XXVIII

Come ho detto, Metaxas trasformò la mia vita. Cambiò il mio destino in molti modi, non tutti positivi. Ma una delle cose positive che fece per me fu di darmi sicurezza. Il suo carisma e il suo chutzpah mi si appiccicarono addosso. Imparai da lui l’arroganza.

Fino a quel momento ero stato un giovanotto modesto e discreto, almeno quando ero in compagnia dei miei maggiori. Soprattutto nel Servizio temporale ero stato delicato e candido. Mi ero stillato parecchio il cervello, e senza dubbio ne ero uscito ancor più ingenuo. Mi comportavo così perché ero giovane e avevo molto da imparare: non solo su me stesso, il che capita a tutti, ma anche sul funzionamento del Servizio temporale. Fino allora avevo conosciuto parecchi uomini che erano più anziani e intelligenti e furbi e corrotti di me, e li avevo trattati con deferenza: Sam, Dajani, Jeff Monroe, Sid Buonocore, Capistrano. Ma adesso ero con Metaxas, il quale era il più anziano e intelligente e furbo e corrotto di tutti; e lui mi lanciò, per cui smisi di orbitare intorno agli altri e mi avventurai in una traiettoria tutta mia.

In seguito scoprii che questa era una delle funzioni di Metaxas nel Servizio temporale. Si assume in carico giovani Corrieri novellini, e trasfonde in loro la spavalderia di cui hanno bisogno per diventare operatori di successo.

Quando ritornai dal mio giro con Metaxas non temevo più la prima uscita da solo come Corriere. Ero pronto. Metaxas mi aveva mostrato che un Corriere può essere una specie di artista che costruisce un ritratto del passato per i suoi clienti; ed era proprio ciò che volevo diventare. I rischi e le responsabilità non mi turbavano più.

Protopopolos disse: — Quando tornerai dalla licenza, guiderai sei persone nel giro da una settimana.

— Salto la licenza! Sono pronto a partire anche adesso!

— Be’, non lo sono i tuoi turisti. Comunque la legge stabilisce che devi riposare tra un viaggio e l’altro. Quindi riposati. Ci vediamo qui fra due settimane, Jud.

Così andai in vacanza, contro la mia volontà. Ero tentato di accettare l’invito di Metaxas e di andare alla sua villa nel 1105, ma poi pensai che per un po’ avesse avuto abbastanza della mia compagnia. Mi baloccai con l’idea di accodarmi a una gita temporale a Hastings o a Waterloo; o addirittura alla Crocefissione, per contare i Dajani. Ma superai anche questo. Ora che ero in procinto di guidare io stesso una visita non volevo essere guidato da qualcun altro, almeno per il momento. Avevo bisogno di essere più saldo nella mia nuova sicurezza, prima di ricadere sotto il predominio di un altro Corriere.

Bighellonai nell’Istanbul del tempo attuale per tre giorni, senza far niente di speciale. Mi trattenni soprattutto nel quartier generale del Servizio, giocando a scacchi stocastici con Kolettis e Melamed che in quel periodo erano anche loro in licenza. Il quarto giorno saltai su un mezzo locale per Atene. Non compresi perché ci andavo se non quando arrivai.

Ero sull’Acropoli quando scoprii qual era la mia missione. Vagavo tra i ruderi, tenendo a bada i venditori di diapositive olografiche e i ciceroni, quando un globo pubblicitario aleggiò verso di me. Si soffermò a un metro di distanza, all’altezza degli occhi, irradiando un guizzante bagliore verde che aveva lo scopo di attrarre la mia attenzione, e disse: — Buon pomeriggio. Ci auguriamo che la visita all’Atene del ventunesimo secolo le piaccia. Ora che ha visto i ruderi pittoreschi, le piacerebbe vedere il Partenone com’era realmente? Vedere la Grecia di Socrate e Aristofane?

L’ufficio locale del Servizio temporale è in via Aeolou, proprio di fronte alla Posta centrale, e…

Mezz’ora dopo entrai nel quartier generale di via Aeolou, mi feci riconoscere come Corriere in ferie e mi abbigliai per un balzo su per la linea.

Ma non per la Grecia di Socrate e Aristofane.

Ero diretto verso la Grecia del prosaico anno 1997, quando Konstantinos Passilidis era stato eletto sindaco di Sparta.

Konstantinos Passilidis era il padre di mia madre. Stavo per cominciare la ricerca del mio seme ancestrale.

Vestito degli abiti inamidati e fastidiosi della fine del secolo ventesimo, e con le tasche piene di fruscianti e colorate banconote fuori corso, balzai indietro di sessant’anni e presi la prima navetta per Sparta. Il servizio di navetta era una novità in Grecia nel 1997, e io vissi nel terrore mortale di un incidente per tutto il tragitto; ma l’allineamento resse e io sbarcai a Sparta tutto intero.

Sparta era straordinariamente orribile.

La Sparta attuale, naturalmente, non è una discendente diretta dell’antica città-stato militarista che causò tanti guai ad Atene. Quella Sparta era tramontata gradualmente, ed era completamente svanita in epoca medioevale. La Sparta nuova era stata fondata all’inizio del secolo XIX, sul sito dell’antica. Ai tempi di nonno Passilidis era una città di circa 80 mila abitanti, cresciuta rapidamente dopo l’installazione (intorno al 1980) della prima centrale elettrica greca a fusione.

Era formata da centinaia di palazzoni identici, tutti grigi, disposti in file perfettamente diritte. Ognuno era alto dieci piani, ornato a ogni piano da balconi giallo-limone, ed era affascinante più o meno quanto un carcere. A un’estremità di quella città-caserma sorgeva la cupola lucente della centrale elettrica; all’altra c’era un quartiere di taverne, banche, e uffici municipali. Era incantevole, se vi piace la brutalità.

Scesi dalla navetta e mi avviai a piedi verso il centro. Per le strade non si vedevano terminali d’informazioni (penso che la rete, lì, non fosse ancora entrata in servizio), ma non faticai a trovare il sindaco Passilidis. Mi fermai in una taverna per bere un ouzo e domandai: — Dove posso trovare il sindaco Passilidis? — E una decina di premurosi spartani mi accompagnarono al municipio.

La sua segretaria era una ragazza bruna sulla ventina, con i seni grossi e un’ombra di baffi. Il suo corpetto stile rinascita minoica era fatto apposta per distrarre l’attenzione di un uomo dalle imperfezioni del volto. Dimenandomi sotto il naso quei globi carnosi dalle punte rosee, disse con voce rauca: — In cosa posso esserle utile?

— Vorrei parlare col sindaco Passilidis. Sono di un quotidiano americano. Stiamo preparando un articolo sui dieci giovani più dinamici della Grecia, e riteniamo che il signor Passilidis…


Non sembrava convincente neppure a me. Restai lì a fissare le gocce di sudore sulle bianche montagnole del suo seno, aspettando che mi mandasse via. Ma lei abboccò senza esitazioni, e dopo una brevissima attesa venni scortato nell’ufficio di Suo Onore.

— È un piacere, averla qui — disse in perfetto inglese mio nonno. — Non vuole accomodarsi? Posso offrirle un martini? O se preferisce una paglia…

Ero impietrito. In preda al panico. Non gli strinsi neppure la mano quando me la porse.

La vista di Konstantinos Passilidis mi terrorizzò.

Naturalmente non avevo mai visto mio nonno. Era stato ucciso da un teppista abolizionista nel 2010, molto tempo prima che nascessi io: era una delle tante vittime dell’«anno degli assassinii».

I viaggi nel tempo non mi erano mai parsi tanto spaventosamente reali come in quel momento. Giustiniano nel palco imperiale all’ippodromo non era nulla in confronto a Konstantinos Passilidis che mi riceveva nel suo ufficio a Sparta.

Aveva passato da poco i trent’anni: era un ragazzo prodigio dei suoi tempi. Aveva i capelli scuri e ricciuti, che cominciavano appena a ingrigire alle tempie, e portava un paio di baffetti corti e un anello all’orecchio sinistro. Ciò che mi terrorizzava era la nostra rassomiglianza fisica. Avrebbe potuto essere mio fratello maggiore.

Dopo un istante interminabile mi scossi dalla paralisi. Lui era un po’ perplesso, credo, ma cortesemente mi offrì ancora un rinfresco; Io rifiutai, dicendo che non ne avevo l’abitudine, e in un modo o nell’altro trovai la spudoratezza di fargli l’«intervista».

Parlammo della sua carriera politica e delle cose meravigliose che si proponeva di compiere per Sparta e per la Grecia. Quando stavo per pilotare la conversazione su argomenti personali, sulla sua famiglia e così via, mio nonno guardò l’orologio e disse: — È ora di pranzo. Vuole essere mio ospite?

Ciò che aveva in mente era una tipica siesta mediterranea: chiudere l’ufficio per tre ore e andarsene a casa. Partimmo con la sua piccola auto elettrica, guidata da lui stesso. Viveva in uno dei palazzoni grigi, come ogni normale cittadino: quattro stanze molto semplici al quinto piano.

— Vorrei farle conoscere mia moglie disse. — Katina, questo è un giornalista americano, Jud Elliott.

Guardai mia nonna.

Mia nonna guardò me.

Restammo entrambi a bocca aperta. Eravamo entrambi sbalorditi.

Загрузка...