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Vagai stordito verso sudest, lungo il Corno d’Oro, fino a quando arrivai al labirinto di botteghe e mercati e taverne presso il luogo in cui un giorno sarebbe sorto il ponte di Calata e dove ancor oggi c’è un labirinto di botteghe e mercati e taverne. Avanzai come uno zombi, senza meta, per quelle stradette aggrovigliate e caotiche. Non vedevo nulla, e non pensavo: mi limitavo a mettere un piede davanti all’altro; e continuai a camminare fino a quando, all’inizio del pomeriggio, il fato mi afferrò ancora una volta per i fondelli.

Entrai casualmente in una taverna, un edificio a due piani di legno non dipinto.

Alcuni mercanti ingollavano il vino di metà giornata. Mi lasciai cadere pesantemente davanti a un tavolo traballante, in un angolo libero, e fissai la parete pensando a Euprepia, la moglie (incinta) di Leone Dücas.

Comparve una bella sguattera e suggerì: — Un po’ di vino?

— Sì. Il più forte.

— Anche un po’ d’agnello arrosto?

— Non ho fame, grazie.

— Qui facciamo dell’ottimo agnello.

— Non ho fame — ripetei. Le fissai cupamente le caviglie. Erano molto belle.

Guardai su fino ai polpacci, dopodiché le gambe scomparivano tra le pieghe della semplice veste. Si allontanò e tornò con una fiasca di vino. Quando la posò davanti a me, lo scollo dell’abito le si scostò dalla gola: io sbirciai dentro e vidi ondeggiare due seni pallidi, pieni, dalla punta rosea. Allora finalmente la guardai in faccia.

Sembrava la sorella gemella di Pulcheria.

Gli stessi occhi scuri e maliziosi. La stessa impeccabile carnagione olivastra. Le stesse labbra piene, lo stesso naso aquilino. La stessa età, intorno ai diciassette anni.

Le differenze tra quella ragazza e la mia Pulcheria stavano nell’abbigliamento, nel portamento e nell’espressione. Quella ragazza era vestita rozzamente; non possedeva l’eleganza e il portamento aristocratico di Pulcheria; e aveva un certo risentimento imbronciato, l’espressione di una donna che è costretta a vivere in condizioni sociali inferiori alle sue e ne è indignata.

Io dissi: — Sembri quasi Pulcheria!

Lei rise, aspramente. — Che razza di discorso idiota!

— Una ragazza che conosco, che ti somiglia moltissimo. Si chiama Pulcheria.

— Sei pazzo o soltanto ubriaco? Io sono Pulcheria. Il tuo giochetto non mi piace, straniero.

— Tu… Pulcheria?

— Certamente.

— Pulcheria Dücas?

Mi sghignazzò in faccia. — Dücas, hai detto? Adesso so che sei pazzo. Pulcheria Photis, moglie di Hiraklis Photis il taverniere!

— Pulcheria… Photis… — ripetei io, stordito. — Pulcheria… Photis… moglie di Hiraklis… Photis…


Si chinò, più vicino a me, offrendomi una seconda volta la visione di quei seni miracolosi. Non più altezzosa ma preoccupata, disse a bassa voce: — Posso capire dai tuoi abiti che sei un personaggio importante. Cosa cerchi, qui? Hiraklis ha fatto qualcosa che non doveva?

— Sono qui solo per bere un po’ di vino — risposi. — Ma ascolta, dimmi una cosa: sei tu la Pulcheria nata Botaniates?

Mi guardò sbalordita. — Lo sai!

— È vero?

— Sì — disse la mia adorata Pulcheria, e si lasciò cadere accanto a me sulla panca.

— Ma non sono più una Botaniates. Da cinque anni, ormai… Da quando Hiraklis… quello sporcaccione di Hiraklis… da quando ha… — Agitatissima, bevve un sorso del mio vino. — Tu chi sei?

— Gheorghios Markezinis, dell’Epiro.

Quel nome non significava nulla, per lei.

— Cugino di Themistoklis Metaxas.

Pulcheria si lasciò sfuggire un’esclamazione. — Lo sapevo che eri un personaggio importante! Lo sapevo! — Con un grazioso tremito, domandò: — Cosa vuoi, da me?

Gli altri avventori cominciavano a guardarci. Io dissi: — Possiamo andare a parlare da qualche parte? In privato?

I suoi occhi assunsero un’espressione saputa. — Un momento solo — disse, e uscì dalla taverna. Sentii che chiamava qualcuno, vociando come una pescivendola; dopo un momento entrò nello stanzone una ragazza lacera sui quindici anni. Pulcheria le disse: — Anna, bada tu a tutto. Io ho da fare. — E a me: Possiamo andare di sopra.

Mi condusse in una camera da letto, al primo piano dell’edificio, e sprangò meticolosamente la porta dietro di noi.

— Mio marito — disse, — è andato a Calata a comprare la carne, e non tornerà che tra due ore. Mentre quel porco schifoso è via, non mi dispiace guadagnare un bisante o due con un bel forestiero.

La veste cadde: rimase nuda e incandescente davanti a me. Il suo sorriso era di sfida, e diceva che lei aveva conservato la sua personalità interiore qualunque fosse la degradazione che altri le avevano inflitto. Gli occhi le brillavano di entusiasmo concupiscente.

Io restai abbagliato davanti a quei seni alti e sodi coi capezzoli che s’inturgidivano visibilmente, davanti a quel ventre liscio e piatto col cespuglio scuro, davanti a quelle cosce muscolose, davanti a quelle braccia tese e invitanti.

Si buttò sul rozzo giaciglio. Fletté le ginocchia e allargò le gambe.

— Due bisanti? — propose.

Pulcheria trasformata in una prostituta da taverna? La mia dea? La mia adorata?

— Perché esiti? — domandò. — Vieni, sali a bordo, metti un altro paio di corna a quel grasso cane di Hiraklis. Cose c’è che non va? Ti sembro brutta?

— Pulcheria… Pulcheria… Ti amo, Pulcheria…

Ridacchiò, stridula. Agitò i calcagni.

— Allora vieni!

— Tu eri la moglie di Leone Dücas — mormorai. — Vivevi in un palazzo marmoreo, e indossavi vesti di seta, e giravi per la città scortata da un’occhiuta dama di compagnia. E l’imperatore era presente alla tua festa, e poco prima dell’alba sei venuta da me e ti sei data a me… ed era tutto un sogno, Pulcheria, era tutto un sogno.

— Sei matto — disse lei. — Ma un bel matto, e ho voglia di averti fra le gambe e ho voglia anche dei tuoi bisanti. Vieni vicino. Sei timido? Ecco, metti la mano qui, senti come diventa calda Pulcheria, come freme…

Ero irrigidito dal desiderio, ma sapevo che non potevo toccarla. Non potevo toccare quella Pulcheria, quella femmina volgare, svergognata, lubrica, quella creatura affascinante che si dimenava e si contorceva impaziente sul giaciglio, davanti a me.

Presi la mia borsa e la vuotai sulla sua nudità, rovesciandole bisanti d’oro sull’ombelico e sull’inguine, versandoglieli sui seni. Pulcheria strillò, sbalordita. Si levò a sedere arraffando freneticamente le monete, con i seni ansimanti e ondeggianti e gli occhi accesi.

Io fuggii.

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