50 Il martello

Sotto il caldo sole del pomeriggio, il traghetto attraccò a Tear. Sulle pietre del molo, da cui si levavano vapori, c’erano pozze di pioggia e a Perrin l’aria parve umida come a Illian: odorava di pece, di legno, di canapa (più a meridione, lungo il fiume, Perrin vedeva dei cantieri navali) di spezie, di ferro, d’orzo, di profumi, di vini, di cento altri aromi che lui non riusciva a districare dal miscuglio, per la maggior parte provenienti dai magazzini alle spalle dei moli. Se per un poco il vento soffiava da tramontana, Perrin sentiva anche odore di pesce, che però svaniva, non appena il vento cambiava di nuovo. Non fiutò alcun odore d’animali da cacciare. Proiettò la mente alla ricerca di lupi, prima di rendersene conto e di chiuderla di scatto. Di recente gli accadeva con troppa frequenza. Non c’erano lupi, ovviamente, in una città come Tear. Perrin desiderò di non sentirsi così... così solo.

Appena fu abbassata la rampa all’estremità della chiatta, guidò Stepper sul molo, dietro Moiraine e Lan. La gigantesca sagoma della Pietra di Tear si alzava lontano sulla sinistra, in ombra, tanto da sembrare una montagna, malgrado lo stendardo sul punto più alto. Perrin non voleva guardare la Pietra, ma era impossibile guardare la città e non vederla. “Sarà già qui?" si domandò. “Luce santa, se ha già provato a entrare lì dentro, potrebbe essere già morto." Allora tutta quella fatica sarebbe andata sprecata.

«Cosa dovremmo trovare qui?» domandò Zarine, dietro di lui. Non aveva smesso di fare domande: solo, non le rivolgeva più all’Aes Sedai o al Custode. «Illian ci ha mostrato dei Grigi e la Caccia Furiosa. Cos’ha, Tear, che... che qualcuno vuole impedirvi di trovare, con tanto accanimento?»

Perrin si guardò intorno: a quanto pareva, i portuali indaffarati a trasbordare le merci non avevano udito. Era sicuro che avrebbe fiutato la paura, se qualcuno avesse udito. Tenne a freno la risposta pepata che gli era venuta sulla punta della lingua. Zarine aveva una lingua ancora più svelta e più tagliente.

«Vorrei che tu fossi meno ansiosa, Faile» rombò Loial. «A quanto pare, credi che sia facile come a Illian.»

«Facile?» brontolò Zarine. «Facile! Loial, abbiamo rischiato la morte due volte in una sola notte. Illian sarebbe bastata da sola a una ballata sui Cercatori. A te sembra facile?»

Perrin fece una smorfia. Avrebbe voluto che Loial non chiamasse Zarine col nome che lei si era scelto: era un costante promemoria del fatto che secondo Moiraine, Zarine fosse il falco di cui aveva parlato Min. E induceva Perrin a domandarsi se fosse lei, la donna bellissima da cui Min l’aveva messo in guardia. “Almeno” pensò “ancora non mi sono imbattuto nello sparviero. Né in un Tuatha’an armato di spada. E se quest’ultima non è la cosa più bizzarra di tutte, sono un mercante di lana!"

«Smettila di fare domande, Zarine» disse, montando in sella a Stepper. «Quando Moiraine deciderà di rivelartelo, scoprirai per quale motivo siamo qui.» Cercò di non guardare la Pietra.

Zarine si girò verso di lui. «Non credo che tu sappia il motivo, fabbro» replicò. «Per questo non vuoi dirmelo. Perché non sai niente. Ammettilo, contadino.»

Con un sospiro Perrin lasciò il molo, dietro Moiraine e Lan. Zarine, si disse, non replicava in tono tagliente a Loial, quando l’Ogier si rifiutava di rispondere alle domande. Forse cercava di costringere anche lui a chiamarla Faile. Non ci sarebbe mai riuscita.

Moiraine aveva legato dietro la sella il manto di tela cerata, sopra il fagotto d’aspetto innocente che conteneva lo stendardo del Drago; malgrado il caldo, aveva indosso il mantello di lino azzurro che aveva portato a Illian, il cui ampio cappuccio le nascondeva il viso. Si era appesa al collo, mediante una cordicella, l’anello col Gran Serpente. Tear, aveva spiegato; non proibiva la presenza delle Aes Sedai, ma solo l’uso del Potere; però i Difensori della Pietra tenevano attentamente d’occhio ogni donna che portasse l’anello. E lei voleva passare inosservata, durante questa visita a Tear.

Due giorni prima, Lan aveva riposto nelle bisacce della sella il manto dal colore cangiante, appena era stato chiaro che chiunque avesse inviato i Segugi Neri (Sammael, pensò Perrin con un brivido e cercò di togliersi di mente quel nome) non aveva continuato l’inseguimento. Come a Illian, anche a Tear il Custode non aveva fatto concessioni al caldo: teneva abbottonata fino al collo la giubba grigioverde.

Perrin aveva la giubba per metà sbottonata e il collo della camicia aperto. Forse Tear era un po’ più fresca di Illian, ma pur sempre calda come l’estate nei Fiumi Gemelli e l’umidità dell’aria dopo la pioggia faceva sembrare più intenso il caldo. Il cinturone con l’ascia era appeso al pomo della sella. L’arma era a portata di mano, in caso di necessità, e lui si sentiva meglio, se non la teneva addosso.

Notò con sorpresa il fango della prima via che imboccarono. Solo i villaggi e i paesotti avevano vie di terra battuta, ma Tear era una delle grandi città. La gente pareva non badare al fango e molti giravano scalzi. Per un poco Perrin osservò una donna che camminava su piccole zeppe di legno e si domandò come mai non le usassero tutti. Le brache a sbuffo degli uomini parevano più fresche di quelle attillate che indossava lui, ma si sarebbe sentito uno sciocco, se le avesse provate. S’immaginò vestito a quel modo, con un cappello di paglia per giunta, e ridacchiò.

«Cosa ci trovi di buffo, Perrin?» domandò Loial. Aveva le orecchie penzoloni, tanto che i ciuffi in cima si confondevano con i capelli, e guardava con aria preoccupata la gente per strada. «Queste persone hanno un’aria... sconfitta, Perrin. Non erano così, l’ultima volta che sono stato a Tear. Neppure la gente che ha lasciato tagliare il proprio boschetto merita d’avere quest’aria.»

Perrin cominciò a osservare le facce e si accorse che Loial aveva ragione. In troppi visi mancava qualcosa. La speranza, forse. La curiosità. La gente si limitava a dare un’occhiata al gruppetto a cavallo... e solo per togliersi di mezzo. L’Ogier, in sella a un cavallo grosso come quelli da tiro, non attirava più attenzione di Lan o di Perrin.

Varcate le porte delle alte mura grigie, sorvegliate da soldati con occhi duri, che portavano il pettorale sopra la giubba rossa dalle ampie maniche con polsini bianchi e l’elmo rotondo con la cresta, le vie divennero lastricate. Anziché brache a sbuffo, i soldati avevano brache attillate, infilate in stivali alti al ginocchio. Guardarono con disapprovazione la spada di Lan e sfiorarono la propria; fissarono l’ascia e il lungo arco di Perrin; tuttavia, malgrado le occhiate attente e preoccupate, conservavano un’aria di sconfitta, come se non ci fosse più niente per cui impegnarsi.

All’interno delle mura, gli edifici erano più grandi e più alti, ma per la maggior parte rispecchiavano quelli all’esterno. I tetti parevano un po’ bizzarri a Perrin, in particolare quelli a punta; ma lui, da quando aveva lasciato il villaggio, aveva visto tetti di moltissime fogge e si domandò solo che tipo di chiodi adoperassero per le tegole. In certi posti la gente non le inchiodava affatto.

Palazzi e grandi edifici parevano posti a caso fra quelli più piccoli e più comuni: a volte, un edificio tutto torri e cupole vagamente quadrate, circondato ai lati da ampie vie, era fronteggiato, dall’altra parte della strada, da botteghe, locande, abitazioni. Un enorme palazzo con il fronte a colonne quadrate di marmo, ampie quattro passi per lato, e cinquanta gradini per arrivare ai battenti di bronzo alti cinque braccia, era stretto fra una bottega di panettiere e una di sarto.

Qui un maggior numero di uomini portava giubbe e brache come quelle dei soldati, ma di colori più vivaci e senza pettorale; alcuni avevano perfino la spada. Nessuno girava scalzo. Le vesti femminili, sia di seta sia di lana, erano spesso più lunghe e più scollate, scoprivano le spalle e perfino il petto. Per le vie giravano sia portantine e carrozze tirate da cavalli sia carretti trainati da buoi e carri coperti. Tuttavia su troppe facce si leggeva un senso di sconfitta.

La locanda scelta da Lan, la Stella, si trovava fra una bottega di tessitore e una di fabbro, separate da stretti vicoli. La bottega di fabbro era di pietra grigia non lavorata; quella di tessitore e la locanda erano di legno, ma la Stella contava quattro piani e aveva anche finestrelle sul tetto spiovente. Il rumore di telai era soffocato dal clangore di magli.

Lan e gli altri affidarono i cavalli a garzoni di stalla, perché li portassero nel cortile posteriore, ed entrarono nella locanda. Dalla cucina provenivano odori di pesce, in forno o in brodo, e di montone arrosto. Gli avventori della sala comune indossavano tutti giubba attillata e brache a sbuffo. Secondo Perrin, gente più ricca (era sicuro che gli uomini in giubbe dai colori vivaci e le donne dalle vesti di seta e spalle scoperte fossero tutti ricchi o nobili) non avrebbe resistito al frastuono continuo. Forse proprio per questo Lan aveva scelto la Stella.

«Come faremo a dormire con questo fracasso?» brontolò Zarine.

«Niente domande» rispose Perrin, con un sorriso. Per un momento pensò che lei volesse mostrargli la lingua.

Il locandiere era un tizio dal viso tondo, con un principio di calvizie, lunga giubba azzurra e ampie brache; salutò con un inchino, tenendo la mani intrecciate sul florido ventre. Aveva in faccia quell’aria di stanca rassegnazione, «La Luce splenda su di te, signora: benvenuta» sospirò. «La Luce splenda su di voi, padroni: benvenuti.» Trasalì un poco nel notare gli occhi gialli di Perrin e si rivolse a Loial. «La Luce splenda su di te, amico Ogier: benvenuto. Da più di un anno non vedo a Tear uno della tua razza. Lavoravano nella Pietra e alloggiavano lì, naturalmente; ma un giorno li ho visti per strada.» Terminò con un altro sospiro, incapace di trovare la curiosità per domandarsi come mai un altro Ogier fosse venuto a Tear... o ciascuno degli altri, per questo.

Il locandiere, che si chiamava Jurah Haret, li accompagnò di persona nelle loro stanze. Evidentemente, per la veste di seta e il modo in cui Moiraine teneva nascosto il viso, uniti alla faccia dura di Lan e alla sua spada, ritenne che l’Aes Sedai fosse una dama accompagnata dalla scorta e quindi meritevole delle sue personali attenzioni. Considerò Perrin una sorta di domestico e fu in dubbio su Zarine; mentre Loial, in fin dei conti, era un Ogier. Chiamò dei servitori perché unissero due letti per Loial e per i pasti offrì a Moiraine una stanza riservata. Moiraine accettò con buona grazia.

Si mantennero insieme per tutto il cerimoniale, formando un piccolo corteo nei corridoi superiori, finché Haret, con un inchino e un sospiro, non li lasciò, fuori della stanza di Moiraine. Le pareti erano d’intonaco bianco e Loial sfiorava il soffitto del corridoio.

«Che tipo odioso» borbottò Zarine, spazzolandosi furiosamente le sottane. «Credo che mi abbia preso per la tua domestica, Aes Sedai. Non lo sopporto!»

«Attenta alla lingua» disse piano Lan. «Se usi quel nome dove la gente può udire, lo rimpiangerai, ragazza.»

Zarine parve sul punto di discutere, ma lo sguardo gelido di Lan, se non raffreddò l’occhiata di fuoco, le bloccò la lingua.

Moiraine non badò a loro. Con sguardo assente stropicciò il mantello come se si pulisse le mani. Neppure se ne accorgeva, pensò Perrin.

«Come faremo a trovare Rand?» domandò. Ma ritenne che l’Aes Sedai non avesse udito. «Moiraine?»

«Restate nei pressi della locanda» disse lei, dopo un momento. «Tear può rivelarsi pericolosa, per chi non conosce le abitudini locali. Qui il Disegno può essere lacerato» soggiunse a bassa voce, come se parlasse tra sé. Riprese il tono normale. «Lan, vediamo cosa ci riesce di scoprire senza attirare l’attenzione. Voi restate nei pressi della locanda!»

«"Restate nei pressi della locanda"» disse Zarine, rifacendo il verso a Moiraine, appena l’Aes Sedai e il Custode furono scomparsi giù per la scala. Ma parlò a bassa voce, in modo che non udissero. «Questo Rand. È quello che hai chiamato il...» Se assomigliava a un falco, in quel momento era un falco a disagio. «E siamo a Tear, dove nel Cuore della Pietra è conservata la... E le Profezie dicono che... Maledizione, ta’veren, è davvero una storia in cui mi piacerebbe trovarmi?»

«Non è una storia, Zarine» rispose Perrin. Per un momento si sentì disperato quanto pareva esserlo il locandiere. «La Ruota ci intesse nel Disegno. Tu hai scelto di annodare ai nostri il tuo filo: ormai è troppo tardi per disfare il nodo.»

«Luce santa!» brontolò Zarine. «Adesso parli proprio come lei!»

Perrin la lasciò in compagnia di Loial e andò a posare i bagagli: la stanza aveva un letto basso, comodo ma piccolo, come la gente di città riteneva adatto a un servitore, un lavabo, uno sgabello e alcuni pioli infissi nella parete a intonaco, assai screpolato. Quando uscì, non vide Zarine e Loial. Si sentiva chiamare dal clangore di martello sull’incudine.

A Tear aveva visto tante di quelle cose bizzarre, che entrò con vero sollievo nella bottega di fabbro. Il pianterreno era un unico, vasto locale privo di parete di fondo, sostituita da una grande porta a due battenti spalancata sul cortile per la ferratura di cavalli e di buoi, completo d’imbracatura per questi ultimi. I magli erano nei supporti, pinze di vario genere e formato pendevano dai puntoni scoperti delle pareti, coltelli per zoccoli e altri utensili da maniscalco erano ordinatamente disposti su banchi di legno, insieme con scalpelli e incudini dai corni sottili e stampi e tutti gli attrezzi del mestiere. Alcuni bidoni contenevano barre di ferro e d’acciaio di vario spessore. Cinque ruote per molare, di differente grana, erano sparse sul pavimento di terra battuta, insieme con sei incudini e tre forge dalle pareti di pietra, munite di mantici, anche se una sola conteneva braci ardenti. Barili per la tempra erano a portata di mano.

In quel momento il fabbro batteva un ferro arroventato stretto fra pesanti pinze. Aveva occhi celesti e brache ampie, ma la lunga veste di cuoio sul torace nudo e il grembiule non differivano molto da quelli che Perrin e mastro Luhhan indossavano a Emond’s Field. Le braccia e le spalle muscolose parlavano di anni trascorsi a lavorare metalli. Altre vesti e grembiuli erano appesi alla parete, come se il fabbro avesse degli apprendisti, assenti al momento. Il fuoco della forgia e il ferro incandescente avevano odore di casa.

Il fabbro si girò per rimettere fra le braci il pezzo in lavorazione e Perrin si accostò a manovrare per lui il mantice. Il fabbro gli diede un’occhiata ma non protestò. Perrin alzò e abbassò il manico del mantice, con colpi lenti, costanti, sempre uguali, mantenendo le braci alla giusta temperatura. Il fabbro tornò a lavorare il ferro rovente, stavolta sull’estremità arrotondata dell’incudine. Perrin pensò che volesse fare un raschietto per barili. Il martello mandò colpi secchi, rapidi.

«Apprendista?» disse il fabbro, senza alzare gli occhi dal lavoro. Non aggiunse altro.

«Sì» rispose Perrin, con altrettanta semplicità.

Il fabbro continuò a lavorare per un poco; faceva davvero un raschietto per pulire l’interno di barili di legno. Di tanto in tanto rivolgeva a Perrin un’occhiata, lo soppesava. Posò il martello solo per il tempo necessario a prendere un barra corta e quadrata e a metterla in mano a Perrin. «Vediamo cosa sai fare» disse; poi riprese il lavoro.

Senza pensarci, Perrin si avvicinò a una incudine dall’altra parte della forgia; batté contro lo spigolo il pezzo grezzo e ne trasse un bel rumore. L’acciaio non era rimasto nel forno a combustione lenta tanto a lungo da assorbire una grande quantità di carbone. Perrin lo cacciò quasi interamente fra le braci, assaggiò l’acqua di due barili per vedere qual era salata (il terzo conteneva olio d’oliva), si tolse giubba e camicia, prese una veste di cuoio e un grembiule.

Girandosi, vide che il fabbro, sempre a testa china sul lavoro, annuiva e sorrideva. Ma sapersi muovere in una fucina, si disse, non significava essere abili nel lavoro: l’abilità doveva ancora dimostrarla.

Prese due martelli, un paio di pinze piatte dal manico lungo, un tagliolo affilato e tornò all’incudine; intanto la barra d’acciaio era diventata; rosso scuro, tranne che nella piccola parte rimasta fuori delle braci. Perrin azionò il mantice e guardò il colore dell’acciaio schiarirsi fino a un giallo chiaro assai vicino al bianco. Allora con le pinze afferrò la barra, la posò, sull’incudine e prese il più pesante dei due martelli. Circa dieci libbre, calcolò, e con un manico più lungo di quanto la maggior parte della gente, poco pratica della lavorazione dei metalli, avrebbe ritenuto necessario. Perrin lo impugnò quasi in fondo: il metallo rovente a volte mandava scintille e lui aveva visto le cicatrici sulle mani del fabbro di Roundhill, un tipo assai negligente.

Non voleva fare niente di complicato o fantasioso. Le cose semplici gli parevano le migliori, al momento. Cominciò ad arrotondare gli spigoli della barra, poi martellò la parte centrale in un’ampia lama, spessa in fondo quasi quanto l’originale, ma lunga un buon palmo e mezzo. Di tanto in tanto rimetteva il pezzo nelle braci, per mantenerlo di colore giallo chiaro; dopo un poco, passò a usare il secondo martello, pesante circa la metà dell’altro. Assottigliò la parte eccedente la lama, la piegò sul corno dell’incudine e la incurvò, in modo che a lavoro terminato vi si potesse applicare un manico di legno. Sistemò l’affilato tagliolo nell’apposito foro praticato sull’incudine e vi appoggiò il metallo arroventato. Con un secco colpo di martello tagliò l’utensile: sarebbe stato un arnese per scanalare, utilizzabile, fra le altre cose, per lisciare e livellare l’estremità delle doghe, dopo averle assiemate a forma di barile. Aveva avuto l’idea nel vedere che il fabbro faceva un raschietto.

Terminato il taglio a caldo, lasciò cadere nel barile della tempra salata il metallo rovente. L’acqua non salata dava una tempra più forte, per i metalli più duri, mentre l’olio dava quella più tenera, per i buoni coltelli. E per le spade, aveva sentito dire; ma non aveva mai fabbricato lame di spada.

Quando il metallo si fu raffreddato fino ad avere un colore grigio opaco, Perrin lo tolse dall’acqua e lo portò alle mole. Lavorò lentamente di pedale e diede alla lama una ripulita. Poi, con cura, riscaldò di nuovo la parte a lama. Stavolta il colore divenne più cupo, paglierino e poi bronzeo. Quando il color bronzo cominciò a risalire a ondate su per la lama, Perrin mise l’utensile da parte a raffreddare: solo allora avrebbe potuto affilarlo, Se l’avesse rimesso nell’acqua, avrebbe rovinato la tempra precedente.

«Un lavoro ben fatto» disse il fabbro. «Non hai sprecato un gesto. Cerchi lavoro? Gli apprendisti mi hanno appena lasciato, tutt’e tre, quegli stupidi sfaticati. Ho lavoro in abbondanza.»

Perrin scosse la testa. «Non so per quanto tempo mi tratterrò a Tear. Però mi piacerebbe lavorare ancora un poco, se non hai niente in contrario. Ne sento la mancanza. Potrei fare qualcosa che avrebbero fatto i tuoi apprendisti.»

Il fabbro sbuffò. «Sei molto più abile di quei fannulloni. Giravano a muso lungo e brontolavano per i brutti sogni, come se chiunque non faccia qualche brutto sogno, di tanto in tanto. Sì, puoi lavorare qui, finché ne hai voglia. Mi hanno ordinato dodici coltelli da lancio e tre asce da bottaio e un carpentiere più avanti in questa via ha bisogno di un martello da mortasa e... Troppo, per fare l’elenco. Comincia con i coltelli e vedremo a che punto saremo prima di sera.»

Perrin s’immedesimò nel lavoro e per un poco dimenticò ogni cosa, tranne il calore del metallo, i colpi del proprio martello e gli odori della forgia; ma ci fu un momento in cui alzò gli occhi e vide che il fabbro (Dermid Ajala, aveva detto di chiamarsi) si toglieva la veste di cuoio. Il cortile per la ferratura era già buio: la luce proveniva dalla forgia e da un paio di lampade. Zarine, seduta sopra un’incudine accanto a una forgia spenta, lo osservava.

«Così sei davvero un fabbro, fabbro» disse.

«Certo che lo è» intervenne Ajala. «Apprendista, dice; ma secondo me il lavoro fatto oggi ha la qualità del mastro. Colpi magnifici e più che fermi.» Perrin cambiò posizione, a disagio per il complimento, e il fabbro gli sorrise. Zarine li fissò, senza capire.

Perrin andò a riappendere al piolo la veste di cuoio e il grembiule. Appena si spogliò, sentì sulla schiena lo sguardo di Zarine: gli parve quasi che lei lo toccasse. Per un istante si sentì soffocare dal suo profumo d’erbe. Si mise in fretta la camicia, la infilò alla meglio nelle brache e indossò la giubba. Poi si girò e vide che Zarine aveva uno di quei sorrisini misteriosi che l’avevano sempre innervosito.

«Allora è questo che vuoi fare?» domandò la ragazza. «Tutta questa strada, solo per tornare fabbro?»

Ajala si bloccò nell’atto di chiudere la porta del cortile e tese l’orecchio

Perrin raccolse il pesante martello che aveva usato quel giorno, una testa di dieci libbre con un manico lungo quanto il suo braccio. Gli stava bene in pugno. Sembrava appropriato. Ricordò che il fabbro l’aveva guardato in faccia una volta e non aveva neppure battuto ciglio: per lui contava il lavoro, l’abilità con i metalli, non il colore degli occhi. «No» rispose, in tono triste. «Un giorno, mi auguro. Non adesso.» Si mosse per appendere alla parete il martello.

«Prendilo» disse Ajala. Si schiarì la voce. «Di solito non do via un buon martello, ma... Il tuo lavoro di oggi vale molto più di quel martello e forse il martello t’aiuterà ad arrivare a quel “giorno". Se ho mai visto una persona nata per impugnare il martello da fabbro, quella sei tu, amico. Perciò prendilo. Tientelo.»

Perrin chiuse la mano intorno al manico: pareva davvero fatto per lui. «Grazie» disse. «Non posso spiegare cosa significa per me.»

«Ricorda solo quel “giorno” amico. Ricordalo.»

Mentre uscivano, Zarine lo guardò. «Hai idea di quanto siano bizzarri gli uomini, fabbro?» disse. «No, non credo.» Allungò il passo e lo lasciò, con in mano il martello, a grattarsi la testa.

Nessuno, nella sala comune, gli rivolse una seconda occhiata, anche se aveva occhi gialli e un martello da fabbro in mano. Perrin salì in camera sua e per una volta ricordò d’accendere la candela. Faretra e ascia pendevano dallo stesso piolo. Perrin alzò l’ascia in una mano, il martello nell’altra. L’ascia, con la lama a mezzaluna e il massiccio puntale, pesava cinque libbre buone meno del martello, ma pareva dieci volte più pesante. Perrin la rimise nel gancio alla cintura e posò per terra il martello, manico contro la parete, sotto il piolo. I manici dell’ascia e del martello, due pezzi di legno d’uguale spessore, quasi si toccavano. Due pezzi di metallo di peso quasi uguale. Perrin rimase a lungo seduto sullo sgabello, a fissarli. Li fissava ancora, quando Lan sporse nella stanza la testa.

«Vieni, fabbro. Dobbiamo parlare.»

«Sono davvero un fabbro» disse Perrin.

Il Custode lo guardò, perplesso. «Non prendertela con me, fabbro. Se non sopporti più il tuo stesso peso, rischi di trascinarci tutti giù dalla montagna.»

«Sopporterò il mio peso» ringhiò Perrin. «Farò ciò che va fatto. Cosa vuoi?»

«Te, fabbro. Non hai sentito? Vieni, contadino.»

Nell’udire l’appellativo usato spesso da Zarine, Perrin si tirò rabbiosamente in piedi, ma Lan si era già girato. Perrin lo seguì nel corridoio, verso la parte anteriore della locanda, con l’intenzione di dire al Custode che ne aveva abbastanza di “fabbro” e “contadino", che si chiamava Perrin Aybara. Lan s’infilò nell’unica stanza da pranzo privata della locanda, prospiciente la via.

Perrin lo seguì. «E ora ascoltami bene, Custode. Io non...»

«Ascolta tu, Perrin» disse Moiraine. «Fai silenzio e ascolta.» Aveva viso liscio, ma occhi truci e tono sinistro.

Perrin non si era accorto che nella stanza ci fossero altri, a parte lui e il Custode, in piedi, appoggiato col braccio alla mensola del camino spento. Moiraine sedeva al tavolo posto al centro della stanza, un mobile semplice, di quercia nera. Le altre sedie, dall’alto schienale intagliato, erano vuote. Zarine, torva in viso, era appoggiata alla parete di fronte a Lan; Loial si era seduto per terra, perché nessuna sedia era adatta a un Ogier.

«Sono lieta che ti sia deciso a unirti a noi, contadino» disse Zarine, sarcastica. «Moiraine non ha voluto dire niente, prima del tuo arrivo. Ma ci guarda come se stia per decidere chi di noi morirà fra poco. Io...»

«Fai silenzio» le disse Moiraine, aspra. «Uno dei Reietti si trova a Tear. Il Sommo Signore Samon è in realtà Be’lal.»

Perrin rabbrividì. Loial serrò gli occhi e mandò un gemito. «Potevo restarmene nello stedding» si lamentò. «Sarei stato felice, sposato con chiunque mia madre m’avesse scelto per moglie. Mia madre è una brava persona, non mi avrebbe dato a una cattiva moglie.» I capelli ispidi gli nascondevano completamente le orecchie.

«Puoi tornare a Stedding Shangtai» disse Moiraine. «Parti subito, se vuoi. Non ti fermerò.»

Loial aprì un occhio. «Posso andarmene?»

«Se vuoi.»

«Oh.» Loial aprì anche l’altro occhio e si grattò la guancia, con dita tozze e grosse come salsicciotti. «Immagino... immagino... se ho possibilità di scelta... che resterò con voi. Ho preso un mucchio d’appunti, ma non bastano per completare il libro. E poi, non mi piacerebbe abbandonare Perrin e Rand...»

Moiraine lo interruppe, gelida. «Bene, Loial. Sono lieta che tu rimanga. Sarò lieta di utilizzare le tue conoscenze. Ma fino ad allora non ho tempo d’ascoltare le tue lamentele!»

«Immagino» disse Zarine, con voce incerta «di non avere alcuna opportunità di andarmene, giusto?» Guardò Moiraine e rabbrividì. «Come non detto. Fabbro, se sopravvivo, te la faccio pagare.»

Perrin la fissò. “Io?" pensò “La stupida crede che sia colpa mia? Le ho chiesto io di venire?" Aprì bocca, vide l’espressione di Moiraine e si affrettò a chiuderla. Dopo un istante, disse: «Cerca Rand? Per fermarlo? O per ucciderlo?»

«Non credo» rispose Moiraine, con voce fredda come acciaio. «Temo che intenda lasciarlo entrare nel Cuore della Pietra a prendere Callandor, per poi portargliela via. Temo che intenda uccidere il Drago Rinato usando la stessa arma intesa a sconfiggere lui.»

«Scappiamo di nuovo?» disse Zarine. «Come a Illian? Quando ho pronunciato il giuramento dei Cercatori, non pensavo di darmi alla fuga. Ma neanche di trovare i Reietti.»

«Stavolta non scappiamo» disse Moiraine. «Non possiamo correre il rischio. Mondi e tempo riposano su Rand, sul Drago Rinato. Stavolta combattiamo.»

Perrin, a disagio, prese una sedia. «Moiraine, dici un mucchio di quelle cose a cui non dovevamo neppure pensare. Hai protetto questa stanza da orecchie indiscrete, vero?» L’Aes Sedai scosse la testa. Perrin strinse il bordo del tavolo, con tanta forza da far scricchiolare il piano di quercia.

«Qui non si tratta di un Myrddraal, Perrin. Nessuno conosce la forza dei Reietti. Si sa soltanto che Ishamael e Lanfear erano i più forti. Ma il più debole di loro percepirebbe a più d’un miglio di distanza le difese da me poste. E ci farebbe a brandelli nel giro di qualche secondo. Forse senza nemmeno spostarsi da dove si trova.»

«Insomma, hai le mani legate» borbottò Perrin. «Luce santa! Cosa dovremmo fare? Come possiamo fare qualcosa?»

«Neppure i Reietti sopportano il fuoco malefico» disse Moiraine. Perrin si domandò se era quello che aveva usato contro i Segugi Neri. Lo spettacolo e le parole di quel giorno lo mettevano a disagio ancora adesso.

«Nell’ultimo anno, Perrin, ho imparato alcune cose» prosegui Moiraine. «Sono... più pericolosa di quando venne a Emond’s Field. Se riesco ad avvicinarmi a Be’lal quanto basta, posso distruggerlo. Ma se lui mi vede per primo, può distruggerci tutti, molto prima che io abbia una possibilità.» Si rivolse a Loial. «Cosa puoi dirmi di Be’lal?»

Perrin rimase stupito. Loial?

«Perché chiedi a lui?» sbottò Zarine, con rabbia. «Prima dici al fabbro che vuoi farci affrontare un Reietto... che può ucciderci tutti in un batter d’occhio... e ora chiedi a Loial informazioni su di lui?» Loial mormorò in tono pressante il nome che lei usava ("Faile! Faile!") ma Zarine proseguì d’un fiato: «Pensavo che le Aes Sedai sapessero tutto. Io almeno sono abbastanza furba da non dire che affronterò qualcuno, se prima non so di lui tutto il possibile! Tu invece...» Sotto lo sguardo implacabile di Moiraine, lasciò morire la frase.

«Gli Ogier» disse freddamente Moiraine «hanno ricordi antichi, ragazza. Per gli esseri umani sono trascorse più di cento generazioni dalla Frattura, ma meno di trenta per gli Ogier. Ancora adesso dalle loro storie impariamo cose che non conoscevamo. Allora, Loial, cosa sai di Be’lal? Brevemente, una volta tanto. Voglio i tuoi ricordi antichi, non le tue lunghe chiacchiere.»

Loial si schiarì la voce, con un rumore simile a legna da ardere che cada lungo uno scivolo. «Be’lal» disse. Fece spuntare dai capelli le orecchie, come ali di colibrì, e tornò ad abbassarle. «Non so cosa ci sia su di lui, nelle storie, che tu già non sappia. Non è citato molto, se non nella distruzione della Sala dei Servitori, poco prima che Lews Therin il Kinslayer e i Cento Compagni lo imprigionassero insieme con il Tenebroso. Jalanda figlio di Aried figlio di Coiam scrisse che era chiamato l’Invidioso: ripudiò la Luce perché invidiava Lews Therin e anche Ishamael e Lanfear. Nel suo Studio della Guerra dell’Ombra, Moilin figlia di Hamada figlia di Juendan chiama Be’lal il Tessitore di Reti, ma non so per quale ragione. Riferisce che giocò con Lews Terin una partita a sassolini e che si vantò sempre d’avere vinto.» Diede a Moiraine un’occhiata e proseguì: «Cerco di essere conciso. Non so niente d’importante su di lui. Diversi autori dicono che, prima di ripudiare la Luce, Be’lal e Sammael erano comandanti nella lotta contro il Tenebroso e abili spadaccini. Non so altro, davvero. Può darsi che sia citato in libri e storie che non ho letto. Di Be’lal non si parla molto, tutto qui. Mi spiace di non averti riferito niente di utile.»

«Forse sì, invece» disse Moiraine. «Non conoscevo l’appellativo, Tessitore di Reti. Né che invidiava sia il Drago sia i suoi compagni nell’Ombra. Questo particolare rafforza la mia convinzione che voglia Callandor. Senza dubbio proprio per questo ha deciso di divenire Sommo Signore di Tear. E Tessitore di Reti... appellativo per chi fa piani, con pazienza e con astuzia. Mi sei stato molto utile, Loial.»

Per un momento l’Ogier incurvò la bocca in un sorriso; ma subito riprese la smorfia triste.

«Non fingerò di non essere spaventata» disse a un tratto Zarine. «Solo uno sciocco non avrebbe paura dei Reietti. Ma ho giurato d’essere una di voi e manterrò il giuramento. Volevo solo dire questo.»

Perrin scosse la testa. Era davvero pazza. A lui sarebbe piaciuto non fare parte del gruppo, essere ancora a casa a lavorare nella fucina di mastro Luhhan. «Se si trova dentro la Pietra» disse «e aspetta lì Rand, dobbiamo entrare anche noi, per avvicinarci a lui. Come entriamo? Tutti dicono che nessuno entra nella Pietra senza il permesso dei Sommi Signori e non vedo altre vie d’accesso, oltre le porte.»

«Voi non entrerete» disse Lan. «Moiraine e io saremo gli unici a entrare. Non so ancora come entreremo, ma il numero accrescerebbe la difficoltà. Anche per due soli, non sarà facile.»

«Gaidin» cominciò Moiraine, con voce ferma; ma il Custode la interruppe, con tono altrettanto fermo.

«Andiamo insieme, Moiraine» disse. «Stavolta non tollero d’essere lasciato in disparte.»

Dopo un momento Moiraine annuì. Perrin credette di scorgere in Lan un certo sollievo.

«Voi fareste bene a riposare un poco» riprese il Custode. «Io devo uscire a esaminare la Pietra.» Esitò. «C’è una cosa che le tue novità m’avevano fatto passare di mente, Moiraine. Una cosa di scarsa importanza... e non so quale significato possa avere. A Tear ci sono degli Aiel.»

«Aiel!» esclamò Loial. «Impossibile! L’intera città sarebbe nel panico, se un solo Aiel varcasse le porte.»

«Non ho detto che girano per le vie, Ogier. Anche tetti e comignoli della città offrono buoni nascondigli come il Deserto. Ne ho visti almeno tre, anche se a quanto pare nessun altro a Tear li ha scorti. E se ne ho visti tre, sta’ pur sicuro che ce ne sono molti altri.»

«Per me non significa niente» disse piano Moiraine. «Perrin, perché hai corrugato la fronte?»

Perrin non se n’era accorto. «Pensavo all’Aiel di Remen. Ha detto che, quando la Pietra cadrà, gli Aiel lasceranno la Triplice Terra. Ossia il Deserto, giusto? Ha detto che era una profezia.»

«Ho letto ogni parola delle Profezie del Drago, in ogni traduzione» disse piano Moiraine. «Non vi si fa cenno agli Aiel. Noi brancoliamo nel buio, mentre Be’lal tesse le sue reti e la Ruota intesse il Disegno intorno a noi. Ma è la Ruota, o Be’lal, a intessere gli Aiel? Lan, devi trovare in fretta il modo d’entrare nella Pietra. Tutt’e due.»

«Come ordini, Aes Sedai» rispose il Custode, ma con tono più caldo che formale. Uscì dalla stanza. Moiraine fissò il tavolo, pensierosa, con occhi velati.

Zarine si avvicinò a guardare Perrin, piegando di lato la testa. «Cosa intendi fare, fabbro?» domandò. «A quanto pare, a noi tocca aspettare e osservare, mentre loro vanno all’avventura. Non che me ne lamenti, però.»

Perrin non fu molto convinto dell’ultima asserzione. «Per prima cosa» rispose «vado a mangiare un boccone. Poi rifletterò su di un martello.»

Tra sé, soggiunse: “E cercherò di capire che cosa provo nei tuoi riguardi, Falco".

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