32 La prima nave

Il Porto Meridionale, costruito dagli Ogier, era un vasto bacino di forma circolare, circondato da alte mura della stessa pietra bianca striata d’argento utilizzata per il resto di Tar Valon. Un lungo molo, in gran parte coperto di tettoia, correva tutt’intorno, tranne nel punto dove le ampie porte davano accesso al fiume. Vascelli d’ogni grandezza erano ormeggiati al molo, per la maggior parte di poppa; malgrado l’ora, portuali in camicia senza maniche si affaccendavano a caricare e scaricare balle di merci, bauli, casse e barili, usando funi e gru, oppure la propria schiena. Lanterne appese alle travi della tettoia illuminavano il molo e formavano un anello di luce intorno all’acqua scura al centro del porto. Piccole barche aperte si muovevano nel buio e le lanterne quadrate poste in cima al dritto di poppa davano l’impressione di lucciole che scivolassero per il porto. Le barche, però, erano piccole solo a confronto delle navi: alcune avevano fino a sei coppie di lunghi remi.

Mat guidò un Thom ancora borbottante sotto un arco di granito levigato e giù per i larghi gradini che portavano al molo; a meno di venti passi da loro, l’equipaggio di un tre alberi scioglieva le gomene. Il vascello era più grande di tanti altri, fra le quindici e le venti braccia dalla prua a punta alla poppa quadrata, col ponte piatto quasi a livello del molo. La cosa importante era che la nave stava per salpare. La prima a fare vela, ricordò Mat.

Un uomo brizzolato risalì il molo: tre spighette di canapo cucite lungo le maniche della giubba scura lo qualificavano capocantiere. Le ampie spalle suggerivano che avesse iniziato la carriera come portuale, tirando canapi, anziché portarli cuciti sulle maniche. L’uomo diede un’occhiata indifferente nella direzione di Mat e subito si bloccò, con aria sorpresa. «I tuoi fagotti rivelano le tue intenzioni, ragazzo» disse. «Fai meglio a scordartele. La Sorella mi ha mostrato un disegno con la tua faccia. Non salirai a bordo di nessuna nave nel Porto Meridionale, ragazzo. Torna su per quella scala, così non dovrò staccare un uomo che ti tenga d’occhio.»

«Maledizione, cos’hai combinato?» mormorò Thom.

«La situazione è cambiata» disse Mat, deciso. Dalla nave lanciavano sul molo l’ultima gomena d’ormeggio; le vele triangolari erano ancora arrotolate sulle lunghe aste oblique, ma i marinai preparavano i remi. Mat tolse dalla borsa il documento firmato dall’Amyrlin e lo cacciò sotto il naso del capocantiere. «Come vedi, sono in missione per conto della Torre, su ordine dell’Amyrlin Seat in persona. E devo imbarcarmi proprio su questa nave.»

Il capocantiere lesse il documento, lo rilesse. «In vita mia non ho mai visto niente del genere» disse. «Perché la Torre ha proclamato che non potevi andartene e poi ti ha dato... questo?»

«Domandalo all’Amyrlin, se vuoi proprio saperlo» rispose Mat, con voce stanca, lasciando capire che nessuno era tanto stupido da farlo. «Ma lei avrà la mia pelle e la tua, se non parto con questa nave.»

«Non ce la farai» disse il capocantiere; ma già aveva portato alla bocca le mani a coppa. «Voi del Gabbiano Grigio!» gridò. «Ferma! La luce v’incenerisca, fermatevi!»

Il tizio senza camicia, che reggeva il timone, girò la testa e disse qualcosa a un tipo alto, dalla giubba scura con maniche a sbuffo. Costui non distolse gli occhi dai marinai che avevano appena tuffato in acqua i remi. «Avanti insieme» gridò. Le pale dei remi sollevarono spuma.

«Ce la farò» disse Mat, brusco. Aveva detto la prima nave e la prima nave sarebbe stata! «Vieni, Thom!»

Non aspettò di vedere se il menestrello lo seguiva: corse lungo il molo, scansò portuali e carriole piene di merci. La distanza fra la poppa del Gabbiano Grigio e la banchina aumentò, mentre i remi mordevano l’acqua. Mat alzò il bastone, lo lanciò davanti a sé come una lancia, mosse ancora un passo e saltò con tutte le sue forze.

Sorvolò acqua scura che pareva gelida e in un attimo fu al di là della murata e rotolò sul ponte. Mentre si rialzava, udì alle sue spalle un grugnito e un’imprecazione.

Thom Merrilin scavalcò la murata, imprecò ancora e si calò sul ponte. «Ho perso il bastone» brontolò. «Me ne servirà un altro.» Si massaggiò la gamba destra e scrutò la fascia d’acqua, sempre più larga, che separava la nave dal molo. Rabbrividì. «Oggi ho già fatto un bagno» disse. Il timoniere girava gli occhi sgranati da lui a Mat e viceversa; stringeva la barra e pareva domandarsi se usarla per difendersi da quei due pazzi.

L’uomo alto parve altrettanto stupito: sbarrò gli occhi, azzurro chiaro, e per un momento mosse le labbra senza emettere suono. La barba scura, tagliata a punta, vibrava di rabbia e il viso divenne paonazzo. «Per la Pietra!» gridò infine l’uomo. «Cosa significa? Sulla nave non ho spazio neppure per un gatto e in ogni caso non prenderei a bordo vagabondi che mi saltano sul ponte. Sanor! Vasa! Buttate in acqua questi due rifiuti!»

Due marinai eccezionalmente robusti, scalzi e a torso nudo, smisero di arrotolare gomene e si diressero a poppa. Quelli ai remi continuarono a spingere la nave: piegavano la schiena per sollevare i remi, facevano tre lunghi passi, si raddrizzavano e arretravano di tre passi.

Mat sventolò verso l’uomo alto — il capitano, ritenne — il documento dell’Amyrlin e intanto pescò dalla borsa una corona d’oro, lasciando vedere che ce n’erano altre. Gettò al capitano la moneta d’oro e, senza smettere di sventolare il documento, disse in fretta: «Per il disturbo d’essere saliti a bordo di sorpresa, capitano. Te ne darò altre per il viaggio. Siamo in missione per conto della Torre Bianca. Ordine dell’Amyrlin Seat in persona. Dovevamo partire immediatamente. Per Aringill, nell’Andor. Con la massima urgenza. La benedizione della Torre Bianca su chiunque ci aiuti, la collera della Torre su chiunque ci ostacoli.»

Di sicuro il capitano aveva visto la Fiamma di Tar Valon (e poco d’altro, si augurò Mat) nel tempo che lui impiegò a ripiegare il documento e a rimetterlo nella borsa. Guardò a disagio i due colossi che intanto si erano posti ai lati del capitano (avevano, pensò, braccia muscolose come Perrin!) e rimpianse di non avere in pugno il bastone dalla punta ferrata, finito sul ponte, un po’ più avanti. Cercò di mostrarsi sicuro e fiducioso, il tipo d’uomo che non conviene stuzzicare, spalleggiato dal potere della Torre Bianca. Ormai molto lontana, si augurò.

Il capitano guardò con espressione dubbiosa Mat e soprattutto Thom, nell’abbigliamento da menestrello, che si reggeva in piedi con una certa difficoltà, ma fece segno a Sanor e a Vasa di non muoversi. «Non susciterei mai la collera della Torre» disse. «Maledizione, al momento i miei traffici mi portano da Tear a questo covo di... insomma, vengo qui troppo spesso per far arrabbiare... chiunque.» Sorrise a denti stretti. «Ma ho detto la pura verità. Ho sei cabine passeggeri, tutte piene. Potete dormire sul ponte e consumare i pasti insieme con l’equipaggio, per un’altra corona d’oro. A testa.»

«Assurdo!» disse Thom, brusco. «Non m’interessa cosa ha fatto la guerra giù a valle, ma è assurdo!» I due marinai si agitarono, pronti a intervenire.

«Il prezzo è questo» replicò il capitano, deciso. «Non voglio provocare l’ira di nessuno, ma preferirei non essere immischiato nelle faccende che vi hanno portato a bordo della mia nave. Sarebbe come lasciare che un uomo ti paghi per poterti coprire di catrame bollente! Pagate la tariffa o saltate in acqua... e l’Amyrlin stessa vi asciughi pure. Questa me la tengo per i fastidi che m’avete procurato, grazie.» Si cacciò in tasca la corona d’oro.

«Quanto, per una cabina?» domandò Mat. «Tutta per noi. Potresti trasferire in un’altra gli attuali occupanti.» Non aveva voglia di dormire all’aperto nel freddo della notte. “Se non metti in riga un tipo come lui” si disse “quello ti ruba le brache e ti fa credere d’averti fatto un favore." Sentì brontolare lo stomaco. «E faremo i pasti con te, non con l’equipaggio. E pasti abbondanti!»

«Mat, qui l’ubriaco sarei io» disse Thom. Si rivolse al capitano, facendo svolazzare il mantello dalle toppe multicolori, per quanto gli era possibile, dal momento che portava in spalla la coperta arrotolata e le custodie con arpa e flauto. «Come forse hai notato, capitano, sono un menestrello» disse. Anche all’aria aperta, la sua voce parve a un tratto echeggiare. «Per il prezzo del viaggio, sarei più che lieto d’intrattenere gli altri passeggeri e l’equipaggio...»

«Il mio equipaggio è a bordo per lavorare, menestrello, non per divertirsi» replicò il capitano, lisciandosi la barba a punta; intanto valutò al centesimo la giubba di Mat. «Così volete una cabina, eh?» Latrò una risata. «E i miei pasti, eh? Bene, avrete la mia cabina e i miei pasti, per cinque corone d’oro a testa! Corone dell’Andor!» Erano le più pesanti, naturalmente. Si mise a ridere, così forte da ansimare. Ai suoi fianchi, Sanor e Vasa sogghignavano. «Per dieci corone» ripeté il capitano «potete prendervi la mia cabina e i miei pasti; io mi trasferirò con i passeggeri e mangerò con l’equipaggio. Certo, lo giuro! Per dieci corone d’oro...» Le risate soffocarono il resto.

Rideva ancora, ansimava per riprendere fiato e si asciugava le lacrime quando Mat tirò fuori una delle due borse; ma tornò serio di colpo, quando Mat gli mise in mano cinque corone. Batté le palpebre, incredulo; i due colossi parvero rintronati da un colpo in testa.

«Corone dell’Andor, hai detto?» domandò Mat. Era difficile giudicare, senza bilancino; ma aggiunse al mucchietto altre sette monete. Due erano effettivamente dell’Andor, ma le altre più o meno raggiungevano il peso richiesto. Dopo un momento aggiunse altre due corone d’oro tairenesi. «Per rimborsare chi caccerai dalla cabina» disse. Non credeva che i passeggeri avrebbero visto un centesimo, ma a volte la generosità ripagava. «A meno che tu non voglia dividerla con loro. No, naturalmente. Dovrebbero essere risarciti per dividere la cabina con altri. E non occorre che, consumi i pasti insieme con l’equipaggio, capitano. Sarai il benvenuto alla nostra tavola.» Thom lo fissò con la stessa durezza degli altri.

«Sei...» domandò il capitano, con un bisbiglio rauco. «Sei... sei per caso... un giovane lord sotto falso nome?»

«Non sono affatto un lord» rise Mat. Ora aveva motivo di ridere. Il Gabbiano Grigio era ben addentro nel buio del porto e il molo era solo una banda di luce che indicava l’ingresso nero, non molto distante, dove le porte immettevano nel fiume. I remi spingevano rapidamente la nave verso l’apertura. I marinai già muovevano le lunghe aste oblique e si preparavano a sciogliere le vele. E il capitano, con le mani piene di monete d’oro, pareva molto meno pronto a gettare in acqua qualcuno. «Se non ti spiace, capitano, potremmo vedere la nostra cabina? La tua cabina, voglio dire. Farei volentieri qualche ora di sonno.» Sentì il brontolio del proprio stomaco. «E anche cena!»

La nave già puntava nelle tenebre; il capitano li guidò giù per una scaletta, lungo un breve corridoio fiancheggiato di porte assai ravvicinate e dentro una cabina, larga quanto la poppa, con il letto e i mobili imbullonati alle pareti, tranne due sedie e alcuni bauli. Mentre lui toglieva dalla cabina la propria roba e provvedeva a farli sistemare, Mat apprese parecchie cose: tanto per cominciare, il capitano non avrebbe scacciato nessun passeggero. Aveva troppo rispetto per il denaro pagato, se non per le persone. Avrebbe preso la cabina del primo ufficiale, che avrebbe occupato quella del secondo, e così via.

Mat non ritenne molto utile questa informazione, ma ascoltò tutto quello che il capitano diceva. Era sempre meglio sapere non solo dove si andava ma anche con chi si aveva a che fare, altrimenti t’avrebbero tolto giubba e stivali e t’avrebbero rimandato a casa scalzo sotto la pioggia.

Il capitano, Huan Mallia, era tairenese; fattasi un’idea di Mat e di Thom, prese a parlare con grande volubilità. Non era di nobile nascita, disse, ma non certo uno sciocco. Un giovanotto che aveva più oro del normale, poteva essere un ladro, ma tutti sapevano che nessun ladro poteva scappare da Tar Valon portando con sé il bottino. Un giovanotto con l’aria e gli abiti del campagnolo, ma con la sicurezza del lord che negava d’essere... «Per la Pietra, non dirò che sei un lord, se dici di non esserlo» ridacchiò, ammiccando e tirandosi la barbetta a punta. Un giovanotto munito di un documento con il sigillo dell’Amyrlin Seat e diretto nell’Andor. Non era un segreto che la regina Morgase era venuta in visita a Tar Valon, anche se non si conosceva il motivo. Era chiaro, per lui almeno, che ci fosse sotto qualcosa, fra Caemlyn e Tar Valon. E Mat e Thom erano messaggeri... per conto di Morgase, pensava, a causa del modo di parlare di Mat. Sarebbe stato felice di fare il possibile per collaborare e non intendeva cacciare il naso dove non avrebbe dovuto.

Mat scambiò occhiate di stupore con Thom, occupato a infilare sotto un tavolo imbullonato alla parete gli astucci degli strumenti. La cabina aveva due finestrelle per lato e un paio di lampade fissate a staffe.

«Tutte sciocchezze» disse Mat.

«Certo, certo» replicò Mallia, che tirava fuori da un baule ai piedi del letto alcuni vestiti. «Naturalmente.» Tolse dall’armadio a parete le carte fluviali che gli occorrevano. «Non dirò altro.»

Ma intendeva curiosare, per quanto fingesse il contrario, e continuò con le chiacchiere, mentre scrutava da tutte le parti. Mat lo ascoltò e alle domande rispose con un borbottio o con un paio di parole; Thom parlò ancora meno e continuò a scuotere la testa, mentre si toglieva di spalla i fagotti.

Mallia era stato per tutta la vita marinaio fluviale, ma sognava il mare. Usava toni sprezzanti per quasi tutte le nazioni, Tear esclusa: salvò soltanto l’Andor, a malincuore. «Pare che nell’Andor ci siano buoni cavalli» riconobbe. «Non buoni come quelli di razza tairenese, ma abbastanza buoni. Gli andorani fanno buon acciaio, lavorano bene ferro, bronzo e rame... ho commerciato abbastanza spesso, anche se i prezzi sono alti... ma hanno le miniere, nelle Montagne delle Nebbie. Anche miniere d’oro. A Tear l’oro ce lo dobbiamo guadagnare.»

La nazione trattata peggio fu il Mayene. «Persino inferiore al Murandy» disse. «Una sola città e poche leghe di terra. Abbassano il prezzo del nostro buon olio d’oliva tairenese, solo perché le loro navi sanno come trovare i banchi di pesci da olio. Non hanno alcun diritto d’essere una nazione.»

Odiava l’Illian. «Un giorno o l’altro spoglieremo l’Illian, raderemo al suolo ogni città e ogni villaggio, spargeremo sale sulle loro sporche terre.» Aveva quasi la barba dritta. «Perfino le loro olive sono marce! Un giorno porteremo via in catene quei porci illiani, tutti fino all’ultimo! Così dice il Sommo Signore Samon.»

Mat si domandò che cosa poteva farsene Tear di tutta quella gente. Bocche da sfamare e mani che in catene non avrebbe lavorato di sicuro. Per lui era un’idea assurda, ma a Mallia brillavano gli occhi, mentre ne parlava.

Disse che solo gli stupidi si lasciavano governare da un re o da una regina, da una sola persona. «Fatta eccezione per la regina Morgase» si affrettò a soggiungere. «Lei è un’ottima regina, dicono. Anche molto bella, corre voce.» Invece i Sommi Signori governavano Tear tutti insieme e stabilivano di comune accordo le decisioni, com’è giusto che sia. I Sommi Signori sapevano cos’era giusto e buono e vero. Soprattutto il Sommo Signore Samon. Nessuno sbagliava, se ubbidiva ai Sommi Signori. Soprattutto al Sommo Signore Samon.

Al di là di re e di regine, perfino al di là dell’Illian, c’era in Mallia un odio profondo che il capitano tentava di tenere nascosto; ma parlava talmente tanto, nel tentativo di scoprire le intenzioni dei due, e si lasciava talmente trasportare dal suono della propria voce, da lasciar trapelare più indizi di quanti non volesse.

I due viaggiavano di sicuro parecchio, al servizio di una grande regina come Morgase. Di sicuro avevano visto molte nazioni. Lui sognava il mare, perché così avrebbe visto terre di cui aveva soltanto sentito parlare, perché allora avrebbe trovato i banchi di pesci dei mayenesi, avrebbe battuto nel commercio il Popolo del Mare e gli sporchi illiani. E il mare era molto lontano da Tar Valon. Questo lo capivano di certo, obbligati com’erano a viaggiare in luoghi bizzarri tra popoli bizzarri, luoghi e popoli che non avrebbero sopportato, se non avessero servito la regina Morgase.

«Non mi è mai piaciuto fare scalo qui, senza mai sapere chi potrebbe fare uso del Potere» disse, quasi sputando l’ultima parola. Però, dal momento che aveva udito cosa diceva il Sommo Signore Samon... «Mi bruci l’anima, ma ora, sapendo cosa tramano, solo a guardare la loro Torre Bianca ho l’impressione che le teredini mi scavino le viscere.»

Il Sommo Signore Samon diceva che le Aes Sedai volevano governare il mondo. Samon diceva che intendevano schiacciare ogni nazione, mettere il piede sul collo d’ogni uomo. Samon diceva che Tear non poteva più tenere fuori del proprio territorio il Potere e credere che bastasse. Samon diceva che per Tear si appressava il giusto giorno di gloria, ma che fra Tear e la gloria si frapponeva Tar Valon.

«Non c’è speranza. Presto o tardi bisognerà catturare e uccidere ogni Aes Sedai. Il Sommo Signore Samon dice che sarà possibile salvare le altre... le più giovani, le novizie, le Ammesse... se saranno portate alla Pietra, ma bisogna sradicare le Aes Sedai. Bisogna distruggere la Torre Bianca.»

Per un momento Mallia rimase al centro della cabina, con le braccia piene di vestiti, di libri e di rotoli di carte nautiche, sfiorando con i capelli la travatura del ponte, con lo sguardo perso nel vuoto a immaginare la caduta della Torre Bianca. Poi trasalì, come se si fosse reso conto di ciò che aveva appena detto. Agitò, incerto, la barba a punta.

«Questo è ciò... ciò che sostiene lui» disse. «Forse mi sono spinto troppo oltre. Il Sommo Signore Samon... ha un modo di parlare che induce una persona a superare le proprie convinzioni. Se Caemlyn può fare accordi con la Torre, bene, anche Tear può farlo.» Rabbrividì e non parve accorgersene. «Così la penso io.»

«Oh, certo» disse Mat maliziosamente. «Penso che la tua proposta sia quella giusta, capitano. Ma non fermatevi a poche Ammesse. Fate venire una decina di Aes Sedai, o una ventina. Pensa cosa diventerebbe, la Pietra di Tear, con venti Aes Sedai dentro.»

Mallia rabbrividì. «Manderò un uomo a prendere il mio forziere» disse, rigido. Uscì a passi decisi.

Mat fissò di storto la porta. «Forse avrei fatto meglio a non dire niente» mormorò.

«Non so come ti sia venuta in mente questa idea» disse Thom, ironico. «Alla prima occasione, potresti suggerire al Lord Capitano Comandante dei Manti Bianchi di sposare l’Amyrlin Seat.» Si accigliò. «Il Sommo Signore Samon. Non ne ho mai sentito parlare.»

Ora toccò a Mat fare ironia. «Be’, neppure tu puoi sapere tutto di tutti i re e le regine e i nobili esistenti, Thom. Te ne sarà sfuggito un paio.»

«Conosco il nome dei re e delle regine, ragazzo, e anche di tutti i Sommi Signori di Tear. Immagino che abbiano promosso un Signore della Terra, ma avrei sentito parlare della morte del vecchio Sommo Signore. Se ti fossi accordato per scacciare dalla propria cabina un paio di disgraziati, anziché prendere quella del capitano, ora avremmo un letto ciascuno, per quanto stretto e duro. Invece dobbiamo dividerci quello di Mallia. Mi auguro che tu non russi, ragazzo. Non sopporto la gente che russa.»

Mat digrignò i denti. Pensandoci adesso, Thom russava col rumore d’una raspa contro un nodo di quercia. Se n’era dimenticato.

Uno dei due colossi venne a prendere da sotto il letto il baule rinforzato con bande di ferro che conteneva i denari del capitano. Non disse una parola, si limitò ad abbozzare qualche inchino e a guardarli di storto quando pensava di non essere visto; se ne andò in fretta.

Mat cominciò a domandarsi se la fortuna che l’aveva assistito per tutta la notte alla fine l’avesse abbandonato. Doveva rassegnarsi al russare di Thom; e poi, a dire il vero, forse non era stata una gran fortuna, balzare a bordo di quella particolare nave, sventolando un documento con la firma dell’Amyrlin Seat e il sigillo della Fiamma di Tar Valon. D’impulso prese un bussolotto con i dadi, lo scoperchiò e lo capovolse sul tavolo.

I cinque dadi erano del tipo a puntini e mostravano cinque “uno". In alcuni giochi, la combinazione era chiamata “gli occhi del Tenebroso” ed era perdente. In altri giochi, vinceva. Ma lui quale gioco giocava? Raccolse i dadi, li lanciò di nuovo. Cinque “uno". Un altro lancio: e di nuovo “gli occhi del Tenebroso” gli ammiccarono.

«Se hai usato questi dadi per vincere tutto quell’oro» disse piano Thom «non c’è da stupirsi che tu abbia dovuto prendere la prima nave in partenza.» Si era spogliato e in quel momento si sfilava la camicia passandola sopra la testa. Aveva ginocchia nodose e gambe magre che parevano tutte tendini; la destra era un po’ rattrappita. «Ragazzo, una bambina di dieci anni ti strapperebbe il cuore, se sapesse che contro di lei usi quei dadi.»

«Non sono i dadi» borbottò Mat. «È la fortuna.» Fortuna delle Aes Sedai? O fortuna del Tenebroso? Ripose i dadi e tappò il bussolotto.

«Immagino» disse Thom, salendo sul letto «che non mi dirai da dove proviene tutto quell’oro, eh?»

«L’ho vinto. Stanotte. Con dadi degli altri.»

«Ah-ha. E immagino che non mi spiegherai la provenienza di quel documento che sbandieri in giro... ho visto il sigillo, ragazzo! Né tutte le chiacchiere sugli affari della Torre Bianca. Né come mai il capocantiere aveva la tua descrizione diffusa dalle Aes Sedai.»

«Porto a Morgase una lettera di Elayne» rispose Mat, con molta più pazienza di quanta non provasse. «Il documento me l’ha dato Nynaeve. Non so dove l’abbia preso.»

«Be’, se non vuoi dirmelo, mi metto a dormire. Spegni le lanterne, ti spiace?» Si girò dalla propria parte e si tirò sulla testa un guanciale.

Mat si spogliò, s’infilò sotto le coperte — dopo avere spento le lanterne -ma non riuscì a prendere sonno, anche se Mallia si trattava bene, visto il buon materasso di piume. Non si era sbagliato: Thom russava e il guanciale non soffocava un bel niente. Pareva che Thom tagliasse controvena un pezzo di legno, usando una sega arrugginita. E lui non la smetteva di riflettere. Già, come avevano fatto, Nynaeve e le altre due, ha ottenere dall’Amyrlin quel documento? Di sicuro erano coinvolte, con la stessa Amyrlin Seat, in qualche macchinazione, in una delle trame della Torre Bianca; però, ora che ci pensava, era sicuro che Nynaeve e le altre sapevano pure qualcosa che non avevano rivelato all’Amyrlin.

«"Per favore, Mat, porta una lettera a mia madre"» mormorò sottovoce, rifacendo il verso a Elayne. «Pazzo! L’Amyrlin avrebbe mandato un Custode, per consegnare alla regina una lettera dell’Erede. Pazzo e cieco, per la voglia di andarmene a qualsiasi costo dalla Torre, tanto da non capire più niente.» Il russare di Thom parve strombettare un assenso.

Più di tutto, però, Mat meditò sulla fortuna e sui ladroni.

Si accorse appena del primo tonfo di un oggetto contro la poppa. Non badò a un altro colpo e al rumore di piedi sul ponte, né al rumore di stivali. Il vascello stesso causava rumori in abbondanza e qualcuno doveva stare sul ponte della nave per il viaggio a valle del fiume. Ma nell’udire il rumore di passi furtivi nel corridoio, verso la porta, Mat ricordò i ladroni e drizzò le orecchie.

Diede a Thom una gomitata nelle costole. «Sveglia» disse piano. «C’è qualcuno, qui fuori.» Già scendeva dal letto, augurandosi che il pavimento della cabina non scricchiolasse. Thom grugnì, schioccò le labbra e riprese a russare.

Non c’era tempo di pensare a Thom. I passi erano proprio lì fuori. Mat impugnò il bastone dalla punta ferrata, si piazzò davanti alla porta e attese.

La porta si aprì lentamente; due uomini avvolti nel mantello, uno dietro l’altro, si stagliarono debolmente nel chiaro di luna che proveniva dal boccaporto in cima alla scaletta da cui erano scesi. La fioca luce bastò a trarre uno scintillio dalla lama dei loro coltelli. I due ansimarono: evidentemente non si aspettavano di trovare qualcuno in attesa.

Mat vibrò di punta il bastone e colpì con forza il primo, proprio sotto il punto di congiunzione delle costole. Mentre colpiva, udì la voce del padre: «È un colpo mortale, Mat: non usarlo mai, se non in circostanze disperate.» Ma quei coltelli volevano la sua vita e nella cabina non c’era spazio per manovrare il bastone.

Mentre l’uomo emetteva un verso strozzato e si piegava per terra, cercando invano di prendere fiato, Mat avanzò e spinse il bastone verso la gola dell’altro, ottenendo uno scricchiolio rumoroso. L’uomo lasciò cadere il coltello, si portò alla gola le mani e cadde addosso al compagno: tutt’e due raschiarono con gli stivali l’assito, nelle convulsioni della morte.

Mat rimase a fissarli. Due, pensò. No, maledizione: tre! In vita sua non aveva mai fatto male a nessuno; ora aveva ucciso tre uomini in una sola notte. Luce santa!

Il silenzio riempiva il corridoio buio; sul ponte risuonarono tonfi di stivali. I marinai andavano tutti scalzi.

Cercando di non pensare a che cosa faceva, Mat tolse a un morto il mantello e se lo mise sulle spalle, per nascondere la biancheria chiara. Scalzo, percorse il corridoio, salì la scaletta e sporse appena gli occhi dal boccaporto.

Il chiaro di luna si rifletteva sulle vele tese, ma la notte copriva di tenebre il ponte e l’unico rumore era lo sciaguattio contro le fiancate. Pareva che sul ponte ci fosse soltanto l’uomo al timone, col cappuccio calato sugli occhi per il freddo. L’uomo si mosse, con fruscio di stivali di cuoio sull’assito.

Tenendo basso il bastone, augurandosi che non si notasse, Mat salì ancora. «È morto» mormorò in un bisbiglio basso e duro.

«Spero che abbia strillato come un maiale, quando gli hai tagliato la gola» gli rispose una voce dalla forte cadenza, la stessa che Mat aveva udito all’imboccatura del vicolo, a Tar Valon. «Quel ragazzo ci causava un mucchio di fastidi. Un momento! E tu chi sei?»

Con tutta la sua forza, Mat vibrò il bastone, che si schiantò sulla testa dell’uomo, il cui cappuccio soffocò solo in parte un rumore simile a quello d’un melone che cada a terra.

L’uomo crollò di traverso sulla barra del timone, spingendola da parte; la nave sbandò. Barcollando, Mat scorse con la coda dell’occhio una sagoma emergere dall’ombra accanto alla murata e il luccichio d’una lama; capì che non avrebbe mai fatto in tempo a girare il bastone prima d’essere colpito. Un altro oggetto luccicante balenò a mezz’aria e con un tonfo sordo si conficcò nella sagoma. Lo sconosciuto cadde a gambe levate quasi ai piedi di Mat.

Da sotto il ponte provenne una confusione di voci e la nave sbandò ancora, per il peso del primo uomo contro la barra del timone.

In biancheria e mantello, Thom zoppicò fuori del boccaporto e alzò lo schermo della lanterna a occhio di bue. «Sei stato fortunato, ragazzo» disse. «Uno dei due là sotto aveva questa lanterna. Se fosse rimasta lì per terra, avrebbe dato fuoco alla nave.» La luce mostrò l’impugnatura del coltello conficcato nel petto di un uomo dallo sguardo vitreo. Mat non l’aveva mai visto: di sicuro avrebbe ricordato una persona con tutte quelle cicatrici sul viso. Thom allontanò con un calcio il pugnale fra le dita del morto, si chinò a ricuperare il proprio coltello e asciugò la lama sul mantello del cadavere. «Molto fortunato, ragazzo» disse ancora. «Davvero molto fortunato.»

Una gomena era legata alla battagliola di poppa. Thom si avvicinò, facendo luce, e Mat si unì a lui. All’altro capo della gomena c’era una scialuppa con la lanterna spenta. Altri due uomini erano a bordo, fra i remi sollevati.

«Il Sommo Signore mi prenda, è lui!» ansimò uno. L’altro si lanciò a prua per sciogliere il nodo della gomena.

«Vuoi uccidere anche questi due?» domandò Thom, con voce risonante, come quando teneva spettacolo.

«No, Thom» rispose piano Mat.

I due nella barca udirono di certo la domanda, ma non la risposta, perché abbandonarono il tentativo di slegare la gomena e si gettarono in acqua, con grandi schizzi, dibattendosi rumorosamente.

«Pazzi» mormorò Thom. «Dopo Tar Valon, il fiume si restringe un poco; ma qui sarà ancora largo più di mezzo miglio. Non ce la faranno mai, al buio.»

«Per la Pietra!» gridò qualcuno, dal boccaporto. «Cosa succede? Ci sono dei morti, nel corridoio! Cosa combina, Vasa, steso sulla barra? Ci farà incagliare in un banco!» Vestito solo delle mutande, Mallia corse al timone, gettò rudemente da parte il cadavere e tirò la lunga barra per rimettere la nave sulla rotta giusta. «Questo non è Vasa!» esclamò. «La Luce m’incenerisca, chi sono questi morti?» Adesso altri salivano sul ponte, marinai scalzi e passeggeri spaventati, avvolti in mantelli o coperte.

Nascondendo col proprio corpo il gesto, Thom passò il coltello sotto la gomena e la recise in un colpo solo. La scialuppa rimase indietro e scomparve nel buio. «Briganti del fiume, capitano» disse. «Il giovane Mat e io abbiamo salvato dai briganti la tua nave. Se non era per noi, forse avrebbero tagliato la gola a tutti. Dovresti ripensare alle tariffe del viaggio.»

«Briganti!» esclamò Mallia. «Ce ne sono in quantità più a valle, nel Cairhien, ma non sapevo che si aggirassero anche da queste parti!» I passeggeri rannicchiati cominciarono a borbottare di briganti e di gole tagliate.

Mat andò rigidamente al boccaporto. Dietro di lui, Mallia commentò: «Quello lì è di ghiaccio. Non sapevo che l’Andor impiegasse assassini, ma quello lì è davvero di ghiaccio.»

Mat scese la scaletta, scavalcò i due cadaveri nel corridoio e si chiuse rumorosamente alle spalle la porta della cabina. Arrivò quasi al letto, prima di mettersi a tremare, e allora poté solo lasciarsi cadere sulle ginocchia. Luce santa, quale gioco giocava? Doveva conoscere il gioco, se voleva vincere. Quale gioco?

Suonando piano sul flauto il motivetto “Rosa del mattino", Rand fissò il fuoco da campo, sul quale arrostiva un coniglio infilato in un rametto. Il vento notturno faceva guizzare le fiamme. Rand notò appena il profumo di coniglio arrosto e pensò di sfuggita che doveva rifornirsi di sale, nel primo villaggio. “Rosa del mattino” era uno dei brani che aveva suonato a quei matrimoni.

Quanti giorni prima? Se li era immaginati, tutti quei matrimoni? Possibile che ogni donna del villaggio avesse deciso di maritarsi nello stesso momento? Come si chiamava, il villaggio? O era lui che diventava pazzo?

Aveva il viso imperlato di sudore, ma continuò a suonare, così piano che la musica si udiva appena, e a fissare il fuoco. Moiraine gli aveva detto che lui era ta’veren. Tutti avevano detto che era ta’veren. Forse lo era davvero. I ta’veren cambiavano le cose intorno a loro. Forse era stato proprio lui a causare quei matrimoni. Ma non voleva soffermarsi troppo su questo pensiero.

Dicevano pure che lui era il Drago Rinato. Lo dicevano tutti. Vivi e morti. Ma non bastava dirlo, perché fosse vero. Doveva lasciare che lo proclamassero il Drago Rinato. Dovere. Non aveva scelta, ma neppure questo bastava, perché fosse vero.

Non riusciva a smettere di suonare sempre quell’unico motivetto. Gli ricordava Egwene. Un tempo pensava che avrebbe sposato Egwene. Molto tempo prima, gli pareva. Ora non lo pensava più. Egwene però gli era venuta in sogno. Forse era proprio lei. Il suo viso. Era il suo viso.

Solo, c’erano state troppe facce, tutte facce conosciute. Tam, sua madre, Mat, Perrin. E tutti avevano tentato di ucciderlo. Non erano realmente loro, certo. Solo la loro faccia, come maschera, su Progenie dell’Ombra. Ne era convinto. La Progenie dell’Ombra camminava anche nei sogni. Erano semplici sogni? Alcuni sogni erano reali, lo sapeva. Altri erano solo sogni, o incubi, o speranze. Ma come distinguerli? Una notte Min gli era comparsa in sogno... e aveva tentato di piantargli nella schiena un coltello. Era ancora sorpreso di quanto fosse rimasto addolorato. Era stato disattento, l’aveva lasciata avvicinare, aveva abbassato la guardia. Con Min non aveva mai provato il bisogno di stare in guardia, malgrado ciò che lei vedeva, quando lo guardava. La sua compagnia era come un balsamo che gli leniva le ferite.

E Min aveva tentato di ucciderlo! La musica si alzò in una stridula stonatura e Rand tornò ad abbassare il tono. Non lei. Una creatura dell’Ombra, con la faccia di Min. Fra tutti, proprio Min sarebbe stata l’ultima a tentare di nuocergli. Non capiva da dove gli derivasse questa convinzione, ma era sicuro che fosse la verità.

Quante facce, nei suoi sogni! Era venuta Selene, gelida e misteriosa e così bella che gli si seccava la bocca solo a pensarci; gli aveva offerto la gloria, come in precedenza, ma aveva detto che ora lui doveva prendere la spada. E con la spada sarebbe giunta lei. Callandor. Era sempre presente nei sogni. Sempre. E facce provocanti. Mani che spingevano in gabbie Egwene, Nynaeve, Elayne, che le imprigionavano in reti, che le ferivano. Perché lui piangeva più per Elayne che per le altre due?

La testa gli girava. Gli doleva, quanto il fianco. Il sudore gli colava sul viso, mentre nella notte lui sonava piano “Rosa del Mattino", con la paura di prendere sonno. Con la paura di sognare.

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