevo della religione un’idea astratta e metaforica e mi sembrava che tutto ciò fosse reale, reale come lo è il mio braccio destro.

Il mio flusso di parole s’interruppe e il confessore non cercò di rinnovarlo. Mormorò le parole dell’assoluzione. Era finito. Spense la candela del dio stringendola tra due dita e si alzò per spogliarsi dei paramenti. Io rimanevo in ginocchio, stanco e stravolto dopo la confessione, perso in meditazioni. Mi sentivo pulito, liberato da tutte le macerie che avevo nell’anima, e, nell’armonia del momento, mi accorgevo ben poco dello squallore che mi circondava. La cappella era un luogo magico e il confessore era infiammato di una divina bellezza.

— Su — disse toccandomi con la punta del sandalo. — Fuori. Inizia il tuo viaggio.

Il suono di quella voce stridula ruppe l’incanto. Mi alzai, scossi la testa per risvegliarmi da quella nuova luminosità, mentre il confessore quasi mi spingeva per il corridoio. Non aveva più paura di me, quel brutto omiciattolo, anche se io ero il figlio dell’Eptarca e potevo ucciderlo con uno sputo, perché ormai conosceva la mia codardia, la mia passione proibita per Halum, la mia meschinità, e il sapere tutto questo mi riduceva ai suoi occhi; chi si è appena confessato non può incutere timore al suo confessore.

Pioveva ancora più forte, quando lasciai l’edificio. Noim sedeva accigliato nel carro, con la fronte poggiata sul volante. Guardò in su e fece un cenno per farmi capire che avevo indugiato troppo nella Casa del Dio.

— Ti senti meglio, ora che hai vuotato la vescica? — mi chiese.

— Come?

— Voglio dire, la tua anima ha fatto una buona pisciata, lì dentro?

— Che frase sciocca, Noim!

— Si diventa blasfemi, quando la pazienza viene messa a dura prova.

Avviò il carro e partimmo. In breve raggiungemmo le vecchie mura di Città di Salla, presso la porta di Glin, ornata di torri. La porta era sorvegliata da quattro guerrieri insonnoliti e irritati, con indosso delle uniformi gocciolanti. Non ci prestarono attenzione. Noim oltrepassò il cancello e superammo un cartello che ci dava il benvenuto sulla Grande Strada di Salla. Città di Salla spariva pian piano dietro di noi; ci lanciammo a Nord, verso Glin.

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