XX

Il punto di partenza per la rotta di Bisanzio è quasi sempre lo stesso: la piazza davanti ad Haghia Sophia. Noi dieci, un po’ impacciati nelle nostre tuniche, vi fummo accompagnati in bus, e arrivammo verso le dieci del mattino. I turisti più convenzionali, che erano lì solo per vedere Istanbul, si aggiravano a frotte tra la grande cattedrale e la vicina Sultan Ahmed. Capistrano e io ci assicurammo che tutti avessero i timer e che si fossero cacciati bene in testa i regolamenti dei viaggi nel tempo.

Il nostro gruppo comprendeva un paio di graziosi giovani di Londra, due insegnanti tedesche, e due coppie di anziani coniugi americani. Avevano fatto tutti un corso ipnopedagogico di greco bizantino, e per un paio di mesi l’avrebbero parlato correntemente come tutte le rispettive lingue madri, ma Capistrano e io dovevamo ripetere continuamente agli americani e a una delle tedesche di ricordarsi di parlarlo.

Balzammo.

Provai il disorientamento momentaneo che si avverte sempre quando si va su per la linea. Poi mi orientai, e scoprii che avevo lasciato Istanbul e avevo raggiunto Costantinopoli.

Costantinopoli non mi deluse.

La sporcizia era sparita. I minareti erano spariti. Le moschee erano sparite. I turchi erano spariti.

L’aria era azzurra e dolce e limpida. Eravamo nella grande piazza, l’Augusteum, davanti ad Haghia Sophia. Alla mia destra, al posto degli squallidi palazzi grigi, vidi campi aperti. Davanti a me, dove avrebbe dovuto esserci la fantasia azzurra della moschea di Sultan Ahmed, vidi un agglomerato di bassi palazzi marmorei. Da un lato si levava il fianco dell’ippodromo. Figure dalle vesti colorate, che parevano uscite da mosaici bizantini, si aggiravano nella piazza spaziosa.

Mi girai per dare la prima occhiata ad Haghia Sophia senza i minareti.

Haghia Sophia non c’era.

Al suo posto vidi le rovine carbonizzate di una basilica rettangolare, sconosciuta. I muri perimetrali erano ancora in piedi, ma in equilibrio precario; il tetto non c’era.

Tre soldati dormicchiavano all’ombra della facciata. Mi sentii sperduto.

Capistrano disse con voce monotona: — Siamo risaliti di sedici secoli su per la linea. L’anno è il 408; siamo venuti ad assistere alla processione battesimale del figlio dell’imperatore Arcadio, che un giorno regnerà col nome di Teodosio II. Dietro di noi, sul sito della famosa cattedrale di Haghia Sophia, possiamo vedere le rovine della basilica originaria, costruita durante il regno dell’imperatore Costanzo, figlio di Costantino il Grande, e aperta al culto il 15 dicembre 360. L’edificio è stato incendiato il 20 giugno 404, durante una rivolta, e come vedete la ricostruzione non è ancora iniziata. La chiesa verrà ricostruita trent’anni giù per la linea dall’imperatore Teodosio II, e la vedrete alla nostra prossima sosta. Venite da questa parte.

Lo seguii come in sogno: mi sentivo un turista come le nostre otto pecorelle.

Faceva tutto Capistrano. Ci fornì notizie superficiali ma ampie sugli edifici marmorei davanti a noi, che costituivano il nucleo iniziale del Grande Palazzo. Non riuscivo a riconciliare ciò che vedevo con le piante che avevo imparato a memoria a Harvard; ma naturalmente la Costantinopoli che avevo studiato io era la metropoli più grande del periodo postgiustinianeo: ora invece stavo nella città ai suoi albori. Ci avviammo verso l’entroterra, allontanandoci dalla zona del palazzo, in un quartiere residenziale dove le case dei ricchi, con le facciate prive di finestre, si mescolavano alla rinfusa con i tuguri dai tetti di canne dove abitavano i poveri. Poi uscimmo sulla Mese, la grande strada processionale, fiancheggiata da botteghe e porticati: quel giorno, per festeggiare il battesimo del principe, era parata di drappi di seta bordati d’oro.

C’erano tutti i cittadini di Bisanzio, ammassati per la strada in attesa del grande corteo. Le botteghe di generi alimentari facevano affari d’oro: sentivamo l’odore del prosciutto alla griglia e dell’agnello al forno, e occhieggiavamo i chioschi carichi di formaggi, noci, frutti sconosciuti. Una delle ragazze tedesche disse che aveva fame: Capistrano rise e comprò agnello allo spiedo per tutti, pagando con lucide monete di rame che avrebbero entusiasmato un numismatico. Un uomo con un occhio solo ci vendette il vino di una grande anfora fresca, facendoci bere dal mestolo. Appena gli altri venditori delle vicinanze si accorsero che eravamo buoni clienti si affollarono a decine intorno a noi, offrendoci souvenir, dolci canditi, uova sode dall’aria un po’ vecchiotta, ciotole di noci salate, vassoi di vari organi animali, globi oculari e altri globi. Quello era il vero passato arcaico: quell’assortimento di merci in vendita e il lezzo di sudore e aglio che esalava dalla folla dei venditori ambulanti ci dicevano che eravamo molto lontani dal 2059.

— Stranieri? — domandò un uomo barbuto, che vendeva piccole lucerne d’argilla.

— Da dove venite? Cipro? Egitto?

— Spagna — disse Capistrano.

Il venditore di lampade ci scrutò sgomento, come se avessimo affermato di venire da Marte. — Spagna — ripeté. — Spagna! Meraviglioso! Fare un simile viaggio per vedere la nostra città… — Esaminò dettagliatamente il nostro gruppo, facendo un rapido inventario e fissando gli occhi sulla bionda e pettoruta Clotilde, la più voluttuosa delle due insegnanti tedesche. — La tua schiava è sassone? — mi domandò, tastando la mercanzia attraverso la veste sciolta di Crotilde. — Ah, molto bella! Sei un uomo di gusto! — Clotilde, con un gemito, si staccò dalla coscia le dita dell’uomo. Capistrano, imperterrito, lo abbrancò, spingendolo contro il muro di una bottega con tanta violenza che una decina di lampade d’argilla rotolarono sul pavimento e s’infransero. Il venditore ambulante sbatté le palpebre; ma Capistrano disse qualcosa sottovoce, gelidamente, e rivolse all’uomo uno sguardo terribile. — Non avevo cattive intenzioni protestò il venditore. Credevo che fosse una schiava! — Mormorò in fretta le sue scuse e si allontanò zoppicando. Clotilde tremava: era difficile capire se per l’indignazione o l’eccitazione. Lise, la sua compagna, sembrava un po’ invidiosa. Nessun venditore bizantino aveva mai palpato lei!

Capistrano sputò. — Potevano essere guai. Dobbiamo star sempre in guardia: un innocuo pizzicotto può portare rapidamente a complicazioni catastrofiche.

I venditori ambulanti si allontanarono da noi. Ci facemmo largo tra le prime file della folla, verso la strada. Mi parve che molte facce in quella calca non fossero bizantine, e mi chiesi se erano viaggiatori nel tempo. Verrà il momento, pensai, in cui noi venuti da giù per la linea affolleremo il passato fino a soffocarlo. Riempiremo noi stessi tutti i nostri ieri, e ne estrometteremo i nostri antenati.

— Eccoli! — gridarono mille voci.

Le trombe squillarono in chiavi diverse. In lontananza comparve un corteo di nobili, col volto glabro e i capelli corti, alla moda romana, poiché quella era ancora una città non meno romana che greca. Tutti erano vestiti di seta bianca (importata a caro prezzo dalla Cina, per mezzo delle carovane, mormorò Capistrano, dato che i bizantini non avevano ancora rubato il segreto della manifattura della seta); e il sole del tardo pomeriggio, che illuminava ad angolo acuto le belle tuniche, conferiva al corteo un tale splendore di bellezza che perfino Capistrano ne era commosso, sebbene avesse già visto quella scena. I grandi dignitari avanzarono lentamente, lentamente.

— Sembrano fiocchi di neve — sussurrò un uomo dietro di me. — Fiocchi di neve!

Quei grandi impiegarono quasi un’ora a sfilarci davanti. Venne il crepuscolo. Dopo i sacerdoti e i duchi di Bisanzio c’erano le truppe imperiali, con le candele accese che brillavano nell’imbrunire come un’infinità di stelle. Poi venivano altri sacerdoti che portavano medaglioni e icone; e poi un principe di sangue reale, il quale reggeva l’infante grassottello e gorgogliante che un giorno sarebbe stato il potente imperatore Teodosio II; e poi l’imperatore regnante in persona, Arcadio, abbigliato di porpora.

L’imperatore di Bisanzio! Lo ripetei a me stesso migliaia di volte. Io, Judson Daniel Elliott III, stavo a testa nuda sotto il cielo bizantino, là nel 408 d.C, mentre l’imperatore mi passava davanti con un fruscio di vesti! Anche se il monarca era solo il mediocre Arcadio, insignificante interpolazione tra i due Teodosii, io tremavo.

Vacillavo. La pavimentazione pareva ondeggiare sotto i miei piedi. — Si sente male?

— bisbigliò ansiosa Clotilde. Trattenni il respiro e supplicai l’universo di fermarsi.

Ero sopraffatto, e da Arcadio. E se fosse stato Giustiniano? Costantino? Alessio?

Sapete com’è. Finii col vedere anche quei grandi. Ma ormai avevo visto troppe cose su per la linea, e sebbene fossi impressionato non mi sentii sommerso dalla soggezione. La cosa che ricordo più chiaramente di Giustiniamo è che starnutì: ma quando penso ad Arcadio, sento squillare le trombe e vedo le stelle turbinare nel cielo.

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