36 Figlia della Notte

Perrin si rese conto di non sapere quale fosse la propria cabina, quindi sporse la testa in parecchie. Erano tutte buie e in ognuna dormivano due uomini, in lettini contro la parete, uno di fronte all’altro, tranne quella che ospitava Loial, seduto per terra fra i letti (ci stava appena) e occupato a prendere appunti alla luce d’una lanterna. L’Ogier avrebbe voluto parlare degli eventi della giornata, ma Perrin, con le mascelle che gli dolevano per lo sforzo di trattenere gli sbadigli, si disse che ormai la nave aveva percorso un tratto sufficiente a permettergli di dormire senza sognare. I lupi non avrebbero potuto mantenere a lungo la velocità della nave, spinta dai remi e dalla corrente.

Finalmente trovò una cabina priva di finestrelle e senza occupanti, cosa che gli andava bene: voleva stare da solo. Mentre accendeva la lanterna fissata alla parete, si disse che il nome era soltanto una coincidenza: in fin dei conti, la ragazza non si chiamava Faile, ma Zarine. Comunque, non era al primo posto nei suoi pensieri. Posò sopra un letto arco e bagagli, li coprì col mantello e si sedette sull’altro letto per togliersi gli stivali.

Elyas Machera aveva trovato un compromesso per vivere legato in qualche modo ai lupi e non era impazzito. Ripensandoci, Perrin fu sicuro che Elyas vivesse già in quel modo da parecchi anni, da molto prima del loro incontro. Elyas voleva essere fratello dei lupi, o comunque lo accettava. Ma per lui, Perrin, non c’era soluzione: lui non voleva vivere a quel modo, non voleva accettare lo stato di cose. Però, se uno ha la barretta di ferro per fare un coltello, fa un coltello, anche se gli piacerebbe fare una scure. Ma la sua vita non era pezzo di ferro da sagomare a martellate!

Con prudenza aprì la mente alla ricerca di lupi e trovò... niente. Oh, ebbe una vaga impressione di lupi da qualche parte in lontananza, che però svanì appena toccata. Per la prima volta, dopo tanto tempo, era solo. Benedettamente solo. Spense la lanterna e si distese. Si domandò come se la sarebbe cavata Loial, in un lettino così piccolo. Ma sentì su di sé il peso di tutte le notti insonni e i muscoli che si rilassavano per lo sfinimento. Era riuscito a togliersi di mente l’Aiel. E i Manti Bianchi. Quella maledetta ascia! Non l’avesse mai vista! Sprofondò nel sonno.

Era circondato da fitta nebbia grigia: non riusciva a vedere i propri stivali e non distingueva niente nel raggio di dieci passi. Più vicino non c’era niente di sicuro; ma nella nebbia poteva nascondersi qualsiasi cosa. La nebbia pareva sbagliata: era priva d’umidità. Perrin si portò alla cintola la mano, cercando conforto nel pensiero che all’occorrenza poteva difendersi, e trasalì: non aveva l’ascia.

Qualcosa si mosse nella nebbia, un turbinio nel grigiore. Qualcosa che veniva dalla sua parte.

Perrin si tese, incerto se fosse meglio darsi alla fuga o restare a combattere a mani nude, ammesso che ci fosse qualcosa da combattere.

L’increspatura che forò la nebbia si rivelò un lupo, la cui sagoma irsuta si confondeva con la densa foschia.

"Hopper?" trasmise Perrin.

Il lupo esitò, venne a fermarsi accanto a lui. Era Hopper, Perrin ne fu sicuro; ma qualcosa nella posizione del lupo, qualcosa negli occhi gialli che per un attimo incrociarono il suo sguardo, esigeva silenzio, mentale oltre che fisico. Quegli occhi chiedevano pure che lui lo seguisse.

Perrin posò la mano sul dorso del lupo e Hopper si mosse. Perrin si lasciò guidare. Sentiva il pelame folto e irsuto: era reale.

La nebbia divenne più fitta, al punto che solo il contatto diceva a Perrin che Hopper era ancora lì. Solo nebbia grigia. Perrin non avrebbe visto molto di più, se l’avessero avvolto in lana appena tosata. Fu colpito dal fatto di non avere udito alcun rumore. Neppure quello dei propri passi. Contorse le dita dei piedi e con sollievo scoprì di avere gli stivali.

Il grigio divenne più scuro: Perrin e il lupo si trovarono a camminare nel buio assoluto. Perrin si toccò il naso e non riuscì a vedere la propria mano. Provò per un attimo a chiudere gli occhi e non notò alcuna differenza. Non c’erano rumori. Con la mano tastò il pelame irsuto del dorso di Hopper; ma non era sicuro di sentire qualcosa sotto i piedi.

All’improvviso Hopper si fermò, costringendo anche lui a fermarsi. Perrin si guardò intorno... e chiuse di scatto gli occhi. Ora c’era una differenza. E lui sentiva qualcosa: un senso di nausea allo stomaco. Si costrinse ad aprire gli occhi e guardò in basso.

La scena era impossibile, a meno che lui e Hopper non si trovassero a mezz’aria. Perrin non vedeva niente di se stesso né del lupo, come se tutt’e due fossero disincarnati (a questo pensiero si sentì annodare le viscere) ma in basso, chiara come alla luce d’un migliaio di lanterne, si estendeva un’infinita serie di specchi, apparentemente sospesi nelle tenebre, ma piatti come su di un vasto pavimento. Si estendevano a perdita d’occhio in ogni direzione; ma proprio sotto i suoi piedi c’era uno spazio sgombro. Con della gente. All’improvviso Perrin udì le voci, come se si fosse trovato in mezzo a loro.

«Sommo Signore» mormorò un uomo «dove si trova questo posto?» Si guardò intorno, trasalì all’immagine riflessa migliaia di volte e da quel momento tenne lo sguardo fisso davanti a sé. Gli altri, rannicchiati intorno a lui, parevano ancora più impauriti. «Ero a letto a Tar Valon, Sommo Signore. Sono ancora a letto a Tar Valon! Che posto è questo? Sono impazzito?»

Alcuni, intorno a lui, indossavano giubbe eleganti, ricamate; altri, abiti meno eleganti; altri ancora parevano nudi o seminudi.

«Anch’io sto dormendo!» quasi gridò un uomo nudo. «A Tear. Ricordo d’essere andato a letto, con mia moglie!»

«E io sto dormendo a Illian» disse, scosso, un uomo in vesti rosso e oro. «So di dormire. È assurdo. So di sognare. Ma è impossibile. Dove sono, Sommo Signore? Sei realmente venuto a me?»

Un uomo dai capelli scuri fronteggiava il gruppetto; vestiva tutto di nero, con trine argentee al collo e ai polsi. Di tanto in tanto si toccava il petto, come se gli dolesse. Lo spiazzo era vividamente illuminato, anche se la luce proveniva da fonti invisibili; eppure l’uomo pareva ammantato d’ombra. Le tenebre lo avvolgevano, lo accarezzavano.

«Silenzio!» L’uomo vestito di nero non alzò la voce, ma non ne aveva bisogno. Per un attimo, nel dire questa parola, aveva sollevato la testa: occhi e bocca erano fori aperti in una fornace ruggente, pieni di fiamme e di bagliore.

Allora Perrin lo riconobbe: Ba’alzamon. Stava guardando Ba’alzamon in persona. Fu inchiodato dalla paura. Sarebbe fuggito, ma non sentiva i piedi.

Hopper si agitò. Perrin gli strinse forte il pelame irsuto. Una cosa reale. Più reale, si augurò, di ciò che vedeva. Ma sapeva che tutt’e due le cose erano reali.

Gli uomini rannicchiati si fecero piccoli per la paura.

«Vi sono stati assegnati degli incarichi» disse Ba’alzamon. «Alcuni sono stati portati a termine. Altri si sono conclusi in un fallimento.» Di tanto in tanto gli occhi e la bocca svanivano di nuovo nelle fiamme e gli specchi lampeggiavano per il riflesso. «Chi è stato segnato per morire, deve morire. Chi è stato segnato per essere preso, deve inchinarsi a me. Il fallimento in un incarico del Signore delle Tenebre non ammette perdono.» Il fuoco gli risplendette negli occhi e intorno a lui le tenebre turbinarono. «Tu!» Ba’alzamon indicò l’uomo che aveva parlato di Tar Valon, un tizio vestito come un mercante, con abiti di taglio normale ma di ottima stoffa. Gli altri si ritrassero da lui come se avesse la febbre nera e lo lasciarono a farsi piccolo di paura da solo. «Hai lasciato che il ragazzo andasse via da Tar Valon.»

L’uomo urlò e cominciò a tremare come lima sbattuta contro un’incudine. Parve divenire meno solido e le urla si affievolirono con lui.

«Tutti al momento sognate» disse Ba’alzamon. «Ma ciò che avviene in questo sogno è reale.» L’uomo che aveva urlato era un semplice grumo di nebbia con forma umana le cui grida echeggiavano remote; poi anche la nebbia scomparve. «Temo che non si sveglierà più!» rise Ba’alzamon e dalla bocca eruttò fiamme. «Ma voi non fallirete di nuovo. Sparite! Svegliatevi e ubbidite!» Gli altri svanirono.

Per un momento Ba’alzamon restò da solo, poi all’improvviso con lui ci fu una donna, vestita di bianco e d’argento.

Perrin rimase sconvolto. Non avrebbe mai dimenticato una donna così bella: era quella che in sogno l’aveva incitato a cercare la gloria.

Dietro di lei comparve un trono d’argento riccamente ornato; la donna si sedette e si aggiustò con cura le sottane si seta. «Fai libero uso del mio dominio» disse.

«Del tuo dominio?» replicò Ba’alzamon. «Lo ritieni tuo, allora? Non servi più il Sommo Signore delle Tenebre?» Le tenebre intorno a lui s’infittirono per un istante, parvero ribollire.

«Lo servo» disse lei in fretta. «Ho servito a lungo il Signore del Crepuscolo. A lungo, perché lo servivo, sono stata imprigionata in un sonno eterno e privo di sogni. Solo ai Grigi e ai Myrddraal sono negati i sogni. Perfino i Trolloc sognano. I sogni sono sempre stati miei, per usarli e camminarvi. Ora sono di nuovo libera e userò ciò che è mio.»

«Ciò che è tuo» ripeté Ba’alzamon, mentre l’oscurità pareva turbinare allegramente intorno a lui. «Ti sei sempre creduta più importante di quanto tu non sia, Lanfear.»

Il nome colpì Perrin come coltello appena affilato. Nei suoi sogni si era manifestato uno dei Reietti. Moiraine aveva ragione: alcuni di loro erano liberi.

La donna adesso era in piedi e il trono era scomparso. «Pensa per te» replicò Lanfear. «Cos’hanno prodotto, i tuoi piani? Tremila e più anni a bisbigliare all’orecchio e a tirare fili di burattini sul trono, come un’Aes Sedai!» Caricò del massimo disprezzo possibile le ultime due parole. «Tremila anni: eppure Lews Therin cammina ancora nel mondo e le Aes Sedai quasi lo tengono al guinzaglio. Puoi controllarlo? Puoi convertirlo? Era mio, prima ancora che quella bamboccia dai capelli biondi, Ilyena, lo vedesse. Sarà mio di nuovo!»

«Ora servi te stessa, Lanfear?» disse Ba’alzamon, con calma, mentre le fiamme gli ruggivano in continuazione negli occhi e nella bocca. «Hai rinnegato i giuramenti al Sommo Signore delle Tenebre?» Per un istante le ombre quasi lo cancellarono e lasciarono scorgere solo il bagliore delle fiamme. «Non sono così facili da rinnegare come quelli della Luce, quando dichiarasti chi era il tuo nuovo padrone, nella stessa Sala dei Servitori. Il tuo padrone ti rivendica in eterno, Lanfear. Lo servi... o preferisci un’eternità di sofferenza, di morte senza rinascita?»

«Lo servo.» Malgrado le parole, Lanfear aveva un’aria di sfida. «Servo il Sommo Signore delle Tenebre e nessun altro. Per l’eternità!»

L’infinita serie di specchi iniziò a svanire, come coperta da ondate di tenebra sempre più vicine allo spiazzo centrale. La marea nera rotolò sopra Ba’alzamon e Lanfear. Ci fu solo tenebra.

Perrin sentì Hopper muoversi e fu felice di seguirlo, guidato solo dal contatto. Soltanto dopo essersi mosso, si rese conto di potersi muovere. Cercò di dare un senso alla scena appena vista, ma non ci riuscì. Ba’alzamon e Lanfear. Aveva la lingua incollata al palato. Per oscuri motivi era più atterrito da Lanfear che da Ba’alzamon Forse perché lei gli era comparsa nei sogni, fra le montagne E, se non aveva capito male, lei aveva sfidato il Tenebroso. A lui avevano insegnato che l’Ombra non può avere potere su nessuno, se la si rinnega; ma come poteva, un Reietto, sfidare l’Ombra?

Lentamente l’oscurità ridivenne nebbia e a poco a poco la nebbia si assottigliò, finché Perrin non ne uscì, insieme con Hopper, e si ritrovò in un pendio erboso, in piena luce del giorno. Da un folto d’alberi ai piedi dell’altura proveniva il cinguettio d’uccelli Una piana ondulata, punteggiata di boschetti, si estendeva all’orizzonte Non c’era segno di nebbia. Il grosso lupo grigio lo fissava.

"Cos’era?" domandò Perrin, sforzandosi di mutare nella propria mente la domanda in pensieri comprensibili al lupo. “Perché mi hai mostrato quella scena? Cos’era?"

Fu invaso da immagini e da sensazioni che tramutò in parole. “Era ciò che dovevi vedere. Sii prudente, Giovane Toro. Questo posto è pericoloso. Sii cauto come cucciolo a caccia d’un porcospino." L’ultima immagine s’avvicinava maggiormente a “piccolo dorso spinoso", ma Perrin la tradusse nel nome che conosceva come uomo. “Sei troppo giovane, troppo inesperto” trasmise ancora Hopper.

"Era reale?"

"Tutto è reale, ciò che si è visto e ciò che non si è visto." Pareva che Hopper non avrebbe aggiunto altro.

"Hopper, come mai sei qui? Ti ho visto morire. Ti ho sentito morire!"

"Tutti sono qui. Tutti i fratelli e le sorelle esistenti, tutti quelli che furono, tutti quelli che saranno." Perrin sapeva che i lupi non sorridono, non alla maniera degli esseri umani, ma per un attimo ebbe l’impressione che Hopper sogghignasse. “Qui volo in alto come le aquile” soggiunse il lupo. Si raccolse e balzò in aria. Salì sempre più in alto, fino a ridursi a un puntino nel cielo, e trasmise un ultimo pensiero: “Volo in alto".

Perrin rimase a fissarlo a bocca aperta. Hopper ce l’aveva fatta! All’improvviso si sentì bruciare gli occhi, si schiarì la gola e si strofinò il naso. Ancora un poco, e si sarebbe messo a piangere come una ragazzina! Istintivamente si guardò intorno per vedere se qualcuno avesse assistito alla scena e tutto cambiò d’incanto.

Si trovava su di un’altura circondata di avvallamenti ombreggiati e indistinti che parevano svanire in lontananza prima del dovuto. Più in basso c’era Rand, Rand e un cerchio irregolare di Myrddraal e di uomini e di donne che lui pareva non vedere Da qualche parte, in lontananza, dei cani ululavano e Perrin sapeva che davano la caccia a qualcosa. Il lezzo di Myrddraal e il puzzo di zolfo bruciato riempivano l’aria. Perrin si sentì rizzale i capelli.

Il cerchio di Myrddraal e di esseri umani si avvicinò a Rand: tutti camminavano come nel sonno. E Rand cominciò a ucciderli. Palle di fuoco volarono dalle sue mani e ne incenerirono due. Dall’alto cadde il fulmine a bruciarne altri. Barre di luce come di ferro al calor bianco saettarono dai suoi pugni e uccisero. I sopravvissuti continuarono la lenta avanzata, come se nessuno vedesse che cosa accadeva. Morirono uno dopo l’altro, finché non ne rimase nessuno, e Rand si lasciò cadere sulle ginocchia, ansimando. Perrin non capì se ridesse o piangesse: tutt’e due le cose insieme, pareva.

Delle sagome comparvero sulle alture, altra gente in arrivo, altri Myrddraal, tutti puntati su Rand.

Perrin si portò le mani alla bocca. «Rand!» gridò. «Rand, ne arrivano altri!»

Rand, accovacciato per terra, col viso imperlato di sudore, lo guardò e ringhiò.

«Rand, arrivano!»

«Brucia!» ringhiò Rand.

Un lampo di luce bruciò gli occhi di Perrin e il dolore disseccò ogni cosa.

Con un gemito, Perrin si rannicchiò nel lettino: sentiva ancora il bruciore dietro le palpebre. Aveva male al petto. Si toccò e trasalì nel trovare sotto la camicia una bruciatura grossa come monetina d’argento.

A poco a poco si costrinse a rilassare i muscoli per distendere le gambe e giacere supino nella cabina buia. Moiraine. Doveva dirlo a Moiraine, stavolta. Appena il dolore gli fosse passato.

Però, mentre il dolore diminuiva, fu colto dallo sfinimento. Pensò di doversi alzare, ma già il sonno l’aveva ripreso.

Quando riaprì gli occhi, giaceva supino e guardava le travi del soffitto. Dalla luce che filtrava dalla parte superiore e inferiore della porta capì che era mattino. Si portò la mano al petto per convincersi d’avere immaginato ogni cosa, con tanta verosimiglianza da sentire davvero una bruciatura...

E trovò la bruciatura. Allora non aveva immaginato tutto. Ricordava vagamente brandelli d’altri sogni che svanirono mentre cercava di metterli a fuoco. Sogni ordinari. Si sentiva addirittura come se avesse goduto di una buona notte di sonno. Ne avrebbe fatta volentieri una seconda, a cominciare da subito. Quindi poteva dormire. Fin tanto che non ci fossero stati lupi nelle vicinanze.

Ricordava d’avere preso una decisione, nel breve periodo di veglia dopo il sogno con Hopper; rifletté un momento e si convinse che era una decisione azzeccata.

Dopo avere bussato a cinque cabine e avere ricevuto due volte maledizioni in risposta (gli occupanti di altre due erano saliti sul ponte) trovò Moiraine. L’Aes Sedai, vestita di tutto punto, sedeva a gambe incrociate su di un letto e leggeva a lume di lanterna il libricino d’appunti. Controllava, notò Perrin, le prime pagine, che contenevano note prese di certo prima di recarsi a Emond’s Field. Il bagaglio di Lan era ordinatamente sistemato sull’altro letto.

«Ho fatto un sogno» disse Perrin e iniziò a raccontarlo, senza tralasciare niente. Alzò anche la camicia per mostrare la piccola ustione circolare sul petto, arrossata, dai cui bordi si allargavano linee sinuose. In precedenti occasioni aveva tenuto per sé certe cose e immaginava che l’avrebbe fatto anche in seguito; ma stavolta il sogno era troppo importante per non parlarne fino in fondo. In un paio di forbici, il perno è il pezzo più piccolo e più facile da costruire; ma senza di esso, non si taglia la stoffa. Quando ebbe terminato, rimase ad aspettare i commenti.

Moiraine l’aveva guardato senza espressione, ma quegli occhi scuri avevano esaminato ogni parola che gli usciva di bocca, l’avevano soppesata, misurata, tenuta contro luce. L’Aes Sedai non cambiò posizione, ma adesso era lui, a essere esaminato, soppesato, tenuto contro luce.

«Be’, è importante?» domandò infine Perrin. «Pensavo si trattasse di uno di quei sogni dovuti ai lupi, quelli di cui m’avevi parlato; ma questo fatto non rende reale ciò che ho visto. Però hai detto che forse alcuni Reietti sono liberi... e lui l’ha chiamata Lanfear e... È importante? O me ne sto qui a fare la figura dello sciocco?»

«Ci sono donne» rispose lentamente Moiraine «che farebbero del loro meglio per domarti, se udissero ciò che ho appena udito.» Perrin si sentì mancare il fiato. «Non dico che sei in grado d’incanalare il Potere e neppure d’imparare» proseguì Moiraine. «Un tentativo di domarti non ti danneggerebbe, a parte il rude trattamento cui ti sottoporrebbe l’Ajah Rossa prima di capire il proprio errore. Simili uomini sono molto rari e perfino le Rosse, con tutte le loro ricerche, negli ultimi dieci anni ne hanno trovati soltanto tre. Prima, almeno, che proliferassero i falsi Draghi. Cerco di farti capire una cosa: non credo che all’improvviso comincerai a manipolare il Potere. Non devi avere paura di questa eventualità.»

«Be’, grazie tante» replicò Perrin, amaro. «Potevi evitare di spaventarmi a morte per dirmi che non devo avere paura!»

«Oh, hai buoni motivi per spaventarti. O almeno per essere prudente, come suggeriva il lupo. Sorelle Rosse, o altri, potrebbero ucciderti, prima di scoprire che in te non c’era niente da domare.»

«La Luce m’incenerisca!» sbottò Perrin. La fissò in viso. «Tu cerchi di menarmi per il naso, Moiraine; ma non sono un vitello e non porto anelli al naso. Né l’Ajah Rossa né altri penserebbero di domarmi, se nel mio sogno non ci fosse qualcosa di reale. Significa che i Reietti sono in libertà?»

«T’ho già detto che potrebbero essere liberi. Alcuni di loro. Non mi aspettavo i tuoi... sogni, Perrin. Alcune Sognatrici hanno scritto di lupi, ma non m’aspettavo una cosa del genere.»

«Be’, penso che il sogno fosse reale. Penso d’avere visto un evento realmente accaduto e che in teoria non avrei dovuto vedere.» Ricordò la frase di Hopper: “Ciò che devi vedere". «Penso che almeno Lanfear sia in libertà» soggiunse. «Cosa farai?»

«Vado a Illian Da lì andrò a Tear e mi auguro d’arrivare prima di Rand Abbiamo dovuto abbandonare Remen troppo in fretta. Lan non ha potuto scoprire se Rand ha attraversato il fiume o se l’ha seguito. Ma dovremmo scoprirlo, prima di giungere a Illian. Troveremo segni, se è passato da questa parte.» Diede un’occhiata al taccuino, come se volesse riprendere la lettura.

«Tutto qui? Con Lanfear in libertà e la Luce sa quanti altri Reietti?»

«Non farmi domande» replicò Moiraine, freddamente. «Non sai quali rivolgere e capiresti meno della metà delle risposte, se rispondessi. Cosa che comunque non farò.»

Perrin si agitò a disagio sotto il suo sguardo intenso, finché non si convinse che Moiraine non avrebbe detto altro sull’argomento. La camicia gli sfregava dolorosamente la bruciatura sul petto. Non pareva ferita grave, no davvero, per chi era stato colpito da un fulmine!... ma come se l’era procurata era una faccenda ben diversa. «Ah... non potresti Guarirmi?»

«Non ti dispiace più che si usi su di te l’Unico Potere, Perrin? No, non la Guarirò Non è grave. Ti ricorderà che è necessario essere prudente.» Prudente nel pungolarla, capì Perrin, non solo nel sognare e nel parlarne ad altri. «Se non c’è altro .»

Perrin si diresse alla porta, si fermò. «Ancora una cosa» disse. «Il nome Zarine ti dice qualcosa?»

«Perché me lo domandi?»

«Una ragazza» spiegò Perrin, impacciato. «Una donna giovane L’ho incontrata ieri notte Fa parte dei passeggeri» Avrebbe lasciato a Moiraine il compito di scoprire da sola che Zarine l’aveva individuata come Aes Sedai e che, seguendoli, era convinta d’arrivare al Corno di Valere. Non avrebbe tenuto per sé niente d’importante; ma se Moiraine aveva segreti, poteva averne qualcuno anche lui.

«Zarine. Un nome della Saldaea Nessuna donna chiamerebbe così la propria figlia, se non s’aspettasse che diventi bellissima. E che infranga tanti cuori. Una ragazza che riposi su cuscini in un palazzo, circondata da servitori e da pretendenti» Sorrise per un attimo, ma con grande divertimento. «Forse, Perrin, hai un altro motivo per essere prudente, se fra i passeggeri c’è una Zarine.»

«Intendo proprio essere prudente» replicò Perrin Almeno ora sapeva perché a Zarine non piaceva il proprio nome era poco adatto a un Cercatore del Corno Purché non si definisse “falco"

Tornò sul ponte e vide che Lan si occupava di Mandarb Zarine, seduta su di un rotolo di corda accanto alla murata, affilava un coltello e teneva d’occhio il Custode Le grosse vele triangolari erano spiegate e tese; l’Oca delle Nevi correva velocemente sul fiume.

Zarine seguì con gli occhi Perrin che le passava accanto per andare a prua. Ai lati della nave l’acqua si arricciava come terreno contro un buon aratro. Perrin pensò ai sogni e agli Aiel, alle visioni di Min e ai falchi. Aveva male al petto. La vita non era mai stata per lui così ingarbugliata.

Rand si svegliò dal sonno di sfinimento, si alzò a sedere, ansimando, e scostò il mantello usato come coperta. Il fianco gli doleva, la vecchia ferita riportata a Falme gli pulsava. Il fuoco si era ridotto a braci con solo qualche fiammella tremolante, ma bastava ancora a far muovere le ombre. “Quello era Perrin” pensò Rand. “Era proprio lui, non un sogno! Ho rischiato di ucciderlo. Luce santa, devo stare attento!"

Rabbrividì; prese da terra un ramo di quercia e si mosse per metterlo sulle braci. Lì, nelle colline del Murandy, non lontano dal Manetherendrelle, gli alberi erano radi, ma lui aveva trovato legna sufficiente per il fuoco, rami caduti da tempo ma non ancora marci. Prima che il pezzo di legno toccasse le braci, Rand si fermò. Udì l’avvicinarsi di cavalli, una decina, a passo lento. Si disse di usare prudenza: non poteva permettersi altri errori.

I cavalli deviarono in direzione del fuoco morente, entrarono nel cerchio di luce e si fermarono. Le ombre nascondevano i cavalieri, ma quasi tutti parevano uomini dal viso duro, con elmo rotondo e lunghi farsetti di cuoio rivestiti di dischi metallici sovrapposti come scaglie di pesce. C’era anche una donna dai capelli quasi grigi e dall’aria pratica. Indossava una veste scura di lana comune, ma di ottimo taglio, con una spilla d’argento a forma di leone. Un mercante, parve a Rand: aveva visto altre come lei, fra quelli che venivano nei Fiumi Gemelli a comprare tabacco e lana. Un mercante e la sua scorta.

Si alzò, ripromettendosi di fare attenzione, di non commettere un altro errore.

«Hai scelto un buon posto per il campo, giovanotto» disse la donna.

«L’ho usato spesso anch’io nei miei viaggi a Remen. Qui vicino c’è una piccola sorgente. Mi auguro che non ti dispiaccia, se lo dividiamo con te.»

«Le guardie già smontavano, si aggiustavano il cinturone, allentavano la cinghia della sella.»

«Per niente» rispose Rand. Con due passi si avvicinò, balzò in aria, roteò... Lanugine di cardo nel turbine... la spada col marchio dell’airone, fatta di fuoco, e spiccò dal busto la testa della donna, prima ancora che la sorpresa le si dipingesse sul viso: lei era la più pericolosa.

Atterrò, mentre la testa della donna rotolava giù dalla groppa del cavallo. Le guardie gridarono e impugnarono la spada, urlarono nel rendersi conto che la spada di Rand bruciava. Rand danzò fra di loro, nelle figure insegnategli da Lan, e capì che avrebbe potuto ucciderli tutt’e dieci anche con acciaio normale; ma la lama che impugnava faceva parte di lui. L’ultimo uomo cadde; lo scontro era stato tanto simile a un allenamento, che Rand aveva già iniziato a rimettere nel fodero la spada, Ripiegare il ventaglio, prima di ricordare che non aveva alcun fodero e che, se l’avesse avuto, quella spada l’avrebbe incenerito al semplice tocco.

Lasciò svanire la spada e si girò a esaminare i cavalli. Quasi tutti erano scappati, alcuni però poco lontano; l’alto castrone della donna era rimasto lì, roteava gli occhi e nitriva nervosamente. Il cadavere decapitato, disteso al suolo, aveva mantenuto la stretta sulle redini e obbligava il cavallo a tenere bassa la testa.

Rand liberò le redini, si soffermò solo a raccogliere le sue cose e montò in sella. Doveva fare attenzione, pensò, mentre dava un’occhiata ai cadaveri; e non commettere errori.

Era ancora pieno del Potere, del flusso di Saidin, più dolce del miele, più maleodorante della carne putrefatta. All’improvviso lo incanalò... senza capire realmente cosa facesse, né come, ma con l’impressione di fare la cosa giusta... e sollevò i cadaveri. Li dispose in fila davanti a sé, inginocchiati, faccia a terra.

«Se sono davvero il Drago Rinato» disse, rivolto ai cadaveri «questa è la posizione giusta, no?» Si staccò a malincuore da Saidin. Se l’avesse abbracciato troppo a lungo, non sarebbe più riuscito a tenere lontano la pazzia. Ridacchiò di storto. Forse ormai era troppo tardi per tenerla lontano.

Corrugò la fronte e scrutò la fila di cadaveri: era sicuro che ci fossero solo dieci uomini, ma la fila ne comprendeva undici, uno dei quali senza armatura, ma con un pugnale ancora stretto fra le dita.

«Hai scelto la compagnia sbagliata» disse all’undicesimo.

Girò il castrone e lo lanciò al galoppo nella notte. Doveva percorrere ancora molta strada, ma intendeva arrivare a Tear per la via più diretta, a costo di sfiancare cavalli e rubarne altri. Avrebbe messo fine a quella storia. L’allettamento. L’esca. L’avrebbe fatta finita! Callandor. La spada lo chiamava.

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