48 Seguire l’arte

Mentre la Perca procedeva dondolando verso i moli di Tear, sulla riva occidentale dell’Erinin, Egwene non vide niente della città. Con la testa contro il bordo della murata, guardava l’acqua scorrere? lungo il tozzo scafo e il primo remo dalla sua parte comparire e scomparii re, tagliando solchi di spuma. Aveva la nausea, ma sapeva che, se avesse alzato la testa, si sarebbe sentita peggio. Guardare la riva avrebbe soltanto reso più evidente il lento dondolio della Perca.

Fin da Jurene la nave si era mossa con quel dondolio. Egwene se ne fregava di come avesse proceduto in precedenza: si ritrovò a desiderare che la Perca fosse affondata prima d’arrivare a Jurene. Avrebbe voluto che il capitano avesse fatto scalo ad Aringill, in modo che loro potessero trovare un’altra nave. Avrebbe voluto non essersi mai nemmeno avvicinata a una nave. Avrebbe voluto un mucchio di cose, la maggior parte solo per non pensare a dove si trovava.

Ora, sotto la spinta dei remi, il dondolio era minore di quando la nave procedeva a vela; ma ormai durava da troppi giorni perché Egwene si accorgesse della differenza Aveva l’impressione che lo stomaco le sguazzasse! dentro il corpo come latte in una zangola di pietra. Deglutì e cercò di pensare ad altro.

Sulla Perca non avevano fatto molti piani. Nynaeve non arrivava a trascorrere dieci minuti senza dare di stomaco e lo spettacolo spingeva Egwene a rimettere tutto il cibo che era riuscita a ingurgitare. Il caldo crescente non era d’aiuto. Al momento Nynaeve era sottocoperta e senza dubbio Elayne era lì a reggerle una catinella.

Oh, Luce santa, doveva smettere di pensarci! Campi verdeggianti Prati. I prati non si sollevavano a quel modo Colibrì No, niente colibrì allodole. Allodole cinguettanti.

«Lady Joslyn? Lady Joslyn?»

Egwene impiegò un momento a riconoscere il nome che aveva dato al capitano Canin e la voce del capitano stesso. Alzò lentamente la testa e guardò la faccia allungata del capitano.

«Attracchiamo, lady Joslyn. Hai continuato a dire che non vedevi l’ora di scendere a terra. Bene, ci siamo.» Il tono non nascose l’ansia di liberarsi delle tre passeggere, due delle quali non facevano altro che rimettere e gemere tutta la notte.

Marinai scalzi e con camicia senza maniche lanciavano gomene agli uomini sul molo di pietra sporgente nel fiume; i portuali parevano indossare lunghe vesti di cuoio al posto di camicie. I remi erano già stati ritirati, tranne un paio per impedire che lo scafo urtasse troppo rudemente contro il molo. Le pietre del molo erano bagnate; l’aria dava l’impressione di pioggia recente e questa era una piccola consolazione. Il movimento ondulatorio era cessato da qualche tempo, si rese conto Egwene, ma il suo stomaco lo ricordava ancora. Il sole calava. Lei cercò di non pensare alla cena.

«Molto bene, capitano Canin» rispose, con tutta la dignità che riuscì a mostrare. Il capitano non avrebbe usato quel tono, se lei avesse portato l’anello, neppure se gli avesse vomitato sugli stivali. Rabbrividì al pensiero. Ora l’anello col Gran Serpente, e l’altro, il ter’angreal di pietra ritorta, pendevano da una correggia intorno al collo. L’anello di pietra dava una sensazione di freddo contro la pelle, quasi sufficiente a contrastare il caldo umido dell’aria; ma, frescura a parte, Egwene aveva scoperto che, più usava il ter’angreal, più voleva toccarlo senza che si frapponessero sacchetto di pelle o stoffa.

Il Tel’aran’rhiod si era rivelato tuttora di scarsa utilità. A volte in quel, mondo Egwene aveva avuto fuggevoli visioni di Rand, o di Mat, o di Perrin, e visioni più numerose nei propri sogni normali, ma niente da cui trarre un senso. I Seanchan, ai quali si rifiutava di pensare. Incubi di un Manto Bianco che metteva mastro Luhhan come esca al centro d’una enorme trappola dai denti acuminati. Perché Perrin aveva un falco sulla spalla? E perché era importante che scegliesse fra l’ascia che ora portava alla cintola e un maglio da fabbro? Cosa significava il fatto che Mat giocasse a dadi col Tenebroso? E perché continuava a gridare “Sto arrivando!"? E perché nel sogno pensava che Mat gridasse a lei? E Rand. Si muoveva di soppiatto nell’oscurità completa verso Callandor, mentre intorno a lui camminavano sei uomini e cinque donne: alcuni gli davano la caccia e altri lo ignoravano, alcuni cercavano di guidarlo alla scintillante spada di cristallo e altri cercavano di tenerlo lontano da essa, ma tutti parevano non sapere dove lui si trovava o soltanto scorgerlo di sfuggita. Uno degli uomini aveva occhi di fuoco e voleva la morte di Rand, con una disperazione che lei quasi percepiva. Credeva di conoscerlo. Ba’alzamon. Ma chi erano gli altri? Rand di nuovo in quella stanza asciutta e polverosa, con quelle piccole creature che gli si annidavano nella pelle. Rand che affrontava un’orda di Seanchan. Rand che affrontava lei e le donne con lei, e una di loro era una Seanchan. Quei sogni la rendevano troppo confusa. Doveva smetterla di pensare a Rand e agli altri, doveva pensare a ciò che l’aspettava. Cosa combinava l’Ajah Nera? Perché lei non faceva sogni che la riguardassero? Luce santa, perché non imparava a fare in modo che il ter’angreal funzionasse come voleva lei?

«Fai sbarcare i nostri cavalli, capitano» disse a Canin. «Informerò lady Maryim e lady Caryla.» Ossia, Nynaeve e Elayne.

«Le ho già fatte avvisare, lady Joslyn. I vostri cavalli saranno sul molo appena i miei uomini avranno preparato l’asta con la braca.»

Pareva davvero soddisfatto di liberarsi di loro. Egwene pensò di dirgli che non c’era nessuna fretta, ma cambiò subito idea. Il dondolio della Perca forse era cessato, ma lei desiderava sentire di nuovo sotto i piedi la terraferma. Comunque si fermò ad accarezzare sul muso Nebbia e lasciò che la giumenta grigia le mordicchiasse la mano, per mostrare al capitano Canin di non avere molta fretta.

Nynaeve e Elayne comparvero in cima alla scaletta delle cabine, cariche di fagotti e delle bisacce da sella; e la seconda sorreggeva la prima. Quando Nynaeve s’accorse che Egwene guardava, si staccò da Elayne e proseguì senza aiuto fino alla stretta passerella per scendere sul molo. Due uomini sistemarono sotto la pancia di Nebbia un’ampia braca di tela. Egwene scese a prendere i bagagli. Al ritorno, la giumenta era già sul molo e il roano di Elayne dondolava sulla braca.

Per un momento, con i piedi sul molo, Egwene provò soltanto un senso di sollievo per la mancanza d’impennate e dondolii. Poi cominciò a guardare la città che tanto avevano penato per raggiungere.

Magazzini di pietra sorgevano alla base dei moli stessi; parecchie navi, grandi e piccole, erano ormeggiate lungo i moli o ancorate nel fiume. Egwene distolse subito lo sguardo dalle imbarcazioni. Tear sorgeva su terreno pianeggiante, senza nemmeno una montagnola. In fondo alle vie fangose di terra battuta fra i magazzini si scorgevano case e locande e taverne; di legno e di pietra. I tetti di ardesia o di tegole sporgevano bizzarramente e alcuni terminavano a punta. Più in là si scorgevano alte mura di pietra grigio scuro e la cima di torri cinte da alte balconate e palazzi dall’ampia cupola. Le cupole avevano forma quadrata e la cima delle torri era a punta, come alcuni tetti fuori delle mura. Tutto sommato, Tear era estesa quanto Caemlyn o Tar Valon; forse era meno bella, ma pur sempre una delle maggiori città. Tuttavia Egwene aveva occhi solo per la Pietra di Tear.

Ne aveva sentito parlare nelle storie, sapeva che quella era la più grande e più antica fortezza esistente al mondo, la prima costruita dopo la Frattura: eppure non era preparata allo spettacolo. Sulle prime pensò che fosse un’enorme collina di roccia grigia, oppure una piccola montagna che andava dall’Erinin verso occidente, attraverso le mura e dentro la città. Anche dopo avere visto l’enorme stendardo che sventolava sul punto più alto (tre mezzelune bianche in diagonale su campo metà rosso e metà oro: uno stendardo alto almeno trecento passi sul fiume, eppure tanto grande da essere chiaramente visibile) e gli spalti merlati e le torri, non riusciva a credere che la Pietra di Tear fosse stata edificata, anziché scolpita in una preesistente montagna.

«Costruita col Potere» mormorò Elayne. Anche lei fissava la Pietra! «Flussi di Terra intessuti per estrarre dal terreno le pietre, Aria per portarle qui da ogni angolo del mondo, Terra e Fuoco per renderle un pezzo unico, senza congiunzioni né calcina. Atuan Sedai diceva che la Torre stessa non potrebbe costruirla, oggigiorno. Fa impressione, se si pensa come i Sommi Signori considerano tutto ciò che riguarda il Potere.»

«Proprio per questo motivo» disse piano Nynaeve, con un’occhiata ai portuali che si aggiravano nei pressi «ritengo sia meglio non parlare a voce alta di certe cose.» Elayne parve combattuta fra un moto di stizza (in fin dei conti, aveva parlato sottovoce) e la verità di quelle parole: l’Erede concordava con Nynaeve troppo spesso e troppo prontamente, per i gusti di Egwene.

Ma solo quando Nynaeve aveva ragione, ammise Egwene a malincuore. Una donna che portasse l’anello o che fosse collegata a Tar Valon, lì sarebbe stata tenuta d’occhio. Invece i portuali non prestavano loro la minima attenzione, mentre andavano avanti e indietro, trasportando in spalla o su carriole balle o casse di merci. Nell’aria permaneva un intenso odore di pesce; ai tre moli seguenti erano ormeggiate decine di barche da pesca, simili a quelle del disegno nello studio dell’Amyrlin. Uomini a dorso nudo e donne scalze toglievano dalle barche ceste di pesci di colore argenteo, bronzeo, verdastro e altri che lei non avrebbe mai immaginato, come rosso vivo, azzurro cupo, giallo brillante, alcuni con strisce o chiazze bianche o di altri colori.

Abbassò la voce, perché udisse solo Elayne. «Ha ragione, Caryla. Non dimenticare per quale motivo ora ti chiami Caryla.» Non voleva che Nynaeve udisse una simile ammissione. Elayne rimase impassibile, ma Egwene sentì che da lei irradiava soddisfazione, come calore dal fornello.

In quel momento calavano sul molo il morello di Nynaeve; i marinai avevano già tolto dalla nave i finimenti e si limitarono a lasciarli cadere sulle pietre bagnate. Nynaeve diede un’occhiata ai cavalli e aprì bocca (per ordinare che li sellassero, Egwene ne era sicura) ma la richiuse e serrò le labbra, come se facesse uno sforzo. Si tirò anche la treccia. Prima che l’imbracatura posasse a terra il morello, Nynaeve aveva già buttato in groppa al cavallo la coperta a righe azzurre e vi aveva messo sopra la sella dall’alto arcione posteriore. Non guardò neppure le compagne.

Egwene non era ansiosa di mettersi a cavallo (forse per il suo stomaco il movimento dell’animale sarebbe stato troppo simile a quello della Perca) ma diede un’altra occhiata alle vie fangose e si convinse. Portava stivaletti robusti, ma non aveva voglia di ripulirli dal fango né di camminare tenendo sollevate le sottane. Sellò rapidamente Nebbia e montò in arcione prima di cambiare idea, sistemandosi le sottane divise in due per cavalcare come i maschi. A bordo, con un po’ di lavoro d’ago (stavolta l’aveva fatto Elayne, assai abile nel cucito) avevano modificato tutte le loro vesti.

Nynaeve impallidì un attimo, quando salì in sella e il cavallo decise di fare il balletto. Tenne a freno se stessa e l’animale e in breve lo ebbe sotto controllo. Superati lentamente i magazzini, riuscì a parlare. «Dobbiamo scoprire dove si trovano Liandrin e le altre, senza che se ne accorgano» disse. «Dì sicuro sapranno che stiamo per arrivare... o che qualcuno sta per arrivare, almeno. Ma vorrei che non sapessero che siamo qui, prima che per loro sia troppo tardi.» Inspirò a fondo. «Ancora, l’ammetto non ho trovato un piano valido. Avete suggerimenti?»

«Un acchiappaladri» disse Elayne, senza esitazione. Nynaeve la guardò, perplessa.

«Vuoi dire uno come Hurin?» domandò Egwene. «Ma Hurin era al servizio del suo sovrano. Qui uno come lui non sarebbe al servizio dei Sommi Signori?»

Elayne annuì. «Sì, infatti. Ma gli acchiappaladri non sono come le Guardie della Regina, a Caemlyn, né come i Difensori della Pietra, qui a Tear. Sono al servizio del sovrano, ma a volte, dietro compenso, ricuperano la refurtiva per chi è stato derubato. O rintracciano persone. Almeno a Caemlyn lo fanno. Non penso che a Tear sia diverso.»

«Allora» propose Egwene «prendiamo alloggio in una locanda e domandiamo al locandiere di trovarci un acchiappaladri.»

«Niente locande» rispose Nynaeve, con la stessa fermezza con cui reggeva le redini del morello. Moderò un poco il tono. «Liandrin ci conosce e dobbiamo presumere che pure le altre ci conoscano. Di sicuro terranno d’occhio le locande per scoprire chi segue la pista che hanno lasciato di proposito. Voglio far scattare la trappola sul loro muso, ma senza noi dentro. Non ci fermeremo in una locanda.»

Egwene non volle darle la soddisfazione di domandare dove, allora.

«Dove, allora?» domandò Elayne, perplessa. «Se mi facessi riconoscere, ammesso di convincere qualcuno, con queste vesti e senza scorta, sarei la benvenuta nella maggior parte delle Case nobili e probabilmente nella Pietra stessa, visti i buoni rapporti fra Caemlyn e Tear; ma prima di sera tutta la città lo saprebbe. Se escludiamo le locande, non riesco a pensare ad altri posti, Nynaeve. A meno che tu non voglia andare in qualche fattoria di campagna. Ma da lì non le troveremmo mai.»

Nynaeve lanciò un’occhiata a Egwene. «Lo saprò quando lo vedrò» rispose. «Lasciatemi guardare.»

Elayne guardò, perplessa, dall’una all’altra. «"Non tagliarti le orecchie perché non ti piacciono i tuoi orecchini"» borbottò, citando un proverbio.

Egwene si concentrò sulla via: non le avrebbe dato la soddisfazione di mostrarsi incuriosita!

In giro non c’era molta gente, a confronto di Tar Valon. Forse molti erano scoraggiati dal fango. Passavano carri e carretti, per la maggior parte trainati da buoi dalle ampie corna; il carrettiere procedeva a fianco del veicolo e si serviva di un lungo pungolo di un legno chiaro e screziato. Non si vedevano né carrozze, né portantine. Anche in queste vie aleggiava l’odore di pesce e non pochi passanti portavano sulla schiena ceste piene di pesce Le botteghe non parevano prospere; nessuna esibiva merci all’esterno e di rado qualcuno vi entrava. Avevano insegne (l’ago e la pezza di stoffa dei sarti, il coltello e le forbici dei venditori di arnesi da taglio, il telaio dei tessitori e così via) ma molte erano scrostate. Le poche locande avevano insegne in condizioni altrettanto cattive e non parevano fare più affari delle botteghe. Le case ammassate fra locande e botteghe spesso avevano tetti cui mancava una lastra d’ardesia o alcune tegole. Questa zona di Tear era povera. E a giudicare dal viso delle persone, pochi avevano ancora ambizioni di miglioramento. Si muovevano, lavoravano, ma ormai si erano rassegnati. Ben pochi degnarono di un’occhiata tre donne a cavallo dove ogni altro andava a piedi.

Gli uomini portavano brache a sbuffo, strette alla caviglia. Pochi indossavano la giubba, di tipo lungo e scuro, attillato intorno al petto e svasato sotto la cintola. C’erano più scarpe basse che stivali, ma abbondavano anche quelli che camminavano scalzi malgrado il fango. Molti non portavano né giubba né camicia e avevano brache sorrette da una larga fascia, a volte colorata e spesso lurida. Alcuni portavano larghi cappelli di paglia, di forma conica, e pochi un berretto di stoffa inclinato da una parte. Gli abiti femminili avevano collo alto fino al mento e arrivavano alla caviglia. Molte donne portavano un corto grembiule di colore chiaro, a volte due o tre, di dimensioni decrescenti, l’uno sull’altro; molte portavano un cappello di paglia come gli uomini, ma di colore intonato a quello dei grembiuli.

Guardando una donna, Egwene capì come chi calzava scarpe basse se la cavava col fango. La donna aveva piccole zeppe di legno legate alle suole, che la tenevano sollevata di una spanna dal fango, e camminava come se avesse i piedi saldamente piantati per terra. Dopo, Egwene notò che altri, uomini e donne, portavano un simile aggeggio. Anche alcune donne andavano in giro scalze, ma erano meno numerose degli uomini.

Egwene si domandava quale bottega vendesse quelle zeppe, quando a un tratto Nynaeve spinse il morello in un vicolo fra una lunga casa a due piani e la parete di pietra d’una bottega di vasaio. Egwene scambiò un’occhiata con Elayne, che si strinse nelle spalle; non sapeva dove andasse Nynaeve, né per quale motivo avesse imboccato il vicolo (alla prima occasione gliene avrebbe dette quattro) ma neppure intendeva separarsi da lei.

Il vicolo sbucò in un cortiletto chiuso dagli edifici circostanti. Nynaeve era già smontata e aveva legato le redini a un fico, dove il cavallo non sarebbe arrivato alle verdure che crescevano nell’orticello grande metà cortile. Una fila di pietre formava un sentiero fino alla porta posteriore. Nynaeve andò alla porta e bussò.

«Come mai ci fermiamo qui?» domandò Egwene, suo malgrado.

«Non hai visto le erbe nella vetrina?» rispose Nynaeve. Bussò di nuovo.

«Erbe?» si stupì Elayne.

«Una Sapiente» spiegò Egwene, smontando e legando Nebbia accanto al morello. “Gaidin non è nome adatto a un cavallo” si disse. “Crede forse che non sappia perché l’ha chiamato così?" E soggiunse: «Nynaeve ha trovato una Sapiente, o una Cercatrice, o come le chiamano da queste parti.»

Una donna socchiuse l’uscio quanto bastava a dare con diffidenza un’occhiata. Sulle prime Egwene pensò che fosse grassa; ma poi la donna spalancò il battente. Era senz’altro ben imbottita, ma, a giudicare dal modo di muoversi, possedeva buoni muscoli. Pareva robusta come comare Luhhan... e a Emond’s Field certuni sostenevano che Alsbet Luhhan fosse forte come il marito. Non era vero, ma neppure molto lontano dal vero.

«Come posso aiutarvi?» domandò la donna, con una cadenza simile a quella dell’Amyrlin. Aveva capelli grigi, acconciati in grossi riccioli che le cadevano ai lati del viso, e portava tre grembiuli di diverse tonalità di verde, ognuno un poco più scuro del sottostante. «Chi di voi ha bisogno di me?»

«Io» rispose Nynaeve. «Mi occorre un rimedio contro la nausea. E forse ne ha bisogno anche una delle altre due. Cioè, se siamo venute nel posto giusto.»

«Non sei di Tear» disse la donna. «Dagli abiti dovevo capirlo subito. Mi chiamano Mamma Guenna. Mi chiamano anche Sapiente, ma sono abbastanza vecchia da non fidarmene per calafatare una giunzione. Entrate e vi darò qualcosa contro la nausea.»

Si trovarono in una linda cucina, non molto vasta, con pentole di rame alle pareti, erbe e salsicce appese al soffitto. Alcune alte credenze di legno chiaro avevano ante impagliate con una sorta d’erba a stelo lungo. Il tavolo era di legno raschiato fino a sembrare bianco; il dorso delle sedie aveva intagli floreali. Una pentola di zuppa di pesce, dall’odore, sobbolliva sul fornello di pietra, insieme con un bricco a becco che cominciava a fumare. Nel camino non c’era fuoco, cosa per cui Egwene fu contenta: il fornello aumentava abbastanza il caldo, anche se Mamma Guenna non pareva farci caso. Sulla mensola del camino c’era una serie di piatti; altri erano ordinatamente impilati su scaffali ai lati. Il pavimento pareva appena spazzato.

Mamma Guenna chiuse la porta e si diresse alle credenze. «Quale infuso mi darai?» le domandò Nynaeve. «Foglia catenella? O genziana?»

«Te lo preparerei, se avessi l’una o l’altra» rispose Mamma Guenna; frugò sugli scaffali e prese un barattolo di pietra. «Di recente non ho avuto tempo di spigolare erbe, quindi ti darò un infuso di foglie di malvaccione bianco.»

«Non lo conosco» disse lentamente Nynaeve.

«Funziona come la foglia catenella, ma ha una punta d’amaro che a molti non piace.» Mise in una teiera azzurra pizzichi di foglie secche e si spostò accanto al focolare per aggiungere acqua calda. «Allora sei dell’arte? Siediti.» Indicò il tavolo, con la mano che reggeva due tazze smaltate d’azzurro, prese dalla mensola del camino. «Sedetevi e facciamo due chiacchiere. Chi è l’altra che soffre di nausea?»

«Io sto bene» disse con indifferenza Egwene, prendendo una sedia. «Tu hai la nausea, Caryla?» L’Erede scosse la testa, forse con una punta d’esasperazione.

«Non importa.» La donna versò a Nynaeve una tazza di liquido scuro e si sedette di fronte a lei. «Ne ho preparato a sufficienza per due, ma il tè di malvaccione bianco si conserva più a lungo del pesce salato. Più invecchia, più fa bene, ma diventa anche più amaro. È una gara fra quanto soffri di nausea e quanto sopporti il saporaccio. Bevi, ragazza.» Dopo un momento riempì la seconda tazza e bevve un sorso. «Vedi? Non t’avvelena.»

Nynaeve sorseggiò la bevanda, con una smorfia per il gusto cattivo. Però quando posò la tazza, era rasserenata. «È appena amarognolo» disse. «Senti, Mamma Guenna, ne avremo ancora per molto, di pioggia e fango?»

La donna si accigliò. «Non sono una Cercavento del Popolo del Mare, ragazza» replicò piano. «Se sapessi prevedere il tempo, preferirei infilarmi nelle gonne un luccio vivo, piuttosto che ammetterlo. I Difensori considerano una capacità del genere assai prossima all’opera delle Aes Sedai. Allora, segui l’arte o no? Hai l’aria di chi ha fatto un viaggio. Cosa toglie la fatica?»

«Tè d’erbasmorta» rispose Nynaeve, calma. «O radice d’andilaia. Visto che fai domande, cosa useresti per facilitare un parto?»

Mamma Guenna sbuffò. «Userei panni caldi, bambina, e forse darei alla puerpera un po’ di finocchio bianco, se il parto è difficile. Non serve altro, a parte una mano consolatrice. Non ti viene una domanda a cui non sappia rispondere qualsiasi donna di campagna? Cosa dai per il mal di cuore? Del tipo che uccide.»

«Polvere di fiore di gheandina sulla lingua» rispose vivacemente Nynaeve. «Se una donna ha fitte al ventre e sputa sangue, cosa fai?»

Presero a mettersi alla prova, con domande e risposte sempre più rapide. A volte rallentavano, quando una parlava di una pianta che l’altra non conosceva o che conosceva con un nome diverso, ma subito riprendevano velocità e discutevano dei meriti delle tinture nei confronti degli infusi, degli unguenti nei confronti dei cataplasmi e quando l’uno era migliore dell’altro. A poco a poco le rapide domande si spostarono verso erbe e radici che una conosceva e l’altra no, cercando nozioni nuove. Ascoltandole, Egwene cominciò a irritarsi.

«Dopo che gli somministri il saldaossa» diceva Mamma Guenna «avvolgi l’arto leso in panni imbevuti d’acqua in cui hai fatto bollire caprofiore azzurro... solo azzurro, bada bene... (Nynaeve annuì con impazienza) e caldi quanto può sopportare. Una parte di caprofiore azzurro per dieci d’acqua, non meno. Cambia i panni appena smettono di mandare vapore e continua così per tutto il giorno. L’osso si salderà due volte più in fretta che col solo saldaossa e sarà due volte più resistente.»

«Me ne ricorderò» disse Nynaeve. «Accennavi all’uso della radice di linguapecora per i dolori agli occhi. Non ho mai udito...»

Egwene non riuscì più a sopportare. «Maryim» intervenne «credi davvero d’avere ancora bisogno di queste nozioni? Non sei più una Sapiente o l’hai dimenticato?»

«Non ho dimenticato nulla» replicò Nynaeve, aspra. «Ricordo un tempo in cui eri altrettanto ansiosa d’imparare cose nuove.»

«Mamma Guenna» disse Elayne, blandamente «cosa fai per due donne che non smettono mai di discutere?»

L’altra sporse le labbra e fissò il tavolo. «In genere, siano uomini o donne, consiglio di stare lontano l’un dall’altro. È la cosa migliore e la più facile.»

«E se c’è un motivo che lo impedisca? Se sono sorelle, per esempio?»

«Ho un mio sistema personale per far smettere le discussioni» disse lentamente Mamma Guenna. «Non lo consiglio a nessuno, ma a volte me lo chiedono.» Aveva, pensò Egwene, un’ombra di sorriso agli angoli della bocca. «Alle donne chiedo un marco d’argento a testa. Agli uomini due marchi, perché gli uomini fanno più confusione. C’è gente che comprerebbe qualsiasi cosa, purché abbia prezzo salato.»

«Ma qual è la cura?» domandò Elayne.

«Dico loro che bisogna portare da me l’altro, quello con cui discutono. Tutt’e due s’aspettano che faccia tacere la lingua dell’altro.» Suo malgrado, Egwene ascoltava con attenzione. Notò che pure Nynaeve pareva concentrata. «Appena mi hanno pagato» proseguì Mamma Guenna, flettendo il braccio robusto «li porto fuori e li caccio con la testa nel barile dell’acqua piovana, finché non convengono di smettere di discutere.»

Elayne scoppiò a ridere.

«Forse l’avrei fatto anch’io, penso» disse Nynaeve, con tono fin troppo leggero. Egwene si augurò di non mostrare la stessa espressione di Nynaeve.

«Non ne sarei sorpresa» disse Mamma Guenna, che ora sorrideva apertamente. «E aggiungo che, se verrò a sapere che discutono di nuovo, interverrò gratis, ma userò il fiume. Non immagini quanto spesso la cura funzioni, soprattutto negli uomini. Per qualche ragione, chi riceve la cura non divulga mai i particolari, così ogni due tre mesi c’è sempre qualcuno che me la chiede. Chi è stato tanto sciocco da mangiare bavoselle, non va in giro a raccontarlo. Confido che nessuna di voi voglia buttare via un marco d’argento.»

«Credo di no» disse Egwene con un’occhiata di fuoco a Elayne, che era scoppiata di nuovo a ridere.

«Bene» disse Mamma Guenna. «Chi riceve la cura ha la tendenza a evitarmi come ortica impigliata nelle reti, a meno che non si ammali sul serio... e mi piace la vostra compagnia. I miei clienti attuali chiedono in genere rimedi contro i brutti sogni e si arrabbiano perché non ho niente da dare loro.» Per un momento si accigliò e si strofinò le tempie. «Fa piacere vedere tre facce che non hanno l’espressione di chi pensa che non rimanga altro che saltare dalla murata. Se vi fermate a Tear, tornate a trovarmi. Ti ha chiamato Maryim? Io sono Ailhuin. La prossima volta parleremo davanti a una buona tazza di tè del Popolo del Mare, anziché di una bevanda che fa arricciare la lingua. Luce santa, se odio il sapore del malvaccione! Le bavoselle avrebbero gusto migliore. Anzi, se avete tempo, vi preparo una tazza di Tremalking nero. E poi, non manca molto all’ora di cena. Ho solo pane, zuppa di pesce e formaggio, ma siete le benvenute.»

«Sei davvero gentile, Ailhuin» disse Nynaeve. «A dire il vero... Ailhuin, se tu avessi una stanza libera, la prenderei in affitto per noi tre.»

Mamma Guenna le guardò in silenzio. Si alzò, ripose nella credenza delle erbe il bricco con il tè di malvaccione, prese una teiera rossa e un sacchetto. Preparò una teiera di Tremalking nero, mise in tavola quattro tazze pulite, una ciotola di miele, quattro cucchiai di peltro e tornò a sedersi; solo allora rispose alla domanda.

«Al piano superiore ho tre stanze da letto vuote, ora che le mie figlie si sono maritate. Mio marito, la Luce splenda su di lui, scomparve nelle Dita del Drago, durante una tempesta, quasi vent’anni fa. Non chiederò affitto, se deciderò di farvi usare le stanze. Se, Maryim.» Addolcì col miele il tè, rimescolò il contenuto della tazza e continuò a esaminare le tre donne.

«Cosa ti farà decidere?» domandò piano Nynaeve.

Ailhuin continuò a rimescolare il tè, come se si fosse dimenticata di berlo. «Tre giovani donne, su ottimi cavalli. Non ne so molto, di cavalli; ma i vostri mi sembrano simili a quelli montati da dame e signori. Tu, Maryim, conosci l’arte al punto che a quest’ora dovresti avere appeso erbe alla finestra. Non ho mai udito di una donna che praticasse l’arte lontano dal luogo di nascita... e tu, a giudicare da come parli, ne sei molto lontano.» Diede un’occhiata a Elayne. «Capelli di quel colore non si trovano da molte parti. L’Andor, direi, dalla cadenza. Gli sciocchi parlano sempre di trovare una ragazza bionda dell’Andor. Ciò che voglio sapere è: perché? Fuggite lontano da qualcosa? O correte dietro qualcosa? Solo, non mi sembrate tre ladre e non ho mai sentito parlare di tre donne che diano insieme la caccia a un uomo. Perciò ditemi il motivo: se mi piace, le stanze sono vostre. Se volete rimborsarmi, comprate di tanto in tanto un po’ di carne. È diventata cara, da quando è cessato il commercio con il Cairhien. Ma prima il motivo, Maryim.»

«Diamo la caccia a una certa cosa, Ailhuin» disse Nynaeve. «O meglio, a certe persone.» Egwene si costrinse a restare in silenzio e si augurò di riuscirci bene come Elayne, che sorseggiava il tè come se ascoltasse discorsi sugli abiti: non credeva che agli occhi di Ailhuin Guenna sfuggisse molto. «Hanno rubato certi oggetti» riprese Nynaeve. «A mia madre. E hanno ucciso. Siamo qui per cercare che giustizia sia fatta.»

«Mi brucino l’anima, non avete uomini?» disse Mamma Guenna. «Gli uomini non sono buoni a molto, a parte sollevare carichi pesanti e cacciarsi fra i piedi la maggior parte delle volte... e baciare e cose simili... ma se c’è da combattere una battaglia o da acchiappare un ladro, che siano loro a occuparsene. L’Andor è un paese civile come Tear. Non siete Aiel.»

«C’eravamo soltanto noi» disse Nynaeve. «Coloro che potevano venire al nostro posto sono stati uccisi.»

"Le tre Aes Sedai assassinate” pensò Egwene. “Non potevano essere dell’Ajah Nera. Ma se non fossero state assassinate, forse l’Amyrlin non si sarebbe fidata di loro. Nynaeve cerca di attenersi ai maledetti Tre Giuramenti, ma in modo assai stiracchiato."

«Ah» disse Ailhuin, triste. «Hanno ucciso i vostri uomini? Fratelli, mariti o padri?» Chiazze di colore sbocciarono sulle guance di Nynaeve e l’altra fraintese l’emozione. «No, non dirmi niente, ragazza. Non voglio riportare a galla vecchie pene. Che giacciano sul fondo, finché non si saranno consumate. Su, su, cerca di calmarti.» Egwene, disgustata, riuscì con uno sforzo a non brontolare.

«Devo dirti una cosa» riprese Nynaeve, ancora rossa in viso, con voce tesa. «Questi assassini e ladri sono Amici delle Tenebre. E sono donne ma pericolose come qualsiasi spadaccino. Se ti domandavi perché non abbiamo cercato una locanda, questa è la risposta. Forse sanno che le seguiamo e tengono gli occhi aperti.»

Ailhuin sbuffò per non dare peso alla faccenda. «Delle quattro persone più pericolose che conosco, due sono donne che non portano neppure un coltellino; e degli altri due, solo uno sa usare la spada» disse. «In quanto agli Amici delle Tenebre... Maryim, quando avrai la mia età, avrai imparato che i falsi Draghi sono pericolosi, e i pesci scorpione e gli squali e anche le improvvise burrasche meridionali, ma che gli Amici delle Tenebre sono soltanto stupidi. Ripugnanti, ma stupidi. Il Tenebroso è imprigionato dove il Creatore lo rinchiuse e la Progenie delle Tenebre non lo farà uscire. Gli stupidi non mi fanno paura, a meno che non siano a bordo della mia stessa barca. Immagino che non abbiate prove da presentare ai Difensori della Pietra, giusto? Si tratta solo della vostra parola contro la loro?»

«Avremo le prove, quando troveremo loro» disse Nynaeve. «Avranno gli oggetti rubati. Possiamo descriverli: sono oggetti antichi, ma di scarso valore, se non per noi e per i nostri amici.»

«Non hai idea di quanto possano valere certi oggetti antichi» disse Ailhuin, ironica. «L’anno scorso, giù alle Dita del Drago, il vecchio Leuese Mulan ha trovato nelle reti tre ciotole e una tazza, fatte di pietra dell’anima. Ora, anziché una barchetta da pescatore, possiede una nave mercantile che risale il fiume. Il vecchio sciocco non sapeva quale tesoro avesse trovato, finché non gliel’ho detto io. È assai probabile che ce ne siano altre, ma Leuese non ricorda il punto esatto. Non so come riusciva a prendere qualche pesce. In seguito, metà delle barche da pesca di Tear sono andate da quelle parti, a dragare il mare con la speranza di trovare cuendillar, non grugnitori né saraghi; e in alcune barche c’era un lord a dire dove calare le reti. Ecco quanto valgono gli oggetti antichi, se sono davvero antichi. Ora, ho deciso che in questa storia vi occorre un uomo e conosco quello che fa per voi.»

«Chi?» domandò subito Nynaeve. «Se intendi un lord, uno dei Sommi Signori, ricorda che non possiamo presentare alcuna prova.»

Ailhuin rise fino a starnutire. «Ragazza, qui nel Maule nessuno conosce un Sommo Signore né un lord di qualsiasi grado. Le bavoselle non fanno banco con le menidie argentate. Farò venire qui uno dei due uomini pericolosi che conosco, quello che non è abile nell’uso della spada e che tuttavia è più pericoloso dell’altro. Juilin Sandar è un acchiappaladri. Il migliore. Non conosco le usanze dell’Andor, ma qui un acchiappaladri lavora per voi o per me come per un lord o per un mercante e chiederà anche un compenso minore. Juilin vi troverà quelle donne, se è possibile, e vi riporterà gli oggetti rubati, senza che dobbiate avvicinarvi a quelle Amiche delle Tenebre.»

Nynaeve si dichiarò d’accordo, ma parve ancora dubbiosa; Ailhuin si legò alle scarpe le zeppe (zoccoli, li chiamò) e uscì di fretta. Da una finestra della cucina Egwene la guardò passare davanti ai cavalli e girare l’angolo del vicolo.

«Impari le tecniche delle Aes Sedai, Maryim» disse, girando le spalle alla finestra. «Manipoli la gente con l’abilità di Moiraine.» Nynaeve sbiancò.

Elayne si accostò a Egwene e le diede uno schiaffo. Egwene rimase così sorpresa che si limitò a fissarla. «Sei andata troppo oltre» disse Elayne, brusca. «Troppo oltre. Dobbiamo vivere insieme, altrimenti moriremo di sicuro insieme! Hai forse detto ad Ailhuin il tuo vero nome? Nynaeve le ha rivelato ciò che potevamo rivelare, che cerchiamo degli Amici delle Tenebre... ed è già un bel rischio, collegare noi stesse agli Amici delle Tenebre. Ha detto che si trattava di assassine pericolose. Volevi che parlasse dell’Ajah Nera? Qui a Tear? Rischieresti tutto sulla possibilità che Ailhuin tenga per sé questa informazione?»

Egwene si massaggiò cautamente la guancia: Elayne aveva forza, nelle braccia. «Non deve piacermi per forza!» replicò.

«Lo so» sospirò Elayne. «Vale anche per me. Ma dobbiamo fare in modo che ci piaccia!»

Egwene si girò di nuovo verso la finestra e guardò i cavalli. “So che siamo obbligate” pensò. “Ma non deve piacermi per forza."

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