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Divenimmo una sola entità, loro dieci e noi due. In principio ci furono l’assurda sensazione di fluttuare nell’aria, l’acuirsi della percezione, la perdita dell’equilibrio, le luci celestiali, i suoni bizzarri: poi la ricezione di altri battiti di cuore, dei ritmi di altri corpi, lo sdoppiarsi, il sovrapporsi delle diverse coscienze; poi venne la dissoluzione dell’io: noi, che eravamo stati dodici, diventammo uno. Fui immerso in un mare di anime e mi sentii morire. Morii. Fui trascinato nel Centro di Tutte le Cose. Non avevo modo di sapere se ero Kinnall, il figlio dell’Eptarca, o Schweiz, l’uomo della vecchia Terra, o i custodi del fuoco, i capi, i sacerdoti, le ragazze, la sacerdotessa. Perché erano tutti inestricabilmente confusi in me ed io in loro. E quel mare di anime era un mare d’amore. Come avrebbe potuto essere diversamente? Ciascuno di noi era l’altro. L’amore di se stessi ci legava l’uno all’altro, tutti a tutti. L’amore di sé è l’amore per gli altri, l’amore per gli altri è amore di sé. Ed io amavo. Capivo, come mai prima, perché Schweiz mi avesse detto «Io ti amo» dopo che furono svaniti gli effetti della droga, quella prima volta: quella frase assurda, così oscena a Borthan, in ogni modo così incongrua per un uomo che parla ad un altro uomo. Dissi ai dieci sumariani «Io vi amo», non a parole, perché non avevo parole che potessero capire e perché se pure avessi parlato nella mia lingua ed essi avessero potuto comprendermi si sarebbero risentiti: per la mia gente «Io ti amo» è un’oscenità, non c’è niente da fare. Io vi amo. Ero sincero ed essi accettarono il dono del mio amore. Io che ero parte di loro. Io che poco prima mi sentivo superiore e li vedevo come divertenti selvaggi in adorazione di fuochi rituali nei boschi. Attraverso di loro sentivo i suoni della foresta, l’alzarsi e l’abbassarsi delle maree e, certo, il pietoso amore della grande terra-madre che giace sospirando sotto i nostri piedi e che ci ha donato la droga-radice che guarisce le nostre anime divise. Capii cosa significa essere sumariano e vivere là dove i due piccoli fiumi si congiungono. Scoprii come si può fare a meno di carri da terra e di barche ed essere lo stesso uomini civili. Scoprii che razza di mezze anime avevano fatto di se stessi, in nome della santità, quelli di Velada Borthan e come si poteva arrivare a completarsi, seguendo i Sumariani. Tutto questo non venne a me con parole o immagini, ma in un flusso di conoscenza ricevuta, conoscenza che entrò in me e divenne parte di me in un modo che non si può né descrivere né spiegare. Mi sembra già di sentirvi dire che devo essere bugiardo o pigro, per offrirvi, come ho fatto, la mia esperienza in modo così misero. Ma non si può dire a parole ciò che non è mai stato a parole. Lo si può fare soltanto in modo approssimativo, ed il migliore dei nostri sforzi non può essere altro che una distorsione, una goffa immagine della realtà; perché io dovrei trasformare le sensazioni in parole, buttarle giù come posso, e poi vi dovreste prendere dalla pagina le parole e convertirle nel sistema di percezioni che la vostra mente usa abitualmente, quale che sia. Ad ogni stadio di questa trasmissione, un livello di densità scivolerebbe via finché a voi rimarrebbe soltanto l’ombra di quello che accadde a me nella radura di Sumara Borthan. Così, come potrei spiegare? Eravamo disciolti l’uno nell’altro, eravamo disciolti in amore. Noi, che non avevamo un linguaggio comune, arrivammo alla comprensione totale delle nostre identità separate. Quando infine la droga lasciò la sua presa, parte di me rimase in loro e parte di loro rimase in me. Se volete saperne di più, se volete avere un’idea di quel che significhi essere liberati dalla prigione del proprio cranio, se volete assaggiare l’amore per la prima volta nella vostra vita, io vi dico: non cercate spiegazioni nelle parole, portate la fiasca alle labbra. Portate la fiasca alle labbra.

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