XLVIII

Tuttavia, sebbene avessimo dimostrato adeguatamente il principio filosofico, ricominciammo la dimostrazione mezz’ora dopo. La reiterazione è l’anima della comprensione.

Poi giacemmo a fianco a fianco, dolcemente raggianti. Era il momento di offrire alla mia compagna uno spinello e di condividere un tipo di comunione diverso, ma naturalmente lì era impossibile. Ne sentivo molto la mancanza.

— È molto diverso, nel posto da dove vieni? — mi domandò Pulcheria. — Voglio dire la gente, come si veste, come parla.

— Molto diverso.

— Sento in te una grande stranezza, Gheorghios. Anche il modo in cui ti sei comportato a letto. Non che io sia un’esperta di queste cose, capisci. Tu e Leone siete stati gli unici uomini, per me.

— Davvero?

Le sfolgorarono gli occhi. — Mi hai presa per una puttana?

— Be’, naturalmente no, ma… — M’impappinai. — Al mio paese — dissi, alla disperata, — una ragazza prende molti uomini, prima di sposarsi. Nessuno ci trova da ridire. È l’usanza.

— Qui no. Qui siamo ben sorvegliate. Io mi sono sposata a dodici anni: ho avuto poco tempo, per le libertà. — Aggrottò la fronte, si levò a sedere e si sporse su di me per guardarmi negli occhi. I suoi seni ondeggiarono stuzzicanti sopra la mia faccia.

— Le donne sono davvero così liberali, al tuo paese?

— Davvero, Pulcheria.

— Ma siete bizantini! Non siete barbari del nord! Come può essere lecito che una donna si prenda tanti uomini?

— È la nostra consuetudine — risposi, in modo poco convincente.

— Forse non vieni davvero dall’Epiro — osservò Pulcheria. — Forse provieni da un luogo più lontano. Te lo ripeto, Gheorghios: mi sembri molto strano.

— Non chiamarmi Gheorghios. Chiamami Jud — dissi arditamente.

— Jud?

— Jud.

— Perché dovrei chiamarti così?

— È il mio nome interiore. Il mio vero nome, quello che sento. Gheorghios è soltanto… ecco, un nome che uso.

— Jud. Jud. Non ho mai sentito questo nome. Tu vieni da una strana terra! È così!

Le rivolsi un sorriso sfingeo. — Ti amo — dissi, e per cambiare argomento le mordicchiai i capezzoli.

— Così strano — mormorò lei. — Così diverso. Eppure mi sono sentita attratta verso di te fin dal primo momento. Sai: da molto tempo sognavo di essere così perversa, ma non ho mai osato. Oh, ho ricevuto proposte, decine di proposte, ma mi sembrava che non ne valesse mai la pena. E poi ti ho visto, e ho sentito in me questo fuoco, questa… questa sete. Perché? Dimmi perché. Non sei né più né meno attraente di molti degli uomini ai quali avrei potuto darmi, eppure sei l’unico. Perché?

— Era destino — risposi. — Come ti ho già detto. Una forza irresistibile, che ci attirava attraverso…

… i secoli…

— … il mare — conclusi, incerto.

— Tornerai ancora da me? — domandò Pulcheria.

— Sempre e sempre e sempre.

— Troverò qualche modo per incontrarci. Leone non lo saprà mai. Passa tanto tempo alla banca (sai, è uno dei direttori), e negli altri suoi affari, e con l’imperatore: quasi non si accorge di me. Io sono uno dei suoi tanti graziosi gingilli.

C’incontreremo, Jud, e conosceremo spesso il piacere insieme, e… — Gli occhi scuri balenarono. — E forse mi darai un figlio.

Sentii i cieli squarciarsi e tempestarmi di folgori.

— Cinque anni di matrimonio e non ho figli — proseguì Pulcheria. — Non capisco. Forse ero troppo giovane, all’inizio: ero così giovane… Ma adesso, niente.

Niente. Dammi un figlio, Jud. Leone te ne ringrazierà… voglio dire: ne sarà felice, lo crederà suo… Tu hai qualcosa dei Dücas, forse negli occhi: non ci saranno guai. Pensi che abbiamo fatto un figlio, stanotte?

— No — dissi.

— No? Come puoi esserne sicuro?

— Lo so — risposi. Accarezzai la sua pelle serica. Ma lasciami venti giorni senza la pillola e potrei seminare in te figli in abbondanza. E aggrovigliare il tessuto del tempo in modo inestricabile. Bis-bis-multi-bisnonno di me stesso? Sono il seme del mio seme? Il tempo si è incurvato su se stesso per produrmi? No. Non era possibile: avrei dato a Pulcheria la passione, non la maternità. — E l’aurora — sussurrai.

— Farai bene ad andartene. Dove posso mandarti messaggi?

— A casa di Metaxas.

— Bene. C’incontreremo ancora tra due giorni, sì? Penserò io a tutto.

— Sarò tuo tutte le volte che vorrai.

— Fra due giorni. Ma adesso vai. Ti accompagnerò all’uscita.

— Troppo rischioso. I servitori saranno già alzati. Va’ nella tua stanza, Pulcheria.

Posso uscire da solo.

— Ma… impossibile…

— Conosco la strada.

— Davvero?

— Lo giuro — dissi.

Dovetti insistere, ma alla fine la convinsi a risparmiarsi il rischio di farmi uscire dal palazzo. Ci baciammo ancora, e lei indossò la vestaglia, e io la presi per un braccio e l’attirai a me, e la lasciai andare, e lei uscì. Contai sessanta secondi. Poi regolai il mio timer e balzai sei ore su per la linea. La festa era in pieno svolgimento.

Attraversai tranquillamente il palazzo, evitando la sala dove il precedente me stesso — non ancora ammesso allo splendido corpo di Pulcheria — parlava con l’imperatore Alessio. Lasciai il palazzo dei Dücas, inosservato. Fuori, nel buio, accanto alle mura lungo il Corno d’Oro, regolai di nuovo il timer e mi smistai giù per la linea, fino al 1204. Mi affrettai a rientrare nella locanda dove avevo lasciato i miei turisti addormentati. Vi arrivai meno di tre minuti dopo la mia partenza per l’epoca di Pulcheria… e mi pareva che fossero trascorsi parecchi giorni.

Tutto bene. Avevo vissuto la mia notte incandescente di passione, la mia anima era purificata dalle bramosie, ed eccomi lì, ritornato al mio lavoro, e nessuno ne sapeva niente. Controllai i letti.

I coniugi Haggins: sì.

I coniugi Gostaman: sì.

La Pistil e Bilbo: sì.

Palmyra Gostaman: sì.

Conrad Sauerabend: sì? No.

Conrad Sauerabend…

Niente Sauerabend. Sauerabend non c’era. Il suo letto era vuoto. Nei tre minuti della mia assenza, Sauerabend se l’era squagliata.

Dove?

Avvertii le prime fitte di panico.

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