34 Una danza diversa

Mentre mostrava le stanze, Furlan continuò a chiacchierare, ma Perrin non lo ascoltava: era troppo impegnato a domandarsi se la ragazza dai capelli neri conoscesse il significato degli occhi gialli. Maledizione, guardava proprio lui! Poi udì una frase del locandiere, “...che annuncia il Drago nel Ghealdan...", e pensò che le orecchie gli si sarebbero appuntite come quelle di Loial.

Sulla soglia della propria stanza, Moiraine si fermò di colpo. «C’è un altro falso Drago, locandiere?» domandò. «Nel Ghealdan?» Il cappuccio le nascondeva il viso, ma dal tono pareva scossa fino alla punta dei capelli. Pur ascoltando la risposta del locandiere, Perrin non poté evitare di fissare Moiraine: aveva fiutato un odore molto simile a quello della paura.

«Ah, lady, non temere. Siamo a cento leghe dal Ghealdan e qui nessuno ti darà fastidio, con padron Andra nei pressi e lord Orban e lord Gann. Perché...»

«Rispondile!» ordinò Lan, brusco. «C’è un falso Drago nel Ghealdan?»

«Ah, no, padron Andra, non proprio. Ho detto che un uomo annuncia il Drago nel Ghealdan, così abbiamo sentito dire, qualche giorno fa. Predica il suo avvento, parrebbe. Parla di quel tizio nel Tarabon, di cui è corsa voce. Ma alcuni sostengono che si trovi nell’Arad Doman, non nel Tarabon. Molto lontano da qui, in ogni caso. Be’, da un giorno all’altro m’aspetto che non parleremo d’altro, se non forse delle storie fantasiose sul ritorno degli eserciti di Artur Hawkwing...» Gli occhi gelidi di Lan potevano anche essere lame di coltello, dal modo in cui Furlan deglutì e si sfregò più rapidamente le mani. «Sono le voci che circolano, padron Andra, io non so altro. Si dice che questo tizio ha uno sguardo che t’inchioda; racconta un mucchio di stupidaggini sul Drago venuto a salvarci, dice che noi tutti dobbiamo seguirlo e che perfino le bestie feroci combatteranno per lui. Non so se l’hanno già catturato, ma è probabile. I ghealdani non sopporterebbero a lungo questa sorta di discorsi.»

Masema, si disse Perrin, sorpreso. Era il maledetto Masema!

«Hai ragione, locandiere» disse Lan. «Non è verosimile che questo tizio ci procuri guai qui. Conoscevo un tale che faceva sempre discorsi così folli. Lo ricordi, vero, lady Alys? Si chiama Masema.»

Moiraine trasalì. «Masema? Sì, certo. L’avevo dimenticato. Quando lo rivedrò, rimpiangerà che nessuno l’abbia scorticato per fare con la sua pelle cuoio da stivali.» Entrò e sbatté la porta, così forte da far echeggiare il colpo per tutto il corridoio.

«Non fate fracasso!» gridò una voce soffocata, in fondo al corridoio. «Ho la testa a pezzi!»

«Ah» disse Furlan. «Con tutto il rispetto, padron Andra, lady Alys è donna di gran carattere.»

«Solo con chi la provoca» rispose blandamente Lan. «Morde peggio di quanto non abbai.»

«Ah, ah, ah. Le vostre stanze sono da questa parte. Ah, amico Ogier, quando padron Andra mi ha annunciato il tuo arrivo, ho fatto tirare giù dalla soffitta un vecchio letto Ogier; ha preso polvere per questi ultimi trecento anni, però...»

Perrin non gli prestò più attenzione: era preoccupato per la ragazza dai capelli neri. E per l’Aiel in gabbia.

Appena fu in camera — una stanzetta sul retro: Lan non aveva fatto niente per indurre il locandiere a pensare che Perrin non fosse un servitore -sempre pensieroso, sganciò dall’arco la corda (tenervela a lungo rovinava corda e arco), posò nell’angolo l’arco, mise accanto al lavabo la coperta arrotolata e le bisacce da sella e vi gettò sopra il mantello. Appese ai pioli i cinturoni con la faretra e con l’ascia e quasi si gettò sul letto, prima di ricordare, con uno sbadiglio da slogare la mascella, quanto poteva essere pericoloso. Il letto era piccolo, il materasso pareva tutto bitorzoli: eppure era più invitante che mai. Si sedette invece sullo sgabello a tre gambe e si mise a riflettere. Gli piaceva riflettere sempre su ogni cosa.

Dopo un poco, Loial bussò e fece capolino. Agitava le orecchie e aveva un largo sorriso. «Perrin, non ci crederai!» disse, sprizzando entusiasmo da tutti i pori. «Il mio letto è di legno cantato! Avrà almeno mille anni! Nessun Cantore d’Alberi ha cantato un oggetto così grosso da almeno dieci secoli. Neppure io ci terrei a farlo, eppure adesso sono uno dei pochi in cui il Talento è forte. Anzi, a dire il vero, non siamo più in molti ad avere il Talento. Ma sono davvero fra i migliori, a cantare il legno.»

«Interessante» rispose Perrin. Ma pensava a un Aiel in gabbia: le parole di Min. E si domandava per quale motivo la ragazza avesse fissato proprio lui.

«Pare anche a me» disse Loial, un po’ smontato dalla mancanza d’entusiasmo di Perrin. «Dabbasso la cena è pronta. Hanno preparato quanto avevano di meglio, per soddisfare le richieste dei Cercatori; ma possiamo approfittarne anche noi.»

«Vai pure, Loial. Non ho fame.» Il profumo d’arrosto che saliva dalle cucine non lo interessava. Quasi non si accorse che Loial se ne andava.

Mani sulle ginocchia, tra uno sbadiglio e l’altro, cercò di risolvere il problema. Gli pareva uno di quegli aggeggi che mastro Luhhan fabbricava, pezzi di metallo che parevano collegati in maniera inestricabile. Ma c’era sempre un trucco per dividere i cerchi e le spire: anche nel suo caso c’era di sicuro un trucco.

La ragazza aveva guardato lui. Forse per il colore degli occhi. Ma il locandiere non ci aveva badato e nessun altro ci aveva fatto caso. C’era un Ogier, da guardare; e i Cercatori del Corno, una lady, un Aiel in gabbia nella piazza. Una cosa così trascurabile come il colore degli occhi d’un servitore non avrebbe attirato l’attenzione. Allora perché la ragazza aveva fissato proprio lui?

E l’Aiel in gabbia. Ciò che Min vedeva, era sempre importante. Ma in che modo? Che cosa avrebbe dovuto fare, lui? Avrebbe potuto impedire che quei bambini tirassero sassi all’Aiel. E non serviva ripetersi che con ogni probabilità gli adulti gli avrebbero detto di farsi i fatti suoi, poiché era forestiero a Remen e l’Aiel non lo riguardava.

Non trovò risposte, così riprese da capo a esaminare la situazione. Trovò solo rincrescimento per non essere intervenuto a favore dell’Aiel.

Dopo un certo tempo si accorse che la notte era scesa. La stanza era buia, a parte quel po’ di chiaro di luna che entrava dall’unica finestra. Perrin pensò alla candela di sego e alla scatola con acciarino ed esca, viste sulla mensola del piccolo camino, ma per i suoi occhi la luce era più che sufficiente. Doveva fare qualcosa, si disse.

Si agganciò il cinturone con l’ascia, esitò. L’aveva fatto senza riflettere: portare quell’ascia gli era diventato naturale come respirare. Non gli piaceva. Ma non si tolse il cinturone e uscì.

Al confronto della stanza, il corridoio pareva quasi luminoso, per la luce che veniva dalla scala. Dalla sala comune salivano risate e discussioni, dalla cucina giungevano profumi di vivande in cottura. Perrin andò verso la parte anteriore della locanda, si fermò alla porta della stanza di Moiraine, bussò ed entrò. Si fermò di colpo, rosso in viso.

Moiraine si strinse addosso la vestaglia celeste. «Cosa vuoi?» domandò in tono freddo. Reggeva una spazzola dal dorso d’argento; i capelli le ricadevano sulle spalle in ondate scure e lustre, come se li stesse spazzolando. La stanza era molto più elegante di quella di Perrin, con pannellature di lucido legno, lampade intarsiate d’argento, un bel fuoco nel caminetto di mattoni. Nell’aria aleggiava profumo di sapone alle rose.

«Pensavo... pensavo che Lan fosse qui» rispose esitando Perrin. «Voi due siete sempre testa a testa e pensavo che lui... pensavo...»

«Cosa vuoi, Perrin?»

Perrin inspirò a fondo. «È opera di Rand?» domandò d’un fiato. «Lan l’ha seguito fin qui e tutto pare insolito... i Cercatori, l’Aiel... ma è stato Rand?»

«Non credo. Ne saprò di più appena Lan mi avrà riferito che cosa scoprirà stanotte. Con un po’ di fortuna, le sue scoperte mi aiuteranno a compiere la scelta.»

«Scelta?»

«Forse Rand ha attraversato il fiume e si è diretto a Tear per le campagne. Oppure ha preso una nave per scendere il fiume fino a Illian, con l’intenzione di prenderne un’altra che lo porti a Tear. A questo modo il percorso si allunga di varie leghe, ma il viaggio si accorcia di vari giorni.»

«Non credo che lo raggiungeremo, Moiraine. Non so come faccia, ma anche a piedi è sempre più avanti di noi. Se Lan ha ragione, ci precede ancora di mezza giornata.»

«Sospetterei quasi che abbia imparato a Viaggiare» disse Moiraine, con una piccola ruga. «Ma se avesse imparato, sarebbe andato dritto a Tear. No, ha in sé il sangue di gente abituata a camminare a lungo e a correre. Ma noi possiamo andare per fiume. Se non lo raggiungiamo, arriveremo a Tear quasi contemporaneamente a lui. O lo aspetteremo là.»

Perrin cambiò posizione, a disagio: aveva colto nella voce di Moiraine una gelida promessa. «Una volta mi dicesti che sei in grado di percepire la presenza di un Amico delle Tenebre o di uno che cammini nell’Ombra» disse. «Anche Lan. Hai percepito qualcosa del genere, qui?»

Moiraine sbuffò forte e si girò verso un alto specchio con eleganti intarsi d’argento sui sostegni. Con la mano tenne chiusa la vestaglia e con l’altra prese a spazzolarsi i capelli. «Ben pochi esseri umani, anche fra i peggiori Amici delle Tenebre, sono nell’Ombra fino a questo punto.» Fermò la spazzola a metà colpo. «Perché l’hai domandato?»

«Nella sala comune c’era una ragazza. Mi fissava. Non te e Loial, come tutti gli altri. Fissava me.»

Moiraine riprese a spazzolarsi i capelli e per un attimo sorrise. «A volte dimentichi d’essere un bel giovanotto. Certe ragazze ammirano un bel paio di spalle.» Perrin borbottò e cambiò posizione. «C’è altro?» domandò Moiraine.

«Ah... no.» Lei non poteva aiutarlo, per le visioni di Min, se non dicendogli quel che lui già sapeva e cioè che erano importanti. E non voleva dirle ciò che Min aveva visto. E neppure che Min aveva visto qualcosa.

Tornato nel corridoio, chiuse la porta e si appoggiò per un momento alla parete. Che figura aveva fatto, entrando così all’improvviso! Moiraine era bella. E probabilmente tanto anziana da essere sua madre. Mat l’avrebbe invitata nella sala comune a danzare. Ma no, neppure Mat era tanto sciocco da fare il filo a un’Aes Sedai. Moiraine sapeva danzare, lui stesso una volta le aveva fatto da cavaliere... rischiando d’inciampare a ogni passo di danza. Meglio smetterla di pensare a Moiraine come a una qualsiasi ragazza, solo perché l’aveva vista in... Era una maledetta Aes Sedai! Meglio pensare a quell’Aiel. Si scosse e scese dabbasso.

La sala comune era piena al massimo; ogni sedia era occupata e vi avevano portato panche e sgabelli; chi non aveva dove sedersi, stava in piedi lungo le pareti. Perrin non vide la ragazza dai capelli neri; attraversò in fretta la sala, senza che nessuno gli rivolgesse una seconda occhiata.

Orban sedeva da solo a un tavolo e aveva allungato su di una sedia con cuscino la gamba fasciata, al cui piede calzava una pantofola; reggeva una coppa d’argento che le cameriere badavano a tenere sempre piena di vino. «Sì» diceva in quel momento all’intera sala «Gann e io sapevamo che gli Aiel sono fieri combattenti, ma non abbiamo avuto il tempo d’esitare. Sguainai la spada e spronai Leone...»

Perrin trasalì, prima di rendersi conto che Orban si riferiva al proprio cavallo. Quello sarebbe stato capace di dire che cavalcava un leone! Ma si vergognò un poco: non lo trovava simpatico, certo, però non era motivo per supporre che il Cercatore arrivasse fino a quel punto, con le smargiassate. Uscì in fretta, senza guardarsi indietro.

Anche nella via c’era folla davanti alla locanda: la gente che non aveva trovato posto nella sala comune scrutava dalle finestre o si ammassava alla porta per ascoltare il racconto di Orban. Nessuno diede a Perrin una seconda occhiata, anche se il suo passaggio sollevò borbottii di lamentela fra quelli accalcati nel vano della porta.

Chiunque fosse in giro, quella notte, era di sicuro alla locanda: infatti, recandosi nella piazza, Perrin non vide nessuno. A volte l’ombra d’una persona si moveva davanti a una finestra illuminata, ma era tutto. Perrin però aveva la sensazione d’essere osservato e si guardò intorno a disagio. Non vide niente, a parte vie ammantate di notte e punteggiate di finestre illuminate. Intorno alla piazza, quasi tutte le finestre erano buie, tranne alcune dei piani superiori.

La forca era sempre allo stesso posto e l’uomo, l’Aiel, si trovava sempre nella gabbia, più in alto di quanto Perrin arrivasse allungando il braccio. Pareva sveglio — almeno, teneva sollevata la testa — ma non guardò verso Perrin. Sotto la gabbia erano sparpagliati i sassi che gli avevano tirato i bambini.

La gabbia pendeva da una grossa fune legata a un anello infilato in una delle sbarre superiori e correva lungo l’asta trasversale, girando intorno a una pesante puleggia, fino a un paio di spuntoni, posti ai lati del palo, all’altezza della cintola d’una persona. La fune in eccesso giaceva in un mucchio disordinato ai piedi della forca.

Perrin si guardò di nuovo intorno, esaminando la piazza buia. Aveva ancora l’impressione d’essere osservato, ma anche stavolta non scorse niente. Tese l’orecchio e non udì niente. Sentiva odore di fumo di comignolo e di cibi in cottura, proveniente dalle case circostanti, di sudore umano e di sangue secco, proveniente dall’Aiel in gabbia. Ma non sentì odore di paura, nell’uomo.

"Il suo peso” pensò. “E poi c’è la gabbia." Si avvicinò alla forca. Non sapeva quando avesse preso la decisione, né se l’aveva presa davvero, ma sarebbe intervenuto.

Agganciò al palo la gamba e fece forza sulla fune, sollevando la gabbia quanto bastava ad avere un po’ di gioco. Capì dal movimento della fune che l’Aiel si era mosso, ma aveva troppa fretta per fermarsi a dirgli che cosa intendeva fare. Grazie al gioco, sciolse la fune avvolta agli spuntoni. Sempre sostenendosi con la gamba agganciata al palo, calò rapidamente a terra la gabbia.

Ora l’Aiel lo guardava, lo studiava in silenzio. Perrin non aprì bocca. Diede una buona occhiata alla gabbia e serrò le labbra. Se costruivano una cosa, anche una gabbia come quella, avrebbero dovuto farla per bene. L’intera parte frontale formava lo sportello, montato su rozzi cardini fatti da mani frettolose, chiuso da un buon lucchetto di ferro che passava in una catena altrettanto malfatta. Perrin esaminò la catena e la girò fino a trovare l’anello più debole, nel quale conficcò la spessa punta dell’ascia. Con una brusca torsione del polso aprì l’anello. Nel giro di qualche secondo sfilò dal lucchetto la catena e spalancò lo sportello della gabbia.

L’Aiel rimase seduto dentro, ginocchia contro il mento, e continuò a fissarlo.

«Allora?» bisbigliò Perrin, con voce rauca. «L’ho aperta. Però, maledizione, non intendo portarti di peso.» Diede una rapida occhiata tutt’intorno. Nella piazza buia niente si moveva, però lui aveva sempre l’impressione d’essere tenuto d’occhio.

«Sei robusto, abitante delle terre bagnate» disse l’Aiel, limitandosi a muovere le spalle. «Ci sono voluti tre uomini, per alzarmi lassù. E ora tu mi fai scendere. Perché?»

«Non mi piace vedere persone in gabbia» bisbigliò Perrin. Voleva andarsene. La gabbia era aperta e gli occhi invisibili lo puntavano. Ma l’Aiel non si muoveva. «Vuoi uscire di lì, prima che giunga qualcuno?»

L’Aiel afferrò la sbarra anteriore posta più in alto e con un solo movimento si tirò in piedi e fuori della gabbia; rimase quasi appeso, sostenendosi alla sbarra. Dritto, sarebbe stato di tutta la testa più alto di Perrin. Diede un’occhiata agli occhi di Perrin (al chiarore della luna risplendevano come oro brunito) ma non fece commenti. «Sono stato là dentro da ieri» disse; pareva Lan. Non per il tono di voce o per la pronuncia, assai diversi; ma per la freddezza, la calma, la fiducia di sé. «Aspetto un momento che mi si sciolgano le gambe. Sono Gaul, della setta Imran degli Aiel Shaarad. Sono uno Shae’en M’taal, un Cane di Pietra. La mia acqua è tua.»

«Be’, io sono Perrin Aybara. Dei Fiumi Gemelli. Sono fabbro.» L’Aiel era fuori della gabbia e lui ormai poteva andarsene. Però, se fosse giunto qualcuno, prima che Gaul fosse di nuovo in grado di camminare, avrebbe dato l’allarme e l’Aiel sarebbe finito di nuovo nella gabbia o addirittura ucciso; in tutt’e due i casi, il suo lavoro sarebbe stato sprecato. «Non ho pensato di portare una bottiglia d’acqua o una ghirba» disse. «Perché mi hai chiamato “abitante delle terre bagnate"?»

Gaul indicò dalla parte del fiume; Perrin non poteva esserne sicuro, nella scarsa luce, ma ritenne che per la prima volta l’Aiel pareva a disagio. «Tre giorni fa, ho osservato una ragazza fare il bagno in un enorme lago d’acqua» disse Gaul. «Sarà stato largo almeno venti passi. Vi... vi nuotava.» Con una mano imitò goffamente l’azione. «Una ragazza coraggiosa. Attraversare tutti questi... fiumi... mi ha quasi snervato. Non avevo mai creduto che potesse esistere una cosa come troppa acqua, ma non pensavo che nel mondo ci fosse tanta acqua quanta ne avete voi delle terre bagnate.»

Perrin scosse la testa. Sapeva che nel Deserto Aiel c’era pochissima acqua, ma non pensava che fosse tanto scarsa da provocare una simile reazione. «Sei molto lontano da casa, Gaul» disse. «Come mai ti trovi qui?»

«Cerchiamo» rispose lentamente Gaul. «Cerchiamo Colui Che Giunge con l’Alba.»

Perrin aveva già udito questo appellativo, in circostanze che lo rendevano sicuro del significato. Luce santa, si tornava sempre a Rand! E lui era legato a Rand, come un cavallo scorbutico viene legato per la ferratura. «Cerchi nella direzione sbagliata, Gaul» rispose. «Lo cerco anch’io: è diretto a Tear.»

«Tear?» ripeté l’Aiel, sorpreso. «E perché... Così dev’essere. La profezia dice che, quando cadrà la Pietra di Tear, lasceremo infine la Triplice Terra.» Quest’ultimo era il termine Aiel per indicare il Deserto. «Dice che saremo mutati e ritroveremo ciò che era nostro e che è andato perduto.»

«Può darsi. Non conosco le vostre profezie. Sei pronto ad andartene? Da un momento all’altro può arrivare qualcuno.»

«Troppo tardi per fuggire» disse Gaul.

Una voce profonda gridò: «Il selvaggio è libero!» Dieci o dodici uomini dal mantello bianco giunsero di corsa nella piazza, con spade sguainate ed elmi conici che scintillavano al chiarore della luna. Figli della Luce.

Come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo, Gaul si tolse con calma dalle spalle un pezzo di stoffa nera e se lo avvolse intorno alla testa: uno spesso velo nero gli coprì il viso, a parte gli occhi. «Ti piace danzare, Perrin Aybara?» domandò l’Aiel. Così dicendo, saettò lontano dalla gabbia, dritto contro i Manti Bianchi in arrivo.

Per un attimo i Manti Bianchi furono colti di sorpresa, ma fu chiaro che all’Aiel occorreva solo quell’attimo. Con un calcio Gaul fece saltare di mano la spada al primo che lo raggiunse; poi, a dita irrigidite, colpì alla gola il Manto Bianco, come se usasse un pugnale, e gli girò intorno, lasciandolo cadere a terra. Al successivo spezzò il braccio, con uno schiocco secco. Spinse l’avversano contro le gambe del terzo e scalciò il quarto in piena faccia. Pareva davvero che danzasse da uno all’altro, senza fermarsi né rallentare, anche se il Manto Bianco che era inciampato nel compagno si rialzava e quello col braccio rotto aveva passato nell’altra mano la spada. Gaul danzava in mezzo a loro.

Perrin ebbe solo un attimo per meravigliarsi: non tutti i Manti Bianchi si erano lanciati sull’Aiel. Appena in tempo impugnò a due mani l’ascia per parare un colpo di punta, la vibrò... e avrebbe voluto gridare, mentre la lama a mezzaluna squarciava la gola dell’avversario. Ma non aveva tempo per gridare, non aveva tempo per rimpiangere il gesto: altri Manti Bianchi seguirono il primo. Perrin odiò le ferite causate dall’ascia, odiò come la lama squarciava cotta di maglia e carne, come spaccava con identica facilità elmo e cranio. Odiò tutto. Ma non voleva morire.

Il tempo parve comprimersi e dilatarsi insieme. Perrin si sentiva come se combattesse da ore, il respiro gli raschiava la gola. Gli avversari parevano muoversi come nella melassa, poi balzare in un istante da dove stavano a dove cadevano. Il sudore gli colava sul viso, eppure pareva freddo come acqua per la tempia. Perrin lottò per la propria vita: non avrebbe saputo dire se lo scontro era durato qualche istante o tutta la notte.

Quando alla fine si fermò, ansimante e quasi stordito, a guardare dodici uomini in mantello bianco distesi sul lastrico della piazza, gli parve che la luna non si fosse mossa affatto. Alcuni Manti Bianchi gemevano, altri giacevano muti e immobili. Gaul era fermo fra di loro, sempre velato, sempre a mani nude La maggior parte dei caduti era opera sua. Perrin rimpianse che non fosse tutta opera dell’Aiel e provò vergogna. Il puzzo di sangue e di morte era intenso, amaro.

«Te la cavi, nella danza delle lance, Perrin Aybara» disse l’Aiel.

Con la testa che gli girava, Perrin borbottò: «Non capisco come dodici uomini si siano scontrati con venti di voi e abbiano vinto, anche se due di loro erano Cercatori.»

«Dicono così?» rise piano Gaul. «Sarien e io siamo stati negligenti, dopo tanto tempo in queste terre agevoli, e il vento soffiava dalla direzione sbagliata, per cui non abbiamo fiutato niente. Prima di rendercene conto, siamo finiti in mezzo a loro. Be’, Sarien è morto e io sono stato messo in gabbia come uno stupido, perciò forse abbiamo pagato a sufficienza. Ora è tempo di correre, abitante delle terre bagnate. Tear: lo ricorderò.» Abbassò infine il velo nero. «Che tu possa trovare sempre acqua e riparo dal sole, Perrin Aybara.» Si girò e corse via nella notte.

Anche Perrin iniziò a correre, poi si rese conto d’avere in pugno l’ascia insanguinata. Ripulì frettolosamente la lama nel mantello di un morto. Si costrinse a rimettere il manico nell’occhiello di cuoio alla cintola e si avviò a passo svelto.

Al secondo passo la vide, snella sagoma ai margini della piazza, in sottane nere e attillate. Lei si girò per correre via; Perrin notò che le sottane erano divise per andare a cavallo.

Prima di giungere al punto dove la ragazza si era trovata, incrociò Lan. Il Custode notò la gabbia aperta e vuota, i mucchi bianchi che riflettevano il chiaro di luna e agitò la testa come se fosse sul punto d’esplodere. Con voce tesa e dura come cerchione di ruota appena fatto, disse: «Opera tua, fabbro? La Luce m’incenerisca! C’è qualcuno che può collegarti a questa storia?»

«Una ragazza» disse Perrin. «Credo che abbia visto. Non voglio che tu le faccia male, Lan! Un mucchio d’altra gente può avere visto. Ci sono tante finestre illuminate.»

Il Custode prese Perrin per la manica e gli diede uno spintone verso la locanda. «Ho visto una ragazza che correva, ma ho pensato... Non importa. Cerca l’Ogier e portalo giù alla stalla. Dopo questa storia, dobbiamo portare i cavalli al molo, al più presto possibile. Solo la Luce sa se c’è una nave che salpa stanotte o quanto dovrò pagare per noleggiarne una, in caso contrario. Non fare domande, fabbro! Ubbidisci! Di corsa!»

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