XXIX

Era bellissima, come sono bellissime le giovani donne degli affreschi minoici.

Bruna, molto bruna, con i capelli neri, la carnagione olivastra, gli occhi scuri. Aveva l’energia di un’ascendenza contadina. Non mostrava i seni come la baffuta segretaria alla moda, ma la camicetta sottile non nascondeva molto. Erano seni alti e tondi. I fianchi larghi. Era lussureggiante, fertile, abbondante. Credo che avesse ventitré anni, forse ventiquattro.

Fu concupiscenza a prima vista. La sua bellezza, la sua semplicità, il suo calore, m’incantarono all’istante. Avvertii la ben nota sensazione di formicolio allo scroto e di tensione ai glutei. Provai l’impulso di strapparle gli abiti e di sprofondare nel suo caldo e aggrovigliato cespuglio nero.

Non era un desiderio incestuoso alla Metaxas. Era una reazione innocente, del tutto animale.

In quella precipitosa marea di libidine non mi avvenne neppure per un attimo di considerarla mia nonna. La vedevo soltanto come una donna giovane e fantasticamente desiderabile. Due attimi più tardi ricordai a livello emotivo chi era, e mi afflosciai immediatamente.

Era nonna Passilidis. E nonna Passilidis io la ricordavo bene.

L’andavo a trovare nel campeggio dei cittadini anziani, presso Tampa. Era morta quando io avevo quattordici anni, nel ’49, e sebbene allora avesse passato di poco la settantina mi era sempre sembrata terribilmente vecchia e decrepita: una donnina rattrappita, avvizzita, paralitica, eternamente vestita di nero. Solo gli occhi — mio Dio, quegli occhi scuri, limpidi, caldi, splendenti! — mi avevano dato l’idea che un tempo poteva essere stata un essere umano sano e vitale.

Nonna Passilidis aveva ogni genere di malattie: soprattutto malanni femminili (prolasso dell’utero e non so cos’altro), e poi disturbi renali e tutto il resto. Aveva subito una decina o più di trapianti d’organi; ma non era servito a nulla, e per tutta la mia infanzia aveva continuato a declinare inesorabilmente. Sentivo sempre parlare di qualche nuova crisi che la portava alla tomba, povera vecchia!

E lì c’era la stessa povera vecchia, miracolosamente liberata dal fardello degli anni.

E lì c’ero io, che mentalmente m’insinuavo tra le cosce della madre di mia madre.

Che vile empietà, che un uomo debba viaggiare a ritroso nel tempo e albergare simili pensieri!

La reazione della giovane signora Passilidis nei miei confronti fu altrettanto potente, sebbene non fosse per nulla libidinosa. Per lei, il sesso cominciava e finiva col suo sindaco. Mi fissò, non con desiderio ma con sbalordimento, e infine esclamò:

— Konstantinos, ma sembra te!

— Davvero? — fece il sindaco Passilidis. Non l’aveva notato.

Sua moglie ci sospinse entrambi verso lo specchio del soggiorno, ridacchiando emozionata. Le morbide masse dei suoi seni premettero contro di me, e io cominciai a sudare. — Guardate! — esclamò lei. — Vedete? Sembrate due fratelli!

— Sorprendente — disse il sindaco Passilidis.

— Una coincidenza incredibile — dissi io. — Lei ha i capelli più folti e io sono un po’ più alto, ma…

— Sì! Sì! — Il sindaco batté le mani. — Può darsi che siamo imparentati?

— Impossibile — dichiarai solennemente. — La mia famiglia è di Boston. Un vecchio ceppo del New England. Comunque è davvero sorprendente. E sicuro di non aver avuto qualche antenato a bordo della Mayflower?

— No, a meno che a bordo ci fosse un maggiordomo greco.

— Ne dubito.

— Anch’io. Sono greco puro per parte paterna e materna, da molte generazioni.

— Mi piacerebbe parlarne un po’ con lei, se posso — dissi io, disinvolto. — Per esempio, vorrei sapere…

Proprio in quel momento una bambina di cinque anni, insonnolita e completamente nuda, uscì da una delle camere da letto. Si piantò senza vergogna davanti a me e mi domandò chi ero. Che tesoro, pensai. Quel sederino sodo, quella fessurina rosea…

Come sono sempre pulite le bambine, quando sono nude! Prima che la pubertà le guasti.

Passilidis disse con fierezza: — Questa è mia figlia Diana.

Una voce di tuono scandì nel mio cervello: — TU NON SCOPRIRAI LA NUDITÀ DI TUA MADRE!

Distolsi lo sguardo, distrutto, e nascosi la mia confusione con un attacco di tosse.

Le implumi grandi labbra della piccola Diana mi sfolgoravano nella mente. Quasi intuendo che giudicavo indecorosa la nudità della piccola, Katina Passilidis si affrettò a infilarle un paio di mutandine.

Ero ancora sconvolto. Passilidis, perplesso, stappò una bottiglia di retsina. Ci sedemmo sul balcone, nella fulgida luce meridiana. Sulla strada, alcuni scolaretti salutarono il sindaco a gran voce, agitando le braccia. La piccola Diana mi si avvicinò per farsi coccolare: le scarruffai i morbidi capelli, le schiacciai il nasino, e mi sentii molto molto strano.

Mia nonna offrì un eccellente pranzo a base di agnello bollito e di pastitsio.

Bevemmo una bottiglia e mezzo di retsina. Finii d’interrogare il sindaco sulla politica e passai ai suoi antenati. — La sua famiglia è sempre vissuta a Sparta? — domandai.

— Oh, no rispose. — La famiglia di mio nonno è venuta qui da Cipro, un secolo fa. Cioè, per parte di padre. Per parte di madre sono ateniese da molte generazioni.

La famiglia Markezinis? — dissi.

Mi diede un’occhiata strana. — Ma sì! Come fa a…

L’ho scoperto leggendo notizie sul suo conto — mi affrettai a dichiarare.

Passilidis lasciò correre. Ora che parlava della sua famiglia diventò espansivo (forse era effetto del vino), e mi fornì i dettagli genealogici. — La famiglia di mio padre risiedeva a Cipro almeno da mille anni — disse. — Esisteva già un Passilidis all’arrivo dei Crociati. D’altra parte gli antenati di mia madre si sono trasferiti ad Atene solo nel secolo diciannovesimo, dopo la sconfitta dei turchi. Prima vivevano in Shqiperi.

— Shqiperi?

— Albania. Si sono stabiliti là nel tredicesimo secolo, quando i latini hanno preso Costantinopoli. E vi sono rimasti sotto i serbi, sotto i turchi, sotto Skanderbeg il ribelle, conservando sempre la loro eredità greca malgrado tutte le difficoltà.

Rizzai l’orecchio. — Lei ha parlato di Costantinopoli. Può rintracciare fin là i suoi antenati?

Passilidis sorrise. — Conosce la storia bizantina?

— Un po’ — risposi.

— Forse saprà che nell’anno 1204 i crociati si sono impadroniti di Costantinopoli e l’hanno governata per diverso tempo come un regno latino. I nobili erano fuggiti, dando origine a vari staterelli bizantini: uno in Asia Minore, uno sul Mar Nero, e uno a occidente, in Albania. I miei antenati hanno seguito Michele Angelo Comneno in Albania, per non sottomettersi al dominio dei crociati.

— Capisco. — Avevo ripreso a tremare. — E il cognome di famiglia? Era Markezinis anche allora?

— Oh, no! Markezinis è un cognome greco tardo! A Bisanzio eravamo della famiglia Dücas.

Eravate? — ansimai. Era come se un tedesco proclamasse di avere sangue Hohenzollern, o un inglese si vantasse di essere un Plantageneto. — Dücas!

Davvero?

Avevo visto gli sfarzosi palazzi della famiglia Dücas. Avevo visto quaranta superbi Dücas sfilare vestiti di stoffe d’oro per le vie di Costantinopoli, per celebrare l’ascesa al trono imperiale del loro cugino Costantino. Se Passilidis era un Dücas, i o ero un Dücas.

— Naturalmente — proseguì il sindaco, — era una grande famiglia, e credo che noi rappresentassimo un ramo minore. Comunque si può essere fieri di discendere da un simile casato.

— Certamente. Saprebbe dirmi il nome di qualcuno dei suoi antenati bizantini?

Dovetti dirlo come se avessi avuto intenzione di andare a verificare la prima volta che mi fossi recato a Bisanzio, e infatti era così; ma Passilidis non poté sospettarlo, perché i viaggi nel tempo non erano stati ancora inventati.

Lui aggrottò la fronte e domandò: — Le serve per l’articolo che deve scrivere?

— No, non proprio. Sono soltanto curioso.

— Mi sembra che lei conosca abbastanza la storia di Bisanzio. — Lo sgomentava che un barbaro americano sapesse riconoscere il nome di una famosa famiglia bizantina.

Io dissi: — Una conoscenza casuale. L’ho studiato a scuola.

— Purtroppo non saprei dirle neppure un nome. Sono informazioni che non sono pervenute fino a noi. Ma forse un giorno, quando mi sarò ritirato dalla politica, farò ricerche nei documenti antichi…

Mia nonna ci versò altro vino, e io lanciai un’occhiata furtiva e colpevole ai suoi seni pieni e ondeggianti. Mia madre mi si arrampicò sulle ginocchia, trillando. Mio nonno scosse il capo e disse: — È davvero sorprendente, quanto lei mi somiglia.

Posso farle una fotografia?

Mi chiesi se era contrario ai regolamenti della Pattuglia temporale, e decisi che probabilmente lo era. Ma non vedevo il modo di respingere educatamente una richiesta tanto innocente.

Mia nonna andò a prendere una macchina fotografica. Passilidis e io ci mettemmo in posa a fianco a fianco e lei ci fotografò: una volta per lui e una volta per me.

Estrasse le foto dalla macchina appena furono sviluppate, e le osservammo attentamente.

— Come fratelli — continuava a ripetere mia nonna. — Come fratelli!

Distrussi la mia foto appena uscii dall’appartamento. Ma credo che chissà dove, tra le carte di mia madre, ci sia una vecchia e sbiadita fotografia bidimensionale che mostra suo padre giovane, accanto a un uomo un po’ più giovane che gli somiglia moltissimo e che probabilmente mia madre riteneva uno zio dimenticato. Forse quella fotografia esiste ancora. Preferisco non cercarla.

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