55 Scritto nella Profezia

Rand entrò lentamente nella sala e avanzò tra le grandi colonne di granito levigato che ricordava d’avere visto nei sogni. Il silenzio riempiva le ombre, eppure lui sentiva un richiamo. Per un istante vide davanti a sé un lampo, una luce che respinse le tenebre, un faro. Avanzò sotto la grande cupola e vide ciò che cercava: Callandor, appesa a mezz’aria, elsa in giù, in attesa soltanto della mano del Drago Rinato. Girando su se stessa, la spada riduceva in schegge la scarsa luce e di tanto in tanto lampeggiava come di luce propria. Chiamava lui. Aspettava lui.

"Se sono davvero il Drago Rinato” pensò Rand. “E non soltanto un povero pazzo con la maledizione d’incanalare il Potere, un semplice burattino manovrato da Moiraine e dalla Torre Bianca."

«Prendila, Lews Therin. Prendila, Kinslayer.»

Rand si girò di scatto verso la voce. Vide avanzare dall’ombra fra le colonne un uomo alto, dai capelli corti e bianchi. Aveva l’impressione di conoscerlo, ma non sapeva chi fosse, quest’uomo in giubba di seta rossa con righe nere lungo le ampie maniche e brache nere infilate in stivali dalle decorazioni in argento. L’aveva visto nei sogni.

«Le hai chiuse in gabbia» disse Rand. «Egwene, Nynaeve, Elayne. Nei miei sogni. Continui a chiuderle in gabbie e a farle soffrire.»

Con un gesto l’uomo scacciò l’obiezione. «Contano meno di niente» replicò. «Forse un giorno, quando saranno addestrate, non ora. Sono sorpreso che t’interessassero tanto da diventarmi utili. Ma sei sempre stato uno sciocco... sempre pronto a seguire l’impulso del cuore, anziché a cercare il potere. Sei giunto troppo presto, Lews Therin. Ora devi fare ciò che non sei ancora pronto a fare, altrimenti morirai. Sapendo d’avere lasciato nelle mie mani queste donne a cui vuoi bene.» Parve aspettare con ansia una reazione. «Intendo usarle ancora, Kinslayer. Serviranno me, serviranno il mio potere. E in questo modo soffriranno più di quanto non abbiano mai sofferto prima.»

Alle spalle di Rand, Callandor mandò un lampo, gli lanciò contro la schiena un impulso di calore.

«Chi sei?»

«Non ti ricordi di me, vero?» replicò l’uomo dai capelli candidi, con un’improvvisa risata. «Nemmeno io mi ricordo di te, guardando il tuo aspetto attuale. Un ragazzotto di campagna, con un astuccio da flauto sulla schiena. Possibile che Ishamael abbia detto la verità? Ha sempre mentito, se la menzogna gli faceva guadagnare un briciolo di vantaggio. Non ricordi niente, Lews Therin?»

«Un nome!» pretese Rand. «Chi sei?»

«Chiamami Be’lal» rispose il Reietto; si accigliò, nel vedere che Rand non reagiva al nome. «Prendila!» soggiunse, indicando la spada. «Un tempo cavalcammo in battaglia a fianco a fianco; per questo ti offro una possibilità. Una misera possibilità di salvare te stesso, di salvare quelle tre donne che intendo tenere come animali da compagnia. Prendi la spada, contadino. Forse basterà per aiutarti a sopravvivere.»

Rand rise. «Credi di spaventarmi con facilità, Reietto? Ba’alzamon stesso mi ha dato la caccia. Credi che ora avrò paura di te? Credi che mi prostrerò davanti a un Reietto, quando ho rinnegato il Tenebroso, gridandoglielo in faccia?»

«Ah, la pensi così?» replicò piano Be’lal. «Non sai proprio niente.» All’improvviso impugnava una spada, la cui lama era intagliata in fuoco nero. «Prendi Callandor! Prendila! Da tremila anni, mentre ero imprigionato, aspetta qui. Aspetta te. Uno dei ter’angreal più potenti mai fabbricati. Prendila e difenditi, se puoi!»

Si mosse verso Rand, come per spingerlo verso Callandor; ma Rand alzò le mani... era colmo di Saidin, il dolce flusso del Potere, il nauseante disgusto della contaminazione... e impugnava una spada di fiamma rossa, una spada col marchio dell’airone sulla lama infuocata. Assunse la prima delle posizioni imparate da Lan e passò da una all’altra, come se danzasse. Il taglio della seta. L’acqua scorre a valle. Vento e pioggia. La lama di fuoco nero cozzò contro quella di fuoco rosso, con una pioggia di scintille, con il fragore di metallo incandescente fatto a pezzi.

Con movimenti sciolti, Rand tornò in posizione di guardia e cercò di non mostrare l’incertezza che all’improvviso avvertiva: anche sulla lama nera c’era un airone, così scuro da risultare quasi invisibile. Già una volta aveva affrontato un avversario che impugnava una lama marchiata a quel modo, di semplice acciaio, ed era sopravvissuto a stento. Sapeva di non avere diritto al marchio dei mastri spadaccini: l’airone era sulla spada avuta dal padre... e quando lui pensava a una spada nel proprio pugno, pensava a quella. Una volta aveva abbracciato la morte, come gli aveva insegnato il Custode; ma questa volta, lo sapeva, la morte sarebbe stata finale. Be’lal era migliore di lui, più forte, più rapido. Un vero mastro spadaccino.

Il Reietto rise, divertito, mulinando la lama; il fuoco nero ruggì, come rinfocolato dal rapido passaggio nell’aria. «Un tempo eri spadaccino più abile, Lews Therin» disse, beffardo. «Ricordi quando prendemmo quell’umile giocattolo chiamato spada e imparammo a uccidere con esso, come gli antichi tomi dicevano che un tempo aveva fatto l’uomo? Ricordi almeno una di quelle battaglie disperate, almeno una delle tue terribili sconfitte? No, naturalmente. Non ricordi niente, vero? Questa volta non hai appreso abbastanza. Questa volta, Lews Therin, ti ucciderò.» Divenne ancora più beffardo. «Forse, se prendi Callandor, farai durare la tua vita un po’ più a lungo. Un poco.»

Avanzò lentamente, quasi per dare a Rand il tempo di girarsi, di correre a impugnare Callandor, la Spada Intoccabile. Ma Rand aveva ancora forti dubbi. Solo il Drago Rinato poteva toccare Callandor. Lui aveva lasciato che lo chiamassero il Drago Rinato, per svariati motivi che a quel tempo parevano non dargli scelta. Ma era davvero il Drago Rinato? Se fosse corso a toccare Callandor, nella vita reale e non in sogno, avrebbe incontrato un muro invisibile, mentre Be’lal era libero di colpirlo alle spalle?

Affrontò il Reietto, con la spada che conosceva, la spada di fuoco creata da Saidin. E fu spinto indietro. Con La foglia cadente parò La seta bagnata. Con Il gatto danza sul muro parò Il cinghiale corre a valle. Il fiume erode la sponda gli costò quasi la testa e fu costretto a rotolare di lato, senza molta eleganza, mentre fiamma nera gli strinava i capelli, e a rialzarsi per parare La pietra cade dalla montagna. Metodicamente, deliberatamente, Be’lal lo spinse indietro, in una spirale incentrata su Callandor.

Tra le colonne echeggiarono grida, urla, clangore d’acciaio; ma Rand udì appena. Ora lui e Be’lal non erano soli, nel Cuore della Pietra. Uomini in corazza ed elmo affrontavano con la spada sagome confuse e velate che saettavano fra le colonne e vibravano colpi di punta servendosi di corte lance. Alcuni soldati formarono quadrato: frecce scagliate dalla penombra li colpirono alla gola, al viso. I soldati morirono senza abbandonare la formazione. Rand quasi non s’accorse dello scontro, anche quando le vittime cadevano a qualche passo da lui. La sua battaglia era disperata, richiedeva la massima concentrazione. Sentì un liquido tiepido colargli lungo il fianco. La vecchia ferita si era riaperta.

A un tratto inciampò, perché non aveva visto un cadavere per terra: giacque supino sul pavimento di pietra, con la schiena sopra l’astuccio del flauto.

Be’lal alzò la spada di fuoco nero, ringhiando. «Prendila! Prendi Callandor e difenditi! Prendila, o ti uccido subito! Se non la prendi, ti uccido!»

«No!»

Perfino Be’lal sobbalzò al tono di comando di quella voce femminile. Arretrò fuori portata dell’arco descritto dalla spada di Rand e girò la testa; con una ruga fissò Moiraine che avanzava a passi decisi tra la mischia, occhi fissi sul Reietto, senza badare alle grida dei morenti.

«Credevo che tu fossi già sistemata per bene, donna» disse Be’lal. «Non importa. Sei soltanto un piccolo fastidio. Una mosca. Una zanzara. Ti chiuderò in gabbia con le altre e t’insegnerò a mettere al servizio dell’Ombra i tuoi miseri poteri» concluse, con una risata sprezzante, e alzò la mano libera.

Moiraine non si era fermata, non aveva rallentato. Era a non più di trenta passi da lui. Quando Be’lal mosse la mano, alzò anche lei le mani.

Il Reietto mostrò un istante di sorpresa ed ebbe il tempo di gridare: «No!»

Una barra di fuoco bianco, più ardente del sole, schizzò dalle mani dell’Aes Sedai: una verga incandescente che bandì ogni ombra. Davanti a essa, Be’lal divenne una sagoma di particelle tremolanti, puntini che danzarono nella luce per meno d’un battito di cuore e si consumarono ancora prima che il suo grido svanisse.

Mentre la barra svaniva, nella sala scese il silenzio, rotto solo dai gemiti dei feriti. Lo scontro era cessato di colpo; uomini velati e uomini in corazza erano rimasti ugualmente come intontiti.

«Su di una cosa aveva ragione» disse Moiraine, gelida e serena come se stesse in un prato. «Devi prendere Callandor. Intendeva ucciderti per strappartela, ma ti appartiene per diritto di nascita. Sarebbe molto meglio che tu sapessi più cose, prima di stringerne l’elsa, ma ormai sei arrivato a questo punto e non c’è più tempo per imparare. Prendila, Rand.»

Riccioli di fulmini neri si arricciarono intorno a lei. Moiraine urlò, mentre la sollevavano, la gettavano a terra, la mandavano a scivolare come sacco sul pavimento e a fermarsi contro una colonna.

Rand fissò il punto da dove erano arrivati i fulmini. Lassù, vicino alla cima delle colonne, c’era un’ombra più intensa, una tenebra che rendeva chiare come cielo di mezzodì tutte le altre ombre; da quella tenebra due occhi di fuoco erano puntati su di lui.

Lentamente l’ombra discese, si risolse in Ba’alzamon, vestito di nero assoluto, come il nero dei Myrddraal. Eppure quel nero non era così intenso come l’ombra incollata a lui. Ba’alzamon rimase sospeso in aria, a due spanne dal pavimento, e guardò Rand, con rabbia feroce. «Due volte in questa vita ti ho offerto la possibilità di servirmi da vivo» disse. Dalla sua bocca schizzarono fiamme e ogni parola parve rombo di fornace. «Due volte hai rifiutato e mi hai ferito. Ora, da morto, servirai il Signore della Tomba. Muori, Lews Therin Kinslayer. Muori, Rand al’Thor. Per te è l’ora di morire! Prendo la tua anima!»

Mentre Ba’alzamon protendeva la mano, Rand si rialzò e si lanciò disperatamente verso Callandor, ancora scintillante a mezz’aria. Non sapeva se l’avrebbe raggiunta, se avrebbe potuto toccarla, ma era sicuro che rappresentasse la sua unica possibilità.

Il colpo di Ba’alzamon lo raggiunse mentre saltava, lo colpì internamente, uno strappo e un accartocciamento, liberò qualcosa, cercò di strappare via una parte di lui. Rand urlò. Si sentì sul punto di crollare come sacco vuoto, rovesciato come un guanto. Il dolore al fianco, la ferita ricevuta a Falme, era quasi benvenuto, una cosa a cui aggrapparsi, un promemoria di vita. Serrò convulsamente la mano. Sull’elsa di Callandor.

L’Unico Potere lo inondò, torrente incredibile, e si riversò da Saidin nella spada. La lama di cristallo brillò più intensamente del fuoco di Moiraine. Era impossibile guardarla, impossibile capire che fosse ancora una spada: si vedeva solo la luce che gli brillava in pugno. Rand lottò contro il flusso, contro l’implacabile marea che minacciava di portarlo via, di portare via la sua reale essenza, ondeggiando in equilibrio sul punto d’essere disperso come sabbia di fronte a un diluvio improvviso. Con infinita lentezza l’equilibrio si consolidò. Rand aveva ancora l’impressione di trovarsi in bilico, scalzo su di una lama di rasoio sospesa sopra un baratro senza fondo, tuttavia qualcosa gli diceva che non poteva aspettarsi situazione migliore. Per incanalare una tale quantità di potere doveva danzare con gli stessi movimenti precisi con cui eseguiva le figure della scherma.

Si girò ad affrontare Ba’alzamon. Appena toccata Callandor, non aveva più provato la sensazione d’essere lacerato. Era trascorso un solo istante, che però gli era parso un’eternità. «Non mi prenderai l’anima!» gridò. «Stavolta intendo farla finita per sempre! Farla finita adesso!»

Ba’alzamon fuggì. Uomo e tenebra svanirono.

Per un attimo Rand rimase perplesso. Si era sentito come... come piegato, mentre Ba’alzamon fuggiva. Aveva avvertito una torsione, come se Ba’alzamon avesse in qualche modo piegato ciò che era. Senza badare agli uomini che lo fissavano, senza badare a Moiraine accasciata alla base della colonna, Rand si protese, mediante Callandor, e distorse la realtà per creare una porta per un altro luogo. Non sapeva dove, sapeva solo che era il luogo dove Ba’alzamon era fuggito.

«Ora sono io il cacciatore» disse. Varcò la porta.

La pietra vibrò sotto i piedi di Egwene. La Pietra di Tear tremò, risuonò. Egwene riprese l’equilibrio e tese l’orecchio. Non c’erano altri suoni, altri tremori. Qualsiasi cosa fosse, era terminata. Egwene agì in fretta. Una porta fatta di sbarre di ferro, con un lucchetto grosso quanto la sua testa, le bloccava la via. Egwene incanalò Terra prim’ancora d’arrivare alla porta, spinse le sbarre e il lucchetto si spezzò in due.

Attraversò in fretta la stanza e cercò di non guardare gli oggetti appesi alle pareti: fruste e pinze d’acciaio erano i più innocui. Con un brivido spalancò una porticina di ferro e si trovò in un corridoio fiancheggiato di porte di legno scabro, con torce di giunchi in staffe di ferro poste a intervalli; nel vedere le celle, sentì quasi lo stesso sollievo provato nel lasciarsi alle spalle gli strumenti di tortura. Ma quale cella?

Aprì con facilità le porte di legno: alcune non avevano catenaccio e il lucchetto delle altre non durò più di quello precedente. Ma ogni cella era vuota. “È naturale” si disse. “Nessuno sognerebbe se stesso in un posto del genere. Un prigioniero che riuscisse a entrare nel Tel’aran’rhiod sognerebbe un luogo piacevole."

Per un attimo fu quasi disperata. Aveva voluto credere che trovare la cella giusta avrebbe fatto differenza. Ma forse era impossibile trovarla. Il primo corridoio era lunghissimo e altri lo incrociavano.

A un tratto scorse un tremolio più avanti. Una sagoma ancora più incorporea di quella di Joiya Byir. Però era la sagoma di una donna, ne era nella stanza. Pareva quasi addormentata, teneva gli occhi socchiusi. E l’espressione di sofferenza, su quell’amabile viso, la rendeva una vittima, non un carnefice.

«Fermo!» gridò Sandar, dietro Mat. «È un’Aes Sedai! Una di quelle che hanno preso le donne che cerchi!»

Mat si bloccò di colpo e fissò la donna. Ricordò Moiraine che scagliava palle di fuoco. Si domandò se col bastone sarebbe riuscito a deviarle. E se la sua fortuna sarebbe giunta al punto di superare una Aes Sedai.

«Aiuto» disse debolmente la donna. Aveva ancora occhi assonnati, ma il tono lamentoso la dichiarava completamente sveglia. «Aiutami, ti prego!»

Mat batté le palpebre, stupito: la donna non aveva ancora mosso muscolo al di sotto del collo. Cautamente si avvicinò e con un gesto invitò Sandar a smetterla di borbottare che quella era un’Aes Sedai. La donna mosse la testa per seguire i suoi movimenti. Nient’altro.

Dalla cintura le pendeva una grossa chiave di ferro. Mat esitò un istante. Aes Sedai, aveva detto Sandar. Perché non si muoveva? Deglutì e le prese la chiave, con la cautela che avrebbe usato per togliere di bocca a un lupo un pezzo di carne. La donna ruotò gli occhi verso la porta lì accanto e mandò una sorta di gemito, come un gatto che vedesse entrare nella stanza un grosso cane ringhiante e sapesse di non avere via di scampo.

Mat non capiva la situazione; ma, finché la donna non gli impediva d’aprire la porta, se ne fregava del motivo per cui se ne restava seduta, immobile a quel modo, come spaventapasseri riempito di paglia. D’altro canto si domandò se dietro quella porta ci fosse qualcosa di cui temere. Se era una delle Aes Sedai che avevano catturato Egwene e le altre, pareva logico che montasse loro la guardia. Dagli occhi della donna colarono lacrime. Solo, pensò Mat, quella gli dava l’impressione che là dentro ci fosse un maledetto Mezzo Uomo. Comunque, il modo per saperlo era uno solo. Appoggiò alla parete il bastone, girò la chiave nel catenaccio e spalancò la porta, pronto a darsela a gambe, se necessario.

Nynaeve e Elayne erano inginocchiate per terra ai lati di Egwene, che pareva addormentata. Mat ansimò nel vedere il viso gonfio di Egwene e non credette che dormisse. Le altre due, piene di lividi quasi quanto Egwene, sentirono aprire la porta, si girarono verso di lui e lo fissarono a bocca aperta.

«Matrim Cauthon» disse Nynaeve, attonita. «Luce santa, cosa ci fai qui, tu?»

«Sono venuto a salvarvi, maledizione» replicò Mat. «La Luce m’incenerisca! Non m’aspettavo d’essere accolto come se fossi venuto a rubare focacce. Spiegami come mai avete l’aria d’esservi azzuffate con un orso. Se Egwene non ce la fa a camminare, la porterò in spalla. Ci sono Aiel in tutta la Pietra; o stanno uccidendo i maledetti Difensori, o ci stanno lasciando la pelle; in ogni caso, maledizione, meglio andarcene, finché possiamo. Se possiamo!»

«Bada a come parli» lo rimbeccò Nynaeve; Elayne gli diede una di quelle occhiate di disapprovazione nelle quali le donne sono così brave. Ma tutt’e due parevano avere altro per la testa. Si misero a scuotere Egwene, come se non fosse già abbastanza piena di lividi.

Egwene mosse le palpebre e gemette. «Perché mi svegliate? Devo capire! Se sciolgo i legami che la bloccano, si sveglierà e non riuscirò più a intrappolarla. Se non li sciolgo, non può tornare a dormire e...» Vide Mat e sgranò gli occhi. «Matrim Cauthon! Luce santa, cosa ci fai qui, tu?»

«Spiegaglielo» disse lui a Nynaeve. «Sono troppo occupato a portarvi in salvo, per badare a come parlo...» Si accorse che le altre fissavano qualcosa alle sue spalle: con odio, come se rimpiangessero di non avere in mano un coltello.

Si girò e vide solo Juilin Sandar, con la faccia di chi ha inghiottito tutta intera una prugna marcia.

«Ne hanno ogni motivo» disse Sandar a Mat. «Le... le ho tradite. Ma sono stato costretto.» L’ultima frase era indirizzata alle donne. «Quella con le treccioline bionde mi ha parlato e io... io sono stato costretto a farlo.» Le tre continuarono a fissarlo.

«Liandrin usa vili trucchi, mastro Sandar» disse infine Nynaeve. «Forse non sei del tutto da condannare. Più tardi valuteremo le colpe.»

«Chiarita la faccenda» disse Mat «possiamo andarcene?» A dire il vero, per lui la faccenda era chiara come acqua torbida; ma non vedeva l’ora di andare via.

Le tre donne lo seguirono zoppicando nel corridoio, ma si fermarono attorno alla donna seduta sulla panca. Lei roteò gli occhi e gemette: «Vi prego. Tornerò alla Luce. Giuro di ubbidirvi. Ve lo giuro come se reggessi la Verga dei Giuramenti. Vi prego, non...»

Mat sobbalzò: Nynaeve all’improvviso si era raddrizzata e aveva menato un gran pugno, facendo cadere dalla panca la donna, che rimase distesa per terra, a occhi ora chiusi, sul fianco, nell’identica posizione che aveva da seduta.

«Ha perso i sensi» disse Elayne, eccitata.

Egwene si chinò a frugare nel borsello della donna e trasferì nel proprio un oggetto che Mat non riuscì a distinguere. «Sì» disse. «È magnifico. Quando l’hai colpita, Nynaeve, in lei qualcosa è cambiato. Non so cosa, ma lo percepisco.»

«Lo sento anch’io» confermò Elayne.

«Mi piacerebbe cambiare in lei ogni cosa fino all’ultimo» disse Nynaeve, torva. Prese fra le mani la testa di Egwene, che si rizzò in punta di piedi, ansimando. Quando Nynaeve la lasciò e passò a Elayne, i lividi di Egwene erano scomparsi. Quelli di Elayne svanirono con la stessa rapidità.

«Sangue e ceneri» borbottò Mat. «Colpire una donna seduta! Cosa volevi fare? Non riusciva neppure a muoversi!» Tutt’e tre si girarono a fissarlo e Mat emise un verso strozzato, come se l’aria intorno a lui si fosse mutata in gelatina. Si alzò a mezz’aria, fino a penzolare con i piedi a un buon passo dal pavimento. “Oh, maledizione, il Potere!" pensò. “Qui avevo paura che le Aes Sedai lo usassero su di me e ora lo usano invece le tre che sono venuto a salvare. Maledizione!"

«Tu non capisci mai niente, Matrim Cauthon» disse Egwene, con voce tesa.

«E finché non capirai, ti suggerisco di tenere per te le tue opinioni» rincarò Nynaeve, con voce ancora più tesa.

Elayne si accontentò di guardarlo con un’occhiata che a Mat ricordò la propria madre, quando usciva a tagliare un ramo da usare come sferza.

Per qualche ragione, si trovò a rivolgere loro il sorriso che così spesso aveva spinto sua madre a cercare la sferza. Maledizione, se erano in grado di fare una cosa del genere, non capiva come qualcuno fosse riuscito a rinchiuderle in cella, tanto per cominciare!

«Capisco solo» disse «che vi ho tolto da un posto da cui non potevate uscire e che mostrate la stessa gratitudine di un maledetto abitante di Taren Ferry col mal di denti!»

«Hai ragione» rispose Nynaeve. Mat toccò terra così duramente da sentirsi ballare i denti. Ma poteva di nuovo muoversi. «Per quanto mi dispiaccia ammetterlo» soggiunse Nynaeve «hai ragione.»

Mat fu tentato di replicare ironicamente, ma nella voce di Nynaeve c’era il massimo tono di scusa per lei possibile. «Ora possiamo andarcene?» disse invece. «Con i combattimenti in corso, Sandar ritiene che sia possibile uscire da una porticina nei pressi del fiume.»

«Io ancora non me ne vado, Mat» disse Nynaeve.

«Voglio trovare Liandrin e strapparle la pelle» incalzò Egwene, col tono di chi parla alla lettera.

«Voglio picchiare Joiya Byir fino a farla squittire» disse Elayne «ma mi accontenterò anche di una delle altre.»

«Siete diventate sorde?» ringhiò Mat. «Nella Pietra infuria una battaglia! Sono venuto a salvarvi e intendo salvarvi.» Egwene gli passò davanti e intanto gli diede un buffetto sulla guancia, imitata da Elayne. Nynaeve si limitò a sbuffare. Mat le fissò a bocca aperta. «Perché non hai detto niente?» sbottò, rivolto a Sandar.

«Ho visto a cosa sono serviti i tuoi discorsi» rispose con semplicità l’acchiappaladri. «Non sono scemo.»

«Be’, non resto in mezzo a una battaglia!» gridò Mat alle donne, che in quel momento scomparivano al di là della porticina a sbarre. «Me ne vado, avete capito?» Quelle non si girarono nemmeno. “Finiranno per farsi uccidere” pensò Mat. “Qualcuno pianterà loro una spada in corpo, mentre quelle guardano dall’altra parte!" Con un ringhio si mise in spalla il bastone e si mosse per seguirle. «Tu rimani?» disse a Sandar. «Non sono arrivato fin qui per lasciarle morire adesso!»

Sandar lo raggiunse nella stanza delle torture. Le tre donne erano già scomparse, ma non sarebbe stato difficile trovarle. Bastava cercare uomini sospesi a mezz’aria, si disse Mat. Maledette donne! Allungò il passo.

Perrin percorse con determinazione i corridoi della Pietra, cercando qualche segno di Faile. L’aveva salvata altre due volte: la prima, liberandola da una gabbia di ferro assai simile a quella che aveva imprigionato l’Aiel a Remen; la seconda, aprendo un baule d’acciaio con un falco inciso sul fianco. Tutt’e due le volte lei l’aveva chiamato per nome ed era svanita. Hopper gli trotterellava a fianco e fiutava l’aria. Per quanto fosse acuto il fiuto di Perrin, quello del lupo era superiore: era stato Hopper a guidare Perrin al baule.

Perrin si domandò se sarebbe mai riuscito a liberarla davvero. Ormai da un pezzo non ne vedeva segno. I corridoi della Pietra erano deserti; c’erano lanterne accese, arazzi e armi appesi alle pareti, ma niente che si muovesse, a parte lui e Hopper. Tuttavia Perrin pensava d’avere scorto Rand: era stata una fuggevole visione, un uomo che correva come se inseguisse qualcuno. Non poteva essere Rand, si disse Perrin; non poteva essere Rand, eppure lui pensava che si trattasse di Rand.

Hopper accelerò all’improvviso e si diresse a un’altra serie di alte porte, stavolta rivestite di bronzo. Perrin cercò di stargli al passo, inciampò e cadde carponi; protese la mano per non finire con la faccia a terra. Era invaso dalla debolezza, come se i muscoli gli si fossero mutati in acqua. La sensazione diminuì, ma gli portò via un po’ di forza. Gli fu difficile rimettersi in piedi. Hopper si era girato a guardarlo.

«Sei qui troppo in sostanza, Giovane Toro. La carne s’indebolisce. Non t’importa di starvi attaccato a sufficienza. Presto carne e sogno moriranno insieme.»

«Trovala» disse Perrin. «Non chiedo altro. Trova Faile.»

Occhi gialli incrociarono occhi gialli. Il lupo si girò e trottò verso una porta. «Qua dentro, Giovane Toro.»

Perrin spinse i battenti. Senza il minimo risultato. Non c’era modo visibile per aprirli, nessuna maniglia, nessun appiglio. C’era un minuscolo disegno inciso nel metallo, così fine che gli era quasi sfuggito. Migliaia di minuscoli falchi.

Perrin si augurò che Faile fosse davvero lì: non avrebbe resistito ancora a lungo. Con un grido, vibrò il martello. Il bronzo risuonò come un enorme gong. Perrin colpì di nuovo e il rimbombo divenne più intenso. Al terzo colpo, i battenti di bronzo si frantumarono come vetro.

Dentro, a cento passi dalla porta, un cerchio di luce circondava un falco incatenato al posatoio. Il resto dell’ampia sala era avvolto nelle tenebre, ma si udiva un debole fruscio di centinaia d’ali.

Perrin mosse un passo nella sala; dalle tenebre un falco calò in picchiata e con gli artigli gli graffiò il viso. Perrin si riparò col braccio gli occhi (artigli gli lacerarono la pelle) e barcollò verso il posatoio. I rapaci lo assalivano in continuazione, si lanciavano in picchiata, lo colpivano, gli laceravano la carne; ma Perrin, col sangue che gli colava dall’avambraccio e dalle spalle, continuò ad avanzare, lo sguardo fisso sul falco incatenato al posatoio. Aveva perduto il martello, non sapeva dove; ma sapeva che, se fosse tornato a cercarlo, sarebbe morto prima di trovarlo.

Mentre raggiungeva il posatoio, gli artigli affilati lo fecero cadere sulle ginocchia. Perrin scrutò da sotto il braccio il falco sul posatoio, che gli restituì lo sguardo, con occhi scuri, immobili. La catena che gli legava la zampa era attaccata al posatoio mediante un piccolo lucchetto sagomato a forma di istrice. Senza badare agli altri falchi divenuti ora un turbine d’artigli affilati, Perrin afferrò con tutt’e due le mani la catena e con le ultime forze la spezzò. Dolore e falchi gli portarono tenebra.

Aprì gli occhi e sentì un dolore intenso, come se gli avessero tagliuzzato con mille coltelli il viso, le braccia, le spalle. Non importava. Faile, inginocchiata al suo fianco, lo guardava, preoccupata, e con un panno già zuppo di sangue gli ripuliva il viso.

«Mio povero Perrin» disse piano. «Mio povero fabbro. Che orribili ferite!»

Con uno sforzo che gli costò altra sofferenza, Perrin girò la testa. Si trovava nella stanza da pranzo privata della Stella; accanto a una gamba del tavolo, c’era una statuetta di legno a forma di istrice, spaccata in due. «Faile» mormorò Perrin. «Mio falco.»

Rand si trovava sempre nel Cuore della Pietra, ma la situazione era diversa. Non c’erano uomini in lotta, né morti: c’era soltanto lui. All’improvviso udì echeggiare il suono di un grande gong, una volta, due volte, e sentì vibrare sotto i piedi le pietre stesse. Il rimbombo echeggiò una terza volta e s’interruppe di colpo, come se il gong fosse andato in frantumi. Scese il silenzio.

"Dove mi trovo?" si domandò Rand. “E dov’è finito Ba’alzamon?"

Quasi in risposta, una barra incandescente, simile a quella creata da Moiraine, saettò dalle ombre fra le colonne, dritta contro il suo petto. D’istinto Rand mosse la spada; e fu l’istinto, più che altro, a fargli riversare in Callandor flussi di Saidin, un fiotto di Potere che rese la spada più luminosa anche della barra che stava per colpirlo. Il suo incerto equilibrio fra esistenza e distruzione ondeggiò. Di sicuro quel torrente l’avrebbe consumato.

La barra di luce colpì la lama di Callandor... e si sdoppiò lungo il bordo, si biforcò per fluire ai lati. Rand sentì la giubba strinarsi, sentì il puzzo di lana bruciata. Alle sue spalle, i due rebbi di fuoco gelido, di luce liquida, colpirono le colonne di granito: dove toccarono, la pietra smise di esistere: le barre ardenti penetrarono in altre colonne, facendole svanire all’istante. Il Cuore della Pietra fu squassato dal rombo delle colonne che crollavano e si sminuzzavano in nubi di polvere, in nebbiolina di pietrisco. Ciò che cadeva nella luce, però, smetteva semplicemente d’esistere.

Un ringhio di rabbia provenne dalle ombre: la barra di luce svanì.

Rand mosse Callandor come per colpire qualcosa di fronte a sé. La luce bianca che celava la lama si estese, brillò più avanti, penetrò fra le colonne di granito che nascondevano quel ringhio, affettò come seta la pietra levigata. Le colonne tagliate tremarono; una parte si staccò dal soffitto e crollo in enormi pezzi smozzicati. Mentre il rombo svaniva, Rand udì il rumore di stivali su pietra. In fuga.

Callandor in pugno, si lanciò all’inseguimento di Ba’alzamon.

Quando raggiunse il vano d’uscita dal Cuore, l’alto architrave crollò, trascinando con sé l’intera parete in nuvole di polvere e di roccia, quasi a volerlo seppellire; ma Rand lanciò contro di esso il Potere e tutto divenne polvere galleggiante nell’aria. Rand continuò a correre. Non sapeva bene che cosa avesse fatto, né come, ma non aveva il tempo di riflettere. Corse dietro il rumore di passi di Ba’alzamon, che echeggiava nei corridoi della Pietra.

Myrddraal e Trolloc sbucarono dal nulla, giganteschi corpi bestiali e facce prive d’occhi distorte per la furia d’uccidere, a centinaia, tanto da bloccare il corridoio, davanti e dietro di lui, con spade a forma di falce e lame di micidiale acciaio nero. Senza sapere come, Rand li mutò in vapore, che si aprì davanti a lui... e svanì. L’aria divenne a un tratto fuliggine soffocante che gli turava le narici, che gli mozzava il respiro; ma Rand la rese di nuovo pulita, una fresca nebbiolina. Fiamme guizzarono dal pavimento sotto i suoi piedi, schizzarono dalle pareti, dal soffitto: getti furiosi che incendiarono arazzi e tappeti, che ridussero in cenere tavoli e cassapanche, che ridussero in gocce d’oro fuso ornamenti e lampade. Rand bloccò le fiamme, le solidificò in glassa rossa sulla pietra.

Intorno a lui le rocce svanirono come nebbia; la Pietra svanì. La realtà tremò: Rand la sentiva sfaldarsi, sentì se stesso sfaldarsi. Era spinto fuori di, lì, in un altro luogo dove nulla esisteva. Callandor gli brillava in pugno come sole e Rand pensò che si sarebbe fusa. Pensò che lui stesso si sarebbe fuso per il flusso di Potere che lo pervadeva, il flusso che in qualche modo riuscì a dirigere per sigillare il foro che si era spalancato intorno a lui, per tenere se stesso dal lato giusto dell’esistenza. La Pietra tornò solida.

Rand non avrebbe saputo nemmeno immaginare che cosa aveva fatto. L’Unico Potere infuriava in lui, tanto che Rand a stento riconosceva se stesso, a stento era se stesso: la sua stessa sostanza quasi non esisteva. La sua precaria stabilità vacillò. Ai lati c’era una caduta senza fine, l’annullamento mediante il Potere che attraverso di lui fluiva nella spada. Solo nella danza lungo il filo del rasoio c’era un’incerta sicurezza. Callandor gli risplendeva in pugno, come se lui reggesse il sole. In lui, confusa e tremolante come fiamma di candela nella tempesta, c’era la certezza che, impugnando Callandor, poteva fare qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa.

Corse per corridoi senza fine, danzò sul filo del rasoio, diede la caccia a un essere che poteva ucciderlo, che lui doveva uccidere. Non poteva esserci altra conclusione: stavolta uno di loro due doveva morire! Era chiaro che pure Ba’alzamon lo sapeva. Fuggiva sempre, restava sempre fuori vista un po’ più avanti, tanto che solo il rumore della sua fuga attirava Rand, ma anche nella fuga rivolgeva contro Rand questa Pietra di Tear che non era la Pietra di Tear; e Rand ribatteva con l’istinto, le intuizioni, il caso, combatteva e correva lungo quel filo di rasoio, in perfetto equilibrio col Potere, l’utensile e l’arma che l’avrebbe completamente distrutto, se lui avesse vacillato.

L’acqua riempì da cima a fondo i corridoi, densa e nera come il fondo del mare, gli tolse il respiro. Rand la rese di nuovo aria, senza accorgersene, e continuò a correre; e all’improvviso l’aria ebbe peso, tanto che lui ebbe l’impressione di sopportare su ogni lembo di pelle una montagna, di essere spremuto da ogni direzione. Un attimo prima d’essere schiacciato nel nulla, scelse correnti dal flusso di Potere che infuriava in lui e senti svanire la pressione. Inseguì Ba’alzamon e l’aria stessa fu all’improvviso solida roccia, poi pietra fusa, poi vuoto assoluto. Il terreno lo attirò come se ogni libbra pesasse a un tratto mille libbre; poi il peso svanì, cosicché un passo lo mandò a roteare a mezz’aria. Fauci invisibili si spalancarono per strappargli dal corpo la mente, per portargli via l’anima. Rand fece scattare a vuoto ogni trappola e continuò a correre; ciò che Ba’alzamon distorceva per distruggerlo, lui rimetteva a posto senza rendersi conto di come ci riusciva. Vagamente sapeva d’avere riportato in qualche modo ogni cosa al proprio equilibrio naturale, d’averla rimessa in quadro con la sua stessa danza lungo quella linea di separazione, assurdamente sottile, fra l’esistenza e il nulla; ma questa nozione era remota. Tutta la sua consapevolezza era concentrata nell’inseguimento, nella caccia, nella morte che doveva porre fine a tutto.

E poi fu di nuovo nel Cuore della Pietra, attraversò lo squarcio pieno di macerie che era stato una parete. Ora alcune colonne pendevano come denti spezzati. E Ba’alzamon arretrava di fronte a lui, con occhi ardenti, ammantellato d’ombra. Linee nere come fili di ferro parevano correre da Ba’alzamon alle tenebre ammassate intorno a lui, svanire in altezze inimmaginabili e remote nell’oscurità.

«Non mi lascerò disfare!» gridò Ba’alzamon. La sua bocca era fuoco; il suo grido echeggiò fra le colonne. «Non posso essere sconfitto! Aiuto!»

Una parte delle tenebre che lo velavano si librò nella sua mano, si coagulò in una palla così nera da assorbire perfino la luce di Callandor. Un improvviso lampo di trionfo attizzò le fiamme nei suoi occhi.

«Sei distrutto!» gridò Rand. Roteò Callandor. La luce della spada intorbidò le tenebre, recise le linee d’acciaio intorno a Ba’alzamon e quest’ultimo fu scosso da convulsioni. Come sdoppiato, parve raggrinzirsi e dilatarsi al tempo stesso. «Sei disfatto!» Rand tuffò nel petto di Ba’alzamon la spada rilucente.

Ba’alzamon urlò e le fiamme nella sua faccia divamparono follemente. «Stupido!» ululò. «Il Sommo Signore delle Tenebre non può mai essere sconfitto!»

Rand estrasse la lama di Callandor. Il corpo di Ba’alzamon crollò e iniziò a cadere, mentre le tenebre intorno a lui svanivano.

E all’improvviso Rand fu in un altro Cuore della Pietra, circondato da colonne ancora intatte e da uomini che urlavano e morivano, uomini velati e uomini in elmo e corazza. Moiraine giaceva ancora in un mucchio alla base della colonna di granito. E ai piedi di Rand giaceva il corpo di un uomo, disteso sulla schiena, con un foro dai bordi bruciati nel petto. Sarebbe potuto essere un bell’uomo di mezz’età, ma al posto d’occhi e bocca aveva solo abissi da cui si levavano riccioli di fumo nero.

"Ce l’ho fatta” pensò Rand. “Ho ucciso Ba’alzamon, ho ucciso Shai’tan! Ho vinto l’Ultima Battaglia! Luce santa, sono davvero il Drago Rinato! Il distruttore di nazioni, il responsabile della Frattura del Mondo. No! Porrò fine alla Frattura, alle uccisioni! Le farò terminare!"

Sollevò sopra la testa Callandor. Fulmini argentei schizzarono dalla lama, saette frastagliate che s’inarcarono verso la grande cupola.

«Fermi!» gridò Rand. Il combattimento cessò; gli uomini lo fissarono, attoniti, da sopra il velo nero o da sotto l’elmo rotondo. «Sono Rand al’Thor!» gridò lui, con voce che rintronò nella sala. «Sono il Drago Rinato!» Nel suo pugno, Callandor risplendeva.

A uno a uno, uomini col velo e con l’elmo s’inginocchiarono. «Il Drago è Rinato! Il Drago è Rinato!»

Загрузка...