35

Cominciai con l’avvertire, esaltato, il funzionamento del mio stesso corpo: il tud-tud del cuore, il battere del sangue contro le pareti delle arterie; i movimenti dei fluidi nel profondo delle orecchie, il danzare dei corpuscoli attraverso il mio campo visivo. Divenni enormemente ricettivo agli stimoli esterni, alle correnti d’aria che mi sfioravano le guance, allo strofinio di una piega della vestaglia sulla coscia, alla pressione del pavimento contro la pianta del mio piede. Sentii un rumore poco familiare, come di acqua che cadesse attraverso una gola distante. Persi contatto con ciò che mi circondava perché man mano che le mie percezioni si acuivano, la loro portata si restringeva, e, non riuscendo a distinguere nulla con chiarezza, finii per trovarmi nell’incapacità di riconoscere la forma della stanza. Era come se fossi in uno stretto tunnel, alla cui estremità si trovava Schweiz: oltre i lati del tunnel c’era solo nebbia. Ero spaventato, e cercai di schiarirmi le idee come quando si è bevuto troppo vino; ma più mi dibattevo per tornare ad una normale percezione delle cose, più la velocità del mutamento aumentava. Entrai in uno stato di luminosa ubriachezza, raggi brillanti di luce colorata mi passavano davanti alla faccia ed ero ormai sicuro d’aver bevuto alla sorgente di Digant. Avvertii una sensazione veloce, come di aria che si muovesse rapidamente contro le mie orecchie. Sentii un suono alto, come un gemito, che all’inizio era appena percettibile ma che continuò a salire in un crescendo fino a diventare come palpabile, a riempire la stanza, a farla traboccare; ma non era doloroso. La sedia sotto di me batteva e pulsava con un ritmo regolare che sembrava in armonia con qualche paziente pulsazione del nostro stesso pianeta. Poi, senza che mi fossi reso chiaramente conto d’aver varcato un confine, mi accorsi che da qualche tempo le sensazioni si erano raddoppiate: percepivo ora un secondo battito cardiaco, un secondo flusso di sangue entro le vene, un secondo gorgoglio di intestini. Ma non era un semplice raddoppiarsi, perché i ritmi erano differenti, e creavano complessi giochi sinfonici con i ritmi del mio corpo, percussioni così intricate che la mia mente veniva meno nel tentativo di seguirle. Cominciai a dondolarmi a tempo con quei ritmi, a battermi le mani sulle cosce, a schioccare le dita, e guardando attraverso il mio tunnel visivo vidi Schweiz che anche lui si dondolava, batteva le mani e schioccava le dita. Capii a chi appartenevano quei ritmi che ricevevo. Eravamo incatenati insieme. Cominciava a diventarmi difficile distinguere il battito del suo cuore da quello del mio ed a tratti, guardandolo dall’altra parte del tavolo, vedevo la mia stessa faccia, arrossata e distorta. Sentii che la realtà si disfaceva, che i muri e i freni crollavano: non riuscivo a conservare la percezione di Kinnall Darival come individuo, non pensavo in termini di lui e di me, ma di noi. Avevo perduto non solo me stesso, ma anche il concetto di identità.

Rimasi a lungo in quello stato, fino a quando cominciai a pensare che l’effetto della droga stesse scemando. I colori divennero meno brillanti, percepivo la stanza in modo più realistico, potevo di nuovo distinguere il corpo e la mente di Schweiz dai miei. Invece di sentirmi sollevato, adesso che il peggio era passato, mi sentivo deluso, dato che non avevo raggiunto quella fusione di anime che Schweiz mi aveva promesso.

Ma sbagliavo.

Il primo selvaggio irrompere della droga era cessato, sì: ma soltanto allora cominciavamo a raggiungere la vera comunione. Schweiz ed io eravamo separati e nello stesso tempo uniti. Era quello il vero rivelarsi. Vidi la sua anima spiegarsi di fronte a me come su di un tavolo, come se io potessi avvicinarmi a quel tavolo per esaminare le cose che c’erano sopra, prendere in mano quell’utensile, quel vaso, quegli ornamenti e studiarli da vicino quanto volevo.

Qui c’era il volto indistinto della madre di Schweiz, qui un pallido e turgido seno venato d’azzurro che terminava con un enorme capezzolo rigido. Qui c’erano delle rabbie di bambino, qui i ricordi della Terra. Attraverso gli occhi di Schweiz vidi la madre dei mondi maltrattata e incatenata, sfigurata e scolorata. La bellezza brillava attraverso quell’orrore. Questo era il posto dove era nato, questa città sconvolta, queste erano le strade vecchie diecimila anni, queste erano le rovine degli antichi templi. Qui c’era il nodo del primo amore, qui le delusioni e le partenze. Tradimenti, qui. Confidenze, qui. Crescita e cambiamenti. Corruzione e disperazione. Viaggi. Fallimenti. Seduzioni. Confessioni. Vidi i soli di cento mondi.

E passai attraverso gli strati dell’anima di Schweiz, incontrando i sudici strati dell’ingordigia, i massi dell’imbroglio, le pieghe oleose della malizia, le zolle fradice dell’opportunismo. Qui c’era l’incarnazione di se stesso. Qui c’era un uomo che viveva esclusivamente per se stesso.

Ma non mi tirai indietro, alla vista di quel lato oscuro di Schweiz.

Guardavo al di là di queste cose. Vidi la nostalgia, la fame di Dio nell’uomo, Schweiz solo su un piano lunare, i piedi piantati su un nero cornicione di roccia, sotto un cielo di porpora, annaspare, con le braccia disperatamente tese, senza riuscire a far presa su niente. Sì, poteva essere astuto e opportunista, ma sotto le sue malizie era vulnerabile, appassionato, puro. Non potevo giudicare Schweiz duramente. Egli era me, io ero lui. Ondate delle nostre personalità ci sommergevano. Se condannavo Schweiz, dovevo condannare anche Kinnall Darival. La mia anima si riempì d’affetto per lui.

Sentii che anche lui mi sondava. Non alzai barriere intorno alla mia mente, quando egli venne a sondarla. Attraverso i suoi occhi vidi quello che egli vedeva in me. La paura che avevo di mio padre, il timore verso mio fratello, l’amore per Halum, la fuga a Glin, la scelta di Loimel. I miei piccoli difetti e le mie piccole virtù. Tutto, Schweiz. Guarda, guarda, guarda. E tutto rimbalzava indietro, riflesso dalla sua anima ed io non trovavo penoso l’osservare. L’amore verso gli altri comincia con l’amore di se stessi, pensai improvvisamente.

In quell’istante il Comandamento cadde, andò in mille frantumi dentro di me.

Pian piano Schweiz ed io ci staccammo, anche se il contatto durò diverso tempo ancora, mentre la forza di quell’unione si andava affievolendo. Quando finalmente si ruppe, sentii una vibrazione, come se una corda troppo tesa si fosse spezzata. Rimanemmo seduti in silenzio. Avevo gli occhi chiusi, un senso di nausea in fondo allo stomaco e mi rendevo conto, come mai prima, dell’abisso che isola ciascuno di noi per sempre. Dopo un po’ guardai Schweiz dall’altra parte della stanza.

Egli mi guardava, mi aspettava. Aveva quel suo sguardo demoniaco, quel sorrisetto selvaggio, quel luccichio negli occhi; soltanto che ormai mi sembrava più un riflesso di gioia interna che uno sguardo di pazzia. Appariva più giovane. Il suo volto era ancora arrossato.

— Io ti amo — disse dolcemente.

Quelle parole inaspettate mi sconvolsero. Incrociai le mani sul volto, con le palme all’infuori, come per proteggermi.

— Cos’è che ti turba tanto? — chiese. — La grammatica o il significato delle mie parole?

— Tutt’e due.

— Può essere così terribile dire io ti amo?

— Non si è mai… non si sa come fare a…

— A reagire? A rispondere? — Schweiz rise. — Non voglio dire che ti amo fisicamente. Come se una cosa simile potesse essere così odiosa. Ma no. Intendo dire quel che ho detto, Kinnall. Sono stato dentro la tua mente e quel che ho visto mi è piaciuto. Ti amo.

— Parli in prima persona — gli ricordai. — Dici, io.

— Perché no? Devo negare me stesso persino ora? Andiamo, spezza le catene, Kinnall. So che lo vuoi fare. Pensi che ciò che ti ho detto sia osceno?

— È talmente strano tutto questo.

— Nel mio mondo queste parole sono strane e sono sante — disse Schweiz. — Qui invece sono mostruose. Non avere mai il permesso di dire Ti voglio bene, eh? Un intero pianeta che si nega un piacere così piccolo. Oh, no, Kinnall, no, no, no!

— Per favore — dissi debolmente. — Non ci si è ancora completamente abituati a quel che la droga ha fatto. Quando tu gridi in questo modo…

Ma non volle smetterla.

— Anche tu sei stato nel mio cervello — disse. — Che cosa ci hai trovato? Ero così disgustoso? Forza, parla, Kinnall. Ormai non hai più segreti con me. La verità, la verità!

— Lo sai di esserti dimostrato più ammirevole di quanto ci si aspettasse.

Schweiz ridacchiò. — Per me è stata la stessa cosa. Perché ora abbiamo paura l’uno dell’altro, Kinnall? Ti ho detto che ti amo! Siamo stati in contatto, abbiamo visto che esistevano delle zone di fiducia. Adesso dobbiamo cambiare, Kinnall. Tu più di me, perché tu hai più strada da percorrere. Avanti, avanti. Dà delle parole al tuo cuore. Dillo.

— Non è possibile.

— Dì: io.

— È difficile…

— Dillo. Non come un’oscenità, dillo come se tu amassi te stesso.

— Per favore.

— Dillo.

— Io — dissi.

— È stata una cosa così terribile? Andiamo, dunque, dimmi cosa provi per me. La verità, dal più profondo di te stesso.

— Una sensazione di calore… di affetto… di fiducia…

— D’amore?

— D’amore, sì.

— Allora dillo.

— Amore.

— Non è questo che voglio che tu dica.

— Che cosa, dunque?

— Una cosa che in duemila anni non è mai stata detta su questo pianeta, Kinnall. Ora dillo. Io…

— Io…

— Ti amo.

— Ti amo.

— Io ti amo.

— Io… ti… amo.

— È un inizio — disse Schweiz. Il sudore colava sul suo volto e sul mio. — Cominciamo col riconoscere che possiamo amare. Cominciamo col riconoscere che siamo capaci d’amare. E allora cominciamo ad amare. Eh? Cominciamo ad amare.

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