17

Fuori della porta nordoccidentale di Glain (perché era lì che mi avevano portato i miei passi) un pesante camion venne rombando verso di me, e passando con le ruote in una pozzanghera di fango semigelato, mi spruzzò abbondantemente. Mi fermai per scuoter via dai calzoni quella roba ghiacciata; anche il camion si fermò e il guidatore balzò a terra esclamando: — Sono necessarie delle scuse, qui. Non era inteso certo inondarvi in questo modo!

Quella cortesia mi meravigliò tanto che mi ersi in tutta la mia altezza e rilasciai le smorfie che mi deturpavano le sembianze. Evidentemente il guidatore mi aveva preso per un vecchio debole e storpio: rimase stupefatto dinnanzi alla mia trasformazione e scoppiò a ridere forte. Io non sapevo cosa dire. Mentre rimanevo lì muto, a bocca aperta, l’uomo dichiarò: — C’è un posto, sul camion, se dovete andare, o se ne avete voglia.

Mi venne una luminosa fantasia: mi avrebbe portato fino alla costa, là sarei salito su un vascello mercantile diretto a Manneran, e in quella felice terra tropicale mi sarei affidato al padre della mia sorella di legame, ponendo così fine a tutti i miei tormenti.

— Dove siete diretto? — chiesi.

— Verso Sud Ovest, nelle montagne.

Era ben lontano da Manneran. Accettai ugualmente il passaggio. Non mi offrì un contratto di responsabilità definite, ma lasciai correre. Per qualche minuto non parlammo: mi accontentavo di ascoltare il rumore delle ruote sulla strada coperta di neve e di pensare alla distanza sempre maggiore che mi separava dalla polizia di Glain.

— Siete straniero? — chiese alla fine.

— Sì. — Temendo che si allarmasse sapendo che ero di Salla, decisi, un po’ in ritardo, di adottare la dolce e musicale parlata dei meridionali, che avevo imparato da Halum, sperando che non si ricordasse che fino a quel momento avevo parlato con accento sallano. — Viaggiate con un nativo di Manneran, che trova il vostro inverno strano e insopportabile.

— Cosa vi ha portato a Nord?

— La sistemazione del patrimonio della propria madre, che era di Glin.

— Gli avvocati vi hanno trattato bene?

— Tutto il suo denaro si è sciolto nelle loro mani, non è rimasto nulla.

— La solita storia. Siete a corto di soldi, eh?

— Completamente — ammisi.

— Bene, bene, si può capire la vostra situazione, perché ci si è trovati. Forse può esser fatto qualcosa per voi.

Mi resi conto dal suo modo di parlare, dalla sua riluttanza ad usare la costruzione passiva di Glin, che anche lui doveva essere straniero. Girandomi verso di lui dissi: — Si è nel giusto se si pensa che nemmeno voi siete di queste parti?

— Sì.

— Il vostro accento è poco familiare. Qualche provincia occidentale?

— Oh, no, no.

— Salla, forse?

— Manneran — disse e scoppiò a ridere di cuore; riparò lui adesso alla mia vergogna e alla mia confusione dicendo: — Il vostro accento è buono, amico, ma non è necessario che vi sforziate ancora.

— Non si sente l’inflessione di Manneran, nel vostro linguaggio — mormorai.

— Si è vissuti tanto a lungo a Glin — disse, — che la voce è diventata una zuppa di accenti.

Non l’avevo ingannato neppure per un momento, ma non aveva nemmeno tentato di mettere in chiaro la mia identità, e sembrava non curarsi affatto di chi ero e di dove venivo. Chiacchierammo per un po’. Mi disse che possedeva una segheria nella parte nordoccidentale di Glin, a metà strada, sui fianchi degli Huishtor, dove crescono gli alti alberi-miele dagli aghi gialli: prima che molto tempo fosse passato, mi stava offrendo un posto di tagliaboschi nel suo campo. La paga era misera, disse, ma si respirava aria pulita, non si vedevano mai ufficiali governativi e cose come passaporti e certificati di stato non avevano alcuna importanza.

Ovviamente, accettai. La sua proprietà era in un posto splendido sopra uno scintillante lago di montagna che non gelava mai perché era alimentato da una corrente calda la cui sorgente si diceva fosse profonda sotto le Terre Basse Bruciate. I tremendi picchi ricoperti di neve degli Huishtor incombevano su di noi e non lontano c’era il Passo di Glin, attraverso il quale si può andare da Glin alle Terre Basse Bruciate, passando per un freddissimo angolo delle Terre Basse Gelate.

C’era un centinaio d’uomini a lavorare lì; erano rozzi, sboccati, gridavano continuamente «io» e «me» senza vergogna, ma erano onesti e grandi lavoratori. Non avevo mai avvicinato gente di quel tipo, prima. Il mio piano era di rimanere tutto l’inverno, mettere da parte la paga e andare a Manneran non appena avessi avuto denaro sufficiente per pagarmi il viaggio. Di tanto in tanto, giungevano al campo notizie dal mondo esterno e così venni a sapere che le autorità di Glin stavano cercando un giovane principe di Salla che si credeva fosse impazzito e stesse vagabondando chissà dove a Glin: l’Eptarca Stirron si augurava che l’infelice giovane venisse riportato al più presto possibile in patria per le cure mediche di cui aveva così disperatamente bisogno. Sospettando che le strade e i porti fossero sorvegliati, prolungai la mia permanenza sulle montagne fino alla primavera e, per maggior prudenza, rimasi anche l’estate. Alla fine avevo passato lassù più di un anno.

Fu un anno che mi cambiò molto. Lavoravamo duro, abbattevamo alberi enormi sotto qualsiasi tempo, strappavamo via i rami, li portavamo alla segheria. La giornata era lunga, faticosa e fredda, ma la notte c’era vino caldo in abbondanza e ogni dieci giorni ci portavano dalla città un plotone di donne a divagarci. Il mio peso aumentò di più della metà, tutto di muscoli potenti, e diventai tanto alto da sorpassare il più alto dei tagliaboschi. Mi prendevano in giro per la mia statura. La mia barba divenne foltissima, i piani del mio viso mutarono e le rotondità della giovinezza mi lasciarono. Trovavo i tagliaboschi più piacevoli dei cortigiani tra i quali avevo vissuto. Pochi di loro sapevano leggere, dell’etichetta non conoscevano nulla, ma erano di buon cuore, pieni di spirito, perfettamente a loro agio nei corpi. Non vorrei che pensaste che erano peccaminosamente aperti e inclini alle confidenze perché non esitavano a dire «io» e «me»: rispettavano il Comandamento nel modo più assoluto, e probabilmente erano più riservati della gente colta, su certe cose.

Sembrava però che fossero più gai di quelli che usavano passivi e impersonali, e forse fu proprio la mia permanenza tra di loro a piantare in me quel seme di ribellione, quell’idea della fondamentale ingiustizia del Comandamento che il Terrestre Schweiz doveva più tardi portare a piena fioritura.

Non parlai del mio rango e della mia origine. Potevano capire da soli, dalla mia pelle delicata, che non avevo mai lavorato duramente in vita mia ed il mio modo di parlare mi classificava come un uomo educato, anche se non necessariamente di alta nascita. Non diedi spiegazione sul mio passato, comunque, e nessuno me ne chiese. Tutto quel che dissi fu che ero di Salla, dato che l’avrebbero comunque capito dal mio accento; da parte loro, mi garantirono il segreto della mia storia. Il mio capo, credo, cominciò a sospettare molto presto che io dovevo essere il principe fuggitivo che Stirron ricercava, ma non mi domandò mai nulla. Per la prima volta, nella mia vita, dunque avevo un’identità mia, che non aveva nulla a che fare col mio stato regale. Non ero più Lord Kinnall, secondo figlio dell’Eptarca, ma Darival, il forte tagliaboschi che veniva da Salla. Imparai molte cose da questa trasformazione. Non ero mai stato uno dei tanti giovani nobili fanfaroni e spaccamontagne: essere un secondo figlio instilla una certa umiltà anche in un aristocratico. Ma non potevo non sentirmi diverso dalla gente comune. Mi avevano ossequiato, si erano inchinati davanti a me, mi avevano servito e viziato; mi avevano sempre parlato dolcemente, con gesti di rispetto sin da quando ero bambino. Dopotutto ero figlio di un Eptarca, cioè un re, dato che gli Eptarchi sono sovrani ereditari e perciò fanno parte della processione dei re dell’umanità, una dinastia che risale allo stabilirsi dell’uomo su Borthan e, oltre, al di là delle stelle, alla Terra stessa, alle perdute e dimenticate dinastie delle sue antiche nazioni fino ai primi capi mascherati e dipinti delle caverne. Ed io facevo parte di quella linea, ero un uomo di sangue reale, superiore agli altri per le circostanze della nascita. Ma in quel campo di tagliaboschi tra le montagne, capii che i re non sono altro che uomini collocati più in alto. Non sono gli dèi che li consacrano, ma la volontà degli uomini, e gli uomini possono anche privarli del loro nobile rango: se Stirron, in seguito ad un’insurrezione, venisse spodestato e al suo posto divenisse Eptarca quel ripugnante confessore di Città Vecchia di Salla, non entrerebbe forse questi a far parte della mistica processione dei re mentre Stirron verrebbe relegato nella polvere? E non diverrebbero i figli del confessore di nobile sangue, come io ero stato, anche se il loro padre per la maggior parte della sua vita non era stato nessuno e il loro nonno ancor meno? Lo so, lo so, i saggi direbbero che gli dèi hanno baciato il confessore, elevato lui e tutta la sua progenie e li hanno consacrati per sempre; ma mentre abbattevo alberi sui fianchi degli Huishtor vedevo la regalità con occhi più lucidi, ed essendo stato io stesso destituito dagli eventi, mi resi conto che non ero altro che un uomo tra gli uomini, e che tale ero sempre stato. Quel che avrei fatto di me stesso sarebbe dipeso dalle mie doti naturali e dalle mie ambizioni, non da un rango che avevo soltanto per combinazione.

Quella scoperta e la nuova coscienza di me stesso che mi aveva portato erano così preziose che la permanenza tra le montagne cominciò a sembrarmi non più un esilio ma una vocazione. Il sogno di andare a cercare a Manneran una vita facile mi lasciò e, benché avessi da parte denaro più che sufficiente per pagarmi il viaggio, non avevo alcun desiderio di partire. Non era soltanto la paura dell’arresto che mi tratteneva fra i tagliaboschi, era l’amore per l’aria smagliante, chiara e fredda degli Huishtor, per il mio nuovo arduo lavoro e per gli uomini duri e franchi che avevo intorno. Perciò rimasi: lasciai passare l’estate e poi l’autunno, salutai il nuovo inverno e non avevo pensiero di partire.

Sarei ancora lì, se non fossi stato costretto a fuggire. In un disgraziato pomeriggio d’inverno, col cielo che sembrava ferro e la minaccia di una tormenta, portarono su dalla città le prostitute per la programmata notte di svago. Quella volta c’era tra loro una nuova venuta e il suo modo di parlare dichiarava che veniva da Salla. La sentii subito, non appena la donna entrò ancheggiando nella nostra sala di svago; avrei voluto sgusciar via, ma lei mi vide, sussultò e si mise a gridare: — Guardate là. Quello è di certo il nostro principe scomparso!

Risi, cercai di persuadere gli altri che la donna era ubriaca o pazza, ma il rossore delle mie guance mi accusava, e i tagliaboschi presero a guardarmi in modo diverso. Un principe? Un principe? Che storia era quella? Bisbigliavano tra loro toccandosi col gomito e ammiccando. Sentendomi in pericolo, reclamai la donna per me, la condussi da parte e quando fummo soli tornai a dirle che si sbagliava: non sono un principe, dicevo, sono solo un comune tagliaboschi. Non voleva saperne. — Lord Kinnall camminava nella processione al funerale dell’Eptarca — disse. — Lo si è visto con questi occhi. Tu sei lui! — Più io protestavo, più lei si convinceva, non c’era verso di farle cambiare idea. Anche quando l’abbracciai aveva un tale timore ad aprirsi al figlio dell’Eptarca che il suo sesso rimase asciutto ed io le feci male nel penetrarla.

Quella notte, sul tardi, quando la baldoria fu finita, venne da me il mio capo: era solenne e preoccupato. — Stasera una delle ragazze ha detto delle strane cose sul tuo conto — mi disse. — Se sono vere, sei in pericolo perché quando quella ragazza tornerà al villaggio spargerà la notizia e la polizia non ci metterà molto ad arrivare.

— È necessario che si parta, dunque? — chiesi.

— A te la scelta. Stanno ancora cercando quel principe: se tu sei lui, qui nessuno ti può proteggere contro le autorità.

— Allora bisogna partire. All’alba…

— Subito — disse. — Mentre la ragazza è ancora qui addormentata.

Mi premette in mano del denaro di Glin, molto di più di quanto non me ne dovesse; io raccolsi le mie poche cose e uscimmo insieme. Era una notte senza luna e il vento d’inverno era selvaggio. Alla luce delle stelle, vidi scintillare la neve che cadeva. Il mio capo guidò in silenzio giù per la discesa, oltrepassò ai piedi dei monti il villaggio da cui venivano le prostitute e sbucò su una strada secondaria che seguimmo per qualche ora. All’alba eravamo nel centro-sud di Glin, non molto lontano dal fiume Huish. Li si fermò, alla fine, in un villaggio che si chiamava Klaek, un posto invernale di piccole capanne di pietra grigia circondate da ogni parte da campi ricoperti di neve. Mi lasciò nel camion ed entrò nella prima capanna uscendone un momento dopo in compagnia di un uomo magro che ci riversò addosso un torrente di istruzioni gesticolando senza posa. Con l’aiuto delle sue indicazioni, trovammo la strada del posto che il mio capo cercava, l’abitazione di un certo agricoltore di nome Stumwil. Questo Stumwil era un uomo dai capelli bianchi, più o meno della mia statura, con gli occhi di un blu slavato ed un timido sorriso. Forse era parente del mio capo, o, più probabilmente, era in debito con lui; non l’ho mai chiesto. In ogni caso, aderì prontamente alla sua richiesta ed accettò di tenermi lì. Il mio capo mi abbracciò e ripartì nella neve; non l’ho mai più visto. Spero che gli dèi siano stati cortesi con lui quanto lui lo è stato con me.

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