Appoggiato alla murata, Mat guardò avvicinarsi Aringill, piccola città cinta di mura, mentre i remi spingevano il Gabbiano Grigio verso i lunghi moli di legno incatramato. Protetti da alti muri di pietra che si estendevano nel fiume, questi moli brulicavano di gente; molte altre persone lasciavano le navi di varie dimensioni Ormeggiate lungo i pontili. Alcuni spingevano carriole o tiravano slitte o carretti dalle ruote assai alte, tutti stracolmi di mobili e di bauli ben legati; ma diversi portavano fagotti sulla schiena. Non tutti si davano da fare. Molti se ne stavano ammassati, uomini e donne, incerti, con bambini in lacrime aggrappati alle gambe. Soldati in giubba rossa e lucente pettorale cercavano di farli spostare dai moli ed entrare in città, ma molti parevano troppo spaventati per muoversi.
Mat si girò e si schermò gli occhi per scrutare il fiume. L’Erinin era pieno di traffico, più di quanto non avesse visto a meridione di Tar Valon, con una decina d’imbarcazioni in movimento, che andavano da un vascello dalla prua appuntita che saettava contro corrente diretto a monte del fiume, spinto da due vele triangolari, all’ampia nave dalla prua tozza e rigonfia, con vele quadrate, che ancora sguazzava molto a settentrione.
Quasi la metà delle navi in vista, però, non aveva niente a che fare con il commercio fluviale. Due imbarcazioni dall’ampia chiglia e dal ponte vuoto attraversavano senza fretta il fiume, dirette a una città più piccola sulla riva opposta; tre altre tornavano faticosamente verso Aringill e avevano il ponte affollato di persone, strette come pesci in un barile. Il sole al tramonto metteva in ombra la bandiera che sventolava sulla città più piccola. La riva apparteneva al Cairhien, però Mat non aveva bisogno di vedere chiaramente la bandiera, per sapere che si trattava del Leone Bianco dell’Andor. C’erano state abbastanza chiacchiere, nei pochi villaggi andorani in cui il Gabbiano Grigio aveva fatto breve scalo.
Mat scosse la testa. Non era interessato alla politica. “Basta che non provino ancora a dirmi che sono andorano solo a causa di qualche riga tracciata su di una mappa” pensò. “Maledizione, potrebbero anche costringermi a combattere nel loro maledetto esercito, se la crisi cairhienese si estende. E a ubbidire agli ordini!" Con un brivido si girò verso Aringill. Sul Gabbiano Grigio, marinai scalzi preparavano le gomene da lanciare ai portuali sul molo.
Da dietro la barra del timone, il capitano Mallia guardava Mat. Non aveva rinunciato agli sforzi per ingraziarsi lui e Thom, né ai tentativi di scoprire quale fosse la loro importante missione. Alla fine Mat gli aveva mostrato la lettera sigillata e gli aveva detto che la portava alla regina, da parte dell’Erede. Un messaggio personale da figlia a madre, nient’altro. A quanto pareva, Mallia aveva udito soltanto le parole “regina Morgase".
Mat ridacchiò tra sé. Nella tasca della giubba aveva due borse più piene di quando era salito a bordo; aveva monete sfuse sufficienti a riempirne altre due. Non aveva avuto la stessa fortuna della prima, bizzarra notte in cui i dadi e tutto il resto parevano impazziti, ma era bastata. Dopo la terza notte, Mallia aveva rinunciato a giocare con lui per mostrarsi amico, ma a quel punto il suo forziere si era già alleggerito di parecchio. Dopo Aringill, sarebbe stato ancora più leggero: Mallia doveva rinnovare le scorte di cibo... Mat lanciò un’occhiata alla gente che si muoveva sui moli... se poteva, a qualsiasi prezzo.
Nel ripensare alla lettera, Mat perdette il sorriso. Dopo un piccolo lavoretto con un coltello dalla lama riscaldata, aveva sollevato il sigillo a forma di giglio d’oro. Non aveva trovato niente: Elayne studiava con impegno, faceva progressi, era ansiosa d’apprendere. Era figlia diligente; era stata punita dall’Amyrlin Seat per essersi allontanata e aveva ricevuto l’ordine di non parlarne mai più, quindi non poteva dire altro, era chiaro. Era stata promossa fra le Ammesse (non era meraviglioso, in così breve tempo?) e riceveva incarichi più importanti; per un poco avrebbe lasciato Tar Valon, al servizio dell’Amyrlin stessa. Non c’era da preoccuparsi.
Andava benissimo, pensò Mat, che Elayne dicesse a Morgase di non preoccuparsi. Era lui, che aveva cacciato nel pentolone. La stupida lettera era di sicuro il motivo per cui quegli uomini gli avevano dato la caccia, ma neppure Thom era riuscito a cavarne un senso, per quanto borbottasse di “messaggi cifrati” di “codici” e del “Gioco delle Case".
Ora Mat aveva messo al sicuro la lettera all’interno della fodera della giubba; l’aveva di nuovo sigillata ed era pronto a scommettere che nessuno si sarebbe mai accorto della manomissione. Se qualcuno la voleva al punto da cercare di ucciderlo, forse ci avrebbe riprovato. Aveva promesso a Nynaeve di consegnare la lettera e l’avrebbe fatto. Ma avrebbe avuto qualcosa da dire, quando avesse rivisto quelle tre irritanti donne... qualcosa che loro non avrebbero gradito molto.
Mentre i marinai gettavano sul molo le gomene, Thom venne sul ponte: portava sulla schiena gli astucci con gli strumenti e in mano il fagotto con le sue cose. Pur zoppicando, si accostò con aria impettita alla murata, movendo il mantello con piccoli svolazzi che agitavano le toppe colorate e soffiando con importanza nei lunghi baffi bianchi.
«Nessuno guarda, Thom» disse Mat. «Non vedrebbero neppure un menestrello, a meno che non tenesse in mano roba da mangiare.»
Thom fissò i moli. «Luce santa!» esclamò. «Avevo sentito dire che la situazione era brutta, ma non m’aspettavo che lo fosse fino a questo punto! Poveri fessi. Per metà sembrano morti di fame. Stasera non basterà una delle tue borse, per avere alloggio. E l’altra per un pasto, se continui a ingozzarti a quel modo. Quasi stavo male, a guardarti. Prova a mangiare in pubblico tutta quella roba e finirai col cervello spappolato.»
Mat si limitò a sorridere.
Mallia scese sul ponte, tirandosi la barbetta, mentre il Gabbiano Grigio era posto all’ormeggio. Alcuni marinai accorsero a sistemare una passerella e Sanor si mise di guardia, a braccia conserte, nel caso che la folla sul molo volesse salire a bordo. Fu una precauzione inutile.
«Allora qui mi lasciate» disse Mallia a Mat, con un sorriso meno pronto di quanto ci si sarebbe aspettato. «Siete sicuri che non possa fare nient’altro per aiutarvi? Maledizione, non ho mai visto marmaglia come questa! I soldati dovrebbero tenere sgombri i moli, con la spada se necessario, per consentire il commercio agli onesti mercanti. Forse Sanor potrebbe aprirvi la strada fino alla locanda.»
"Per farti sapere dove alloggiamo?" pensò Mat. “Stai fresco!"
«Pensavo di mangiare un boccone, prima di sbarcare; e magari di fare una partita a dadi per passare il tempo» disse. Mallia sbiancò in viso. «Ma non mi spiacerebbe avere terreno solido sotto i piedi, per il prossimo pasto» continuò Mat. «Quindi, ti lascio adesso, capitano. Il viaggio è stato gradevole.»
Mentre sul viso del capitano il sollievo faceva ancora a pugni con la costernazione, Mat raccolse dal ponte il suo fagotto e si avviò con Thom alla passerella. Mallia li seguì fino in fondo, mormorando parole di rimpianto per la loro partenza che saltavano dal sincero al falso e viceversa. Mat era sicuro che il capitano odiava perdere l’occasione d’entrare nelle grazie di quel suo Sommo Signore Samon scoprendo i particolari di un accordo fra l’Andor e Tar Valon.
Mentre si facevano strada tra la folla, Thom borbottò: «So che quell’uomo è tutt’altro che simpatico, ma. perché hai continuato a provocarlo? Non t’è bastato divorare fino all’ultima briciola le provviste che riteneva sufficienti fino a Tear?»
«Da due giorni non mangio quasi niente» replicò Mat. Un mattino, con suo grande sollievo, la fame era semplicemente sparita: come se Tar Valon avesse perso l’ultimo aggancio su di lui. «Ho gettato in acqua quasi tutti i cibi e ho faticato a fare in modo che nessuno se ne accorgesse.» Fra quei visi smunti, molti di bambini, il gesto non gli pareva più tanto divertente. «Mallia si meritava le provocazioni. Ricordi quella nave, ieri? Incagliata in un banco? Poteva fermarsi a dare una mano, ma non ha voluto accostare, per quanto quelli gridassero.» Più avanti c’era una donna dai capelli neri e lunghi che scrutava in viso ogni uomo che passava, come se cercasse qualcuno; un bambino che le arrivava alla cintola e due bambine più piccole le stavano attaccati alle sottane e piangevano. «Tutti quei discorsi sui briganti del fiume e le loro trappole. A me non pareva una trappola.»
Thom girò intorno a un carro dalle alte ruote (sopra il mucchio di masserizie coperte da un telone era legata una gabbia con due maiali grufolanti) e rischiò d’inciampare in una slitta trainata da un uomo e una donna. «E tu devii dalla tua strada per aiutare la gente, eh?» replicò, ironico. «Strano che mi sia sfuggito.»
«Io aiuto chiunque può pagare» disse Mat, convinto. «Solo gli sciocchi delle storie fanno qualcosa per niente.»
Le due bambine singhiozzavano contro le sottane della madre, mentre il bambino si sforzava di trattenere le lacrime. Gli occhi incassati della donna si soffermarono un momento su Mat e ne studiarono il viso, prima di passare oltre; anch’essi davano l’impressione di trattenere le lacrime. Impulsivamente, Mat pescò dalla tasca una manciata di monete e senza neanche guardarle le mise in mano alla donna. Lei trasalì, sorpresa, fissò senza capire le monete d’oro e d’argento, sorrise in fretta e aprì bocca, piangendo lacrime di gratitudine.
«Compra ai bambini qualcosa da mangiare» disse Mat; si allontanò, prima che lei potesse parlare. Notò l’occhiata di Thom. «Cos’hai da guardare? Le monete arrivano facilmente, finché trovo chi ama giocare a dadi.» Thom annuì lentamente, ma Mat non fu sicuro che avesse capito il punto. Quel maledetto pianto di bambini gli aveva dato ai nervi, ecco tutto. Ora lo stupido menestrello si sarebbe aspettato che lui desse dell’oro a ogni bambino derelitto che incontravano. Stupido! Per un attimo non fu sicuro se l’insulto fosse diretto a Thom o a se stesso.
Si riprese ed evitò di guardare in viso la gente, finché non trovò, alla base del molo, la persona che cercava. Il soldato senza elmo, in giubba rossa e pettorale, che incitava la gente a entrare in città, aveva l’aspetto d’un comandante di squadra ricco d’esperienza. Strizzava gli occhi controsole e, per quanto non fosse guercio, ricordò a Mat lo shienarese Huno. Pareva stanco quasi quanto le persone che sollecitava. «Muovetevi» gridava, con voce rauca. «Maledizione, non potete stare qui. Muovetevi. In città.»
Mat si fermò proprio davanti a lui e sorrise. «Chiedo scusa, capitano, puoi dirmi dove trovare una locanda decente? E una stalla che venda buoni cavalli? Domattina dobbiamo percorrere molta strada.»
Il soldato lo squadrò dalla testa ai piedi, esaminò Thom e il manto da menestrello, tornò a guardare Mat. «Capitano, eh? Be’, ragazzo, avrai la fortuna del Tenebroso, se troverai una stalla dove dormire. La maggior parte di questa gente dorme dietro le siepi. E se troverai un cavallo che non sia stato macellato, con ogni probabilità dovrai fare a pugni col padrone, per fartelo vendere.»
«Mangiare i cavalli!» borbottò Thom, disgustato. «La situazione è davvero così brutta, da questa parte del fiume? La regina non invia viveri?»
«È brutta, menestrello» disse il soldato, come se volesse sputare. «Attraversano il fiume più rapidamente di quanto i mulini non producano farina o i carri non portino cibi dalle fattorie. Be’, non durerà ancora a lungo. L’ordine è arrivato. Da domani impediremo a chiunque d’attraversare il fiume e rimanderemo indietro chi ci prova.» Guardò, accigliato, le persone che andavano avanti e indietro sui moli, come se fosse colpa loro; poi rivolse a Mat la stessa occhiata dura. «Occupi spazio, viaggiatore. Muoviti.» Alzò di nuovo la voce, rivolto a chiunque era a portata d’orecchio: «Circolare! Non potete stare qui, maledizione! Circolare!»
Mat e Thom si unirono al rivolo di gente, di carri e di slitte che scorreva verso la porta nelle mura di cinta ed entrava a Aringill.
Le vie principali erano pavimentate con pietre piatte e grigie, ma erano così affollate da rendere difficile vederle sotto i propri piedi. Molti parevano muoversi senza meta precisa, senza sapere dove andare; chi aveva rinunciato a girovagare, se ne stava accovacciato con aria derelitta lungo la via; i più fortunati tenevano davanti a sé il fagotto con le proprie cose o fra le braccia qualche oggetto particolarmente caro. Mat vide tre uomini che reggevano orologi e più d’una decina con coppe o piatti d’argento. Le donne, in genere, stringevano al petto i figli. Un borbottio confuso riempiva l’aria, un basso ronzio privo di parole. Mat, accigliato, si fece largo tra la folla, cercando l’insegna di una locanda. Gli edifici erano di tutti i tipi, di legno, di mattoni, di pietra, l’uno addossato all’altro, con tetti di tegole, d’ardesia, di stoppie.
«Non pare comportamento da Morgase» disse Thom, dopo un certo tempo, quasi fra sé. Le ispide sopracciglia formavano una freccia che indicava il naso.
«Cosa?» domandò Mat, con aria assente.
«Bloccare la traversata del fiume. Rimandare indietro la gente. Ha sempre avuto carattere collerico, ma anche il cuore tenero verso poveri e affamati.» Scosse la testa.
Mat vide allora un’insegna (l’Uomo del Fiume, diceva; e mostrava un tizio scalzo e a torso nudo che ballava la giga) e girò da quella parte, aprendosi a forza col bastone la strada. «Be’, sarà di sicuro ordine suo» disse. «Di chi altri potrebbe essere? Dimentica Morgase, Thom. Siamo ancora molto lontano da Caemlyn. Vediamo prima quanto oro occorre per avere un letto.»
La sala comune della locanda era affollata come la via; quando udì le richieste di Mat, il locandiere si mise a ridere fino a far tremolare il doppio mento. «Ora li faccio dormire quattro per letto. Se venisse mia madre, non avrei da darle una coperta per stendersi accanto al fuoco.»
«Come avrai certamente notato» disse Thom, con voce echeggiante «sono un menestrello. Troverai di sicuro almeno due pagliericci in un angolo, se in cambio intratterrò i tuoi clienti, con storie e giochi d’abilità e di destrezza.»
Il locandiere gli rise in faccia.
Mentre Mat lo tirava in istrada, Thom ringhiò, con voce normale: «Non mi hai dato l’opportunità di chiedergli della stalla. Sicuramente avrei ottenuto almeno un posto nel fienile.»
«Da quando ho lasciato Emond’s Field, ho dormito fin troppo in stalle e fienili» ribatté Mat. «E anche fra i cespugli. Voglio un letto.»
Ma nelle successive quattro locande, il locandiere diede le stesse risposte del primo; gli ultimi due a momenti lo gettavano fuori di peso, quando Mat propose di giocarsi ai dadi un letto. E quando il proprietario della quinta locanda gli disse che non avrebbe trovato un pagliericcio neppure per la regina in persona (in un locale chiamato la Buona Regina) Mat sospirò e rispose: «E la stalla? Pagando, potremo di sicuro dormire nel fieno.»
«La mia stalla è per i cavalli» rispose l’uomo «anche se in città non ne restano molti.» Era occupato a lucidare una coppa d’argento; apri l’anta d’una stretta credenza posta sopra un ampio cassettone e posò la coppa fra le altre, tutte spaiate. In cima al cassettone c’era un bussolotto per dadi, di cuoio lavorato. «Non ci metto gente che spaventi i cavalli o che se la svigni portandoseli via» proseguì il locandiere. «Chi mi paga per alloggiare il proprio cavallo vuole che sia ben curato; inoltre, ci tengo anche due cavalli miei. Per voi nella mia stalla non ci sono letti.»
Mat occhieggiò pensierosamente il bussolotto di dadi. Tolse di tasca una corona d’oro andorana e la mise sul cassettone. Vi aggiunse un marco d’argento di Tar Valon, poi un marco d’oro, e una corona d’oro di Tear. Il locandiere guardò le monete e si umettò le labbra. Mat aggiunse ancora due marchi d’argento di Illian e un’altra corona d’oro dell’Andor; fissò il viso tondo del locandiere. Costui esitava. Mat allungò la mano per riprendersi le monete. Il locandiere lo batté sul tempo.
«Forse voi due non disturberete molto i cavalli» disse.
Mat gli sorrise. «A proposito di cavalli, quanto vuoi dei due che possiedi? Con sella e briglia, naturalmente.»
«Non vendo i miei cavalli» rispose il locandiere, stringendosi al petto il pugno con le monete.
Mat prese il bussolotto di dati e lo agitò. «Due volte tanto, contro cavalli, selle e briglie.» Scosse la tasca della giubba, per far tintinnare le monete e mostrare d’averne altre per coprire la puntata. «Un solo lancio, contro il migliore dei tuoi due» soggiunse. A momenti si mise a ridere, nel vedere la bramosia dipinta sulla faccia del locandiere.
Quando entrò nella stalla, per prima cosa Mat controllò i sei box occupati alla ricerca di due castroni baio. Non avevano niente di particolare, ma adesso erano suoi. Avevano gran bisogno di brusca e striglia; per il resto, parevano in buone condizioni, tenuto anche conto che tutti gli stallieri tranne uno se n’erano andati. Il locandiere aveva detto in tono assai sprezzante che si lamentavano di non poter più vivere del poco che li pagava e pareva ritenere criminoso che l’ultimo rimasto avesse avuto l’audacia di dichiarare che sarebbe andato a dormire a casa perché era stufo di fare il lavoro di tre uomini.
«Cinque “sei"» borbottò Thom, dietro Mat. Le occhiate che rivolse alla stalla non parevano così piene d’entusiasmo come ci si sarebbe aspettato, dal momento che era stato lui il primo a suggerire le stalle. Gli ultimi raggi di sole entravano dalla doppia porta e indoravano il pulviscolo; le funi usate per sollevare le balle di fieno penzolavano come liane dalle pulegge appese alle travi del soffitto. Il fienile era scarsamente visibile, nella penombra in alto. «Quando al secondo lancio ha ottenuto quattro “sei” e un “cinque"» continuò Thom «era sicuro che avresti perso. E io pure. Ultimamente non vinci più a ogni lancio.»
«Vinco quanto basta» rispose Mat. Provava un certo sollievo a non vincere a ogni colpo. La fortuna era una cosa; ma il ricordo di quella notte gli dava ancora i brividi. Eppure, mentre agitava il bussolotto, per un istante aveva saputo quale punteggio sarebbe sortito. Gettò sul fienile il bastone e in quel momento udì rombare il tuono. Sali la scala a pioli e disse a Thom: «È stata una buona idea. Non ti sarebbe piaciuto molto, stare fuori alla pioggia, stanotte.»
La maggior parte del fieno era in balle impilate contro le pareti esterne, ma quello sparso sul tavolato bastava per un pagliericcio. Mentre Thom compariva in cima alla scala, Mat tolse dalla sacca di cuoio due pagnotte e un pezzo di formaggio dalle venature verdastre. Il locandiere, Jeral Florry, glieli aveva venduti per una cifra che in giorni più tranquilli sarebbe bastata a comprare uno di quei due cavalli. Mentre la pioggia cominciava a tamburellare sul tetto, si misero a mangiare, accompagnando il cibo con l’acqua delle ghirbe (Florry non aveva vino, a nessun prezzo); terminata la cena, Thom estrasse la scatola con l’acciarino, caricò la pipa dal lungo cannello e si dispose a farsi una fumata.
Mat, disteso sulla schiena, fissava il soffitto in ombra e si domandava se la pioggia sarebbe cessata prima del mattino — voleva liberarsi al più presto della lettera — quando udì nella stalla il cigolio di un assale. Rotolò fino al bordo del tavolato e scrutò di sotto. La luce del crepuscolo era sufficiente.
Una donna snella si rialzava in quel momento dalle stanghe del carretto dalle alte ruote appena tirato al coperto. Si tolse il mantello e borbottò tra sé, scuotendo via la pioggia. Aveva capelli acconciati in una miriade di treccioline e una veste di seta (a Mat parve verde chiaro) riccamente ricamata sul petto. L’abito, un tempo elegante, era lacero e macchiato. La donna si massaggiò la schiena, sempre borbottando sottovoce, e andò in fretta alla porta a scrutare nella pioggia. Con la stessa fretta si ritrasse e chiuse i battenti, facendo piombare nel buio la stalla. Seguì un fruscio e uno schiocco; all’improvviso un piccolo fuoco sbocciò nella lanterna che la donna reggeva. La donna si guardò intorno, trovò un gancio infisso in un palo degli stalli, vi appese la lanterna e infilò la mano sotto il telo, legato con funi, che copriva il carretto.
«È stata veloce» disse piano Thom, senza togliersi di bocca il cannello della pipa. «Poteva dare fuoco a tutta la stalla, usando a quel modo l’acciarino nel buio.»
La donna aveva preso un tozzo di pane e lo mangiava come se fosse duro, ma avesse troppa fame per curarsene.
«È rimasto un po’ di formaggio?» domandò Mat in un bisbiglio. Thom scosse la testa.
La donna si mise a fiutare l’aria: aveva sentito l’odore del tabacco di Thom. Mat stava per mostrarsi, quando la porta della stalla si aprì di nuovo.
La donna si acquattò, pronta a fuggire; quattro uomini entrarono al riparo della pioggia e si tolsero i mantelli bagnati, mettendo in mostra giubbe di colore chiaro, con maniche ampie e ricami sul petto, e ampie brache ricamate lungo la costa delle gambe. Forse indossavano abiti fantasiosi, ma erano quattro tipi robusti e avevano un’aria sinistra.
«Allora, Aludra» disse l’uomo dalla giubba gialla «non sei scappata lontano come credevi, eh?» La voce, alle orecchie di Mat, aveva una cadenza bizzarra.
«Tammuz» disse la donna, pronunciando il nome dell’uomo come se fosse un’imprecazione. «Non ti basta che la Gilda m’abbia cacciato per colpa dei tuoi pasticci, grosso asino dal cervello di gallina! Ora mi dai anche la caccia.» Aveva lo stesso, bizzarro, modo di parlare dell’uomo. «Credi che sia felice di vederti?»
Tammuz si mise a ridere. «Sei davvero una grande stupida, Aludra, come ho sempre saputo. Se ti fossi limitata ad andartene, avresti vissuto una lunga vita in qualche posto tranquillo. Ma non potevi dimenticare i segreti che custodisci nella tua testa, eh? Credevi che non avremmo saputo che cerchi di guadagnarti da vivere facendo ciò che solo la Gilda ha diritto di fare?» All’improvviso impugnava un coltello. «Sarà un vero piacere, Aludra, tagliarti la gola.»
Senza neppure accorgersene, Mat si era alzato, si era appeso a una doppia fune che dondolava dal soffitto e si era lanciato di sotto. Solo allora si diede dello scemo.
Ebbe solo il tempo di un pensiero frenetico e passò fra gli uomini in mantello, mandandoli a cadere come birilli in un gioco di bocce. La fune gli scivolò di mano e lui cadde rotolando sul pavimento coperto di strame, perdendo monete dalle tasche, e finì contro uno stallo. Quando si rialzò, anche i quattro si rialzavano. E impugnavano tutti un coltello.
«Mat!»
Mat alzò gli occhi e Thom gli gettò il bastone dalla punta ferrata. Mat lo afferrò al volo appena in tempo per disarmare Tammuz e colpirlo alla tempia. L’uomo crollò, ma gli altri tre erano subito dietro e per un frenetico istante Mat riuscì solo a muovere il bastone per tenere lontano le lame; colpì ginocchia, caviglie e costole, finché non aveva l’occasione di vibrare un buon colpo in testa. Quando l’ultimo uomo cadde a terra, Mat fissò un momento gli avversari e poi guardò la donna. «Dovevi scegliere proprio questa stalla per farti assassinare?» le disse.
La donna rimise nel fodero alla cintura un pugnale dalla lama sottile. «Ti avrei aiutato, ma temevo che, se mi fossi avvicinata col pugnale in mano, mi avresti scambiata per uno di quei pagliacci. Ho scelto questa stalla perché la pioggia è bagnata, io sono bagnata e qui non c’era nessuno di guardia.»
Era più matura di quanto Mat non avesse pensato: aveva almeno quindici anni più di lui, ma era ancora graziosa, con occhi grandi e scuri, bocca piccola e piena che pareva pronta a mettere il broncio. O a dare un bacio, pensò Mat. Ridacchiò e si appoggiò al bastone. «Be’, cosa fatta capo ha» disse. «Immagino che non volevi procurarci guai.»
Thom scendeva dal fienile, con un certo impaccio a causa della gamba; Aludra guardò da lui a Mat. Il menestrello si era rimesso il manto: di rado si lasciava vedere senza il simbolo della propria professione, soprattutto al primo incontro.
«Sembra una storia» disse Aludra. «Un menestrello e un giovane eroe mi salvano da...» corrugò la fronte, nel guardare gli uomini che giacevano scompostamente sul pavimento della stalla «da questi figli di scrofa.»
«Perché volevano ucciderti?» domandò Mat. «Quello parlava di segreti.»
«I segreti» intervenne Thom, con voce echeggiante «per fabbricare fuochi d’artificio, se non sbaglio di grosso. Appartieni alla Gilda degli Illuminatori, vero?» Eseguì un inchino, con un elaborato roteare di mantello. «Mi chiamo Thom Merrilin e sono menestrello, come hai già capito.» Come per un ripensamento, soggiunse: «E questi è Mat, un giovanotto con un talento speciale per trovare guai.»
«Appartenevo alla Gilda» replicò, rigida, Aludra. «Questo gran maiale di Tammuz ha rovinato uno spettacolo per il re del Cairhien e per giunta ha rischiato di distruggere la casa capitolare. Ma io ero la Signora della Casa Capitolare, perciò la Gilda se l’è presa con me.» Cambiò tono, sulla difensiva. «Non rivelo i segreti della Gilda, qualsiasi cosa Tammuz abbia detto, ma non intendo fare la fame, quando posso fabbricare fuochi d’artificio. Non appartengo più alla Gilda, quindi non sono tenuta a rispettarne le leggi.»
«Galldrian» disse Thom, con un tono cupo assai simile al suo. «Bene, ormai è un sovrano defunto e non vedrà più fuochi d’artificio.»
«La Gilda» disse Aludra, in tono stanco «incolpa me della guerra nel Cairhien, come se a provocare la morte di Galldrian sia stato il disastro di quella notte.» Thom fece una smorfia. «A quanto pare» proseguì lei «non posso più restare qui. Tammuz e gli altri si riprenderanno presto. Forse stavolta diranno ai soldati che ho rubato i fuochi d’artificio.» Con aria pensierosa guardò Thom, poi Mat, e parve prendere una decisione. «Devo ricompensarvi, ma non ho denaro. Però ho qualcosa che forse vale più dell’oro. Vedremo cosa ne pensate.»
Mentre Aludra frugava sotto il telo che copriva il carretto, Mat e Thom si scambiarono un’occhiata. “Aiuterò chiunque mi paghi” ricordò d’avere detto Mat. Gli parve che una luce pensierosa fosse comparsa negli occhi di Thom.
Aludra separò un involto da un certo numero di altri involti uguali: un corto rotolo di tela pesante e oleata, spesso più di due spanne. Lo depose sullo strame, sciolse le cordicelle che lo legavano e lo srotolò per terra. C’erano quattro file di tasche, ciascuna più ampia della precedente. Ogni tasca conteneva un cilindro di carta rivestito di cera dal quale penzolava un cordino scuro.
«Fuochi d’artificio» disse Thom. «Lo sapevo. Aludra, lascia perdere. Puoi venderli e ricavarne il necessario per vivere dieci giorni o più in una buona locanda e mangiare bene ogni giorno. Be’, da qualsiasi parte, tranne qui a Aringill.»
Inginocchiata accanto alla striscia di tela, Aludra sbuffò. «Stai zitto, vecchio» replicò, ma non senza gentilezza. «Non mi è consentito dimostrare gratitudine? Credi che ve li darei, se non ne avessi altri da vendere? State bene attenti.»
Mat, affascinato, si accovacciò accanto a lei. Due volte, in vita sua, aveva visto fuochi d’artificio. Venditori ambulanti li avevano portati a Emond’s Field, a grandi spese del Consiglio del Villaggio. A dieci anni, aveva cercato di aprirne uno per vedere che cosa conteneva e aveva provocato un putiferio. Bran al’Vere, il sindaco, l’aveva preso a sberle; Dorai Barran, a quel tempo la Sapiente, l’aveva frustato; e suo padre l’aveva preso a cinghiate, al ritorno a casa. Nessuno, al villaggio, gli aveva parlato per un mese, a parte Rand e Perrin; e anche loro, solo per dirgli quant’era stato stupido. Allungò la mano a toccare un cilindro. Aludra gliela spinse via.
«Prima stai attento, ho detto! Quelli piccoli fanno un grande botto e basta.» Erano spessi quanto il suo mignolo. «Questi un po’ più grandi fanno un botto e un vivido lampo. Questi altri, il botto e il lampo e un mucchio di scintille. Gli ultimi...» erano più grossi del pollice «oltre al resto fanno scintille multicolori. Quasi come un fiore notturno, ma non nel cielo.»
"Fiore notturno?" pensò Mat, stupito.
«Con questi dovete fare particolare attenzione. Vedete, la miccia è molto lunga.» Notò lo sguardo vacuo di Mat e agitò verso di lui la lunga cordicella scura. «Questa, la miccia!»
«Dove si dà fuoco» borbottò Mat. «Lo so.»
Thom emise un verso gutturale e con le nocche si lisciò i baffi, quasi a coprire un sorriso.
«Sì, dove si dà fuoco» brontolò Aludra. «Accesa la miccia, stai lontano, soprattutto da questi più grossi. Hai capito?» Arrotolò con gesti rapidi la striscia di tela. «Puoi venderli, se vuoi, o usarli. Ricorda di non metterli mai accanto al fuoco. Il fuoco li farebbe esplodere tutti. Forse basterebbero a distruggere una casa.» Esitò, mentre legava di nuovo l’involto, e soggiunse: «Un’ultima cosa, che forse non sai. Non tagliarne nessuno, come fa qualche emerito sciocco per vedere cosa c’è dentro. A volte, quando il contenuto viene a contatto con l’aria, esplode anche senza fuoco. Rischi di perdere un dito o addirittura la mano.»
«L’ho sentito dire» replicò Mat, asciutto.
Aludra lo guardò a fronte corrugata. Parve domandarsi se lui avesse intenzione di provarci in ogni caso. Poi spinse verso di lui il rotolo di tela. «Tieni» disse. «Ora devo andarmene, prima che questi figli di caprone si riprendano.» Diede un’occhiata alla porta ancora aperta e alla pioggia battente. Sospirò. «Forse troverò un altro riparo. Domani andrò verso il Lugard, credo. Questi maiali si aspetteranno che vada a Caemlyn, no?»
Il Lugard era molto più lontano di Caemlyn e Mat all’improvviso ricordò il tozzo di pane duro. La donna aveva detto di non avere denaro. I fuochi d’artificio non le avrebbero procurato pasti, finché lei non avesse trovato chi poteva permettersi di acquistarli. Ma non aveva neppure dato un’occhiata alle monete d’oro e d’argento che gli erano cadute di tasca e brillavano fra lo strame. Non poteva lasciarla andare via affamata, si disse. Raccolse in fretta alcune monete.
«Ah... Aludra? Ne ho un mucchio, lo vedi. Pensavo che forse...» Le tese le monete. «Posso sempre vincerne altre.»
Aludra si fermò, col mantello per metà sulle spalle; mentre terminava di coprirsi, sorrise a Thom. «È ancora giovane, eh?» commentò.
«È giovane» convenne Thom. «E cattivo nemmeno la metà di quanto gli piacerebbe credersi. A volte.»
Mat li guardò in cagnesco e abbassò la mano.
Aludra alzò le stanghe e girò il carretto; si diresse alla porta e, nel passare, diede un calcio nelle costole a Tammuz, che gemette, ancora intontito.
«Vorrei sapere una cosa, Aludra» disse Thom. «Come hai fatto, al buio, ad accendere così in fretta la lanterna?»
Lei si fermò e gli sorrise, girando solo la testa. «Vuoi che ti riveli tutti i miei segreti? Sono riconoscente, non innamorata. Questo segreto è ignoto perfino alla Gilda, perché l’ho scoperto io. Ti dirò una cosa: quando scoprirò il modo di farli funzionare senza intoppi e solo quando voglio io, i bastoncini faranno la mia fortuna.» Fece leva sulle stanghe, spinse sotto la pioggia il carretto e fu inghiottita dalla notte.
«Bastoncini?» disse Mat. Si domandò se non fosse un po’ tocca nella testa.
Tammuz gemette di nuovo.
«Meglio imitarla, ragazzo» disse Thom. «Altrimenti saremo costretti a tagliare quattro gole e forse passare i prossimi giorni a dare spiegazioni alle Guardie della Regina. Quelli hanno l’aria di chi da la caccia alla gente solo per ripicca. E di motivi di ripicca nei nostri confronti ne hanno a sufficienza.»
Un compagno di Tammuz si agitò come se stesse per rinvenire e borbottò qualche parola incomprensibile.
Mat e Thom radunarono le proprie cose e sellarono i cavalli; intanto, Tammuz si era alzato carponi e ciondolava la testa; anche gli altri si muovevano e gemevano.
Mat montò in sella e fissò la pioggia che cadeva a dirotto. «Un maledetto eroe» disse. «Thom, se mi vedi di nuovo sul punto di fare l’eroe, prendimi a calci.»
«Cosa avresti fatto, altrimenti?»
Mat lo fissò in cagnesco, si calò il cappuccio e allargò la falda del mantello sopra il rotolo legato dietro l’arcione posteriore. Anche se la tela era cerata, una piccola protezione in più non avrebbe fatto male. «Prendimi a calci e basta!» replicò. Spronò il cavallo e galoppò nella notte e nella pioggia.