46 Un messaggio dall’Ombra

Tornando a piedi alla Città Interna, Mat non era affatto sicuro che il piano avrebbe funzionato. Avrebbe avuto successo, se quello che gli avevano detto era vero... ma proprio di questo dubitava. Evitò la piazza ovale davanti al palazzo e costeggiò il vasto edificio, lungo vie piene di curve, che seguivano il contorno delle colline. Le cupole dorate del palazzo scintillavano e parevano deriderlo, tenendosi fuori portata. Mat aveva fatto quasi il giro completo, quando vide ciò che cercava: un erto pendio fittamente coperto di bassi cespugli in fiore, che dalla via portava a un muro di pietra scabra e bianca. Diversi rami fronzuti sporgevano dal muro e più in là si vedeva la cima di altri alberi: un giardino del Palazzo Reale.

"Un muro fatto per sembrare roccia a strapiombo” pensò Mat “e un giardino dall’altro lato. Forse Rand diceva il vero."

Con aria indifferente diede un’occhiata alla via e vide che in quel momento non c’era nessuno. Doveva fare in fretta: le curve della via non permettevano di vedere lontano e in qualsiasi momento poteva giungere qualcuno. Si arrampicò carponi per il pendio, senza badare a quanti fiori rovinava. La scabra pietra del muro forniva appigli a volontà e consentiva l’arrampicata anche a chi calzasse stivali.

Erano stati negligenti a fare un muro così facile da scalare, si disse. Per un istante ricordò quando, con Rand e Perrin, era andato al di là delle Colline Sabbiose fino al limitare delle Montagne delle Nebbie. Al ritorno a Emond’s Field, si erano beccati le legnate di chiunque riusciva a mettere loro le mani addosso (lui più degli altri, perché tutti avevano immaginato che l’idea fosse stata sua) ma per tre giorni avevano scalato i dirupi, dormito sotto il cielo, mangiato uova rubate dai nidi di crestarossa e grassi galli cedroni abbattuti con una freccia o con un colpo di fionda e conigli presi con le trappole, sempre ridendo perché non avevano paura che quelle montagne portassero sfortuna e c’era la prospettiva di trovare qualche tesoro. Da quella spedizione aveva riportato a casa una pietra bizzarra con l’impronta della testa di un grosso pesce e una lunga penna d’aquila delle nevi e una pietra bianca che pareva scolpita a forma d’orecchio umano. A lui pareva un orecchio, anche se Rand e Perrin non erano della stessa idea, e Tam al’Thor aveva detto che poteva anche essere un orecchio.

Sentì scivolare le dita infilate in un solco poco profondo, spostò l’equilibrio del corpo, perdette l’appiglio del piede sinistro. Con un ansito, riuscì appena a reggersi alla cima del muro e a tirarsi su a braccia. Per un momento rimase disteso sul colmo del muro e riprese fiato: non sarebbe stata una gran caduta, ma sufficiente a rompersi la testa. Era stato davvero sciocco a mettersi a fantasticare. Anche sulle montagne aveva corso il rischio di lasciarci la pelle, per lo stesso motivo. Comunque, era probabile che sua madre avesse già buttato via tutte quelle cose. Diede un’occhiata a destra e a sinistra per accertarsi che nessuno l’avesse visto (in basso, il tratto di via era sempre deserto) e si lasciò cadere nel giardino.

Era un giardino ampio, con vialetti lastricati, tratti erbosi fra gli alberi, fitte pergole. E fiori dappertutto. Bianchi, sui peri; bianchi e rosa, sui meli. C’erano rose d’ogni colore, girasoli giallo vivo, Glorie di Emond viola e altri fiori che non conosceva. Alcuni parevano addirittura finti. Una pianta aveva bizzarri fiori scarlatti e dorati che sembravano uccelli; un’altra pareva un girasole, ma con fiori di due piedi di diametro e gambi alti come un Ogier.

Udì scricchiolio di stivali sul selciato e si acquattò dietro un cespuglio contro il muro. Passarono due guardie dal lungo colletto bianco penzolante sulla piastra pettorale. Non guardarono dalla sua parte e Mat sorrise: fortuna, solo un po’ di fortuna, e nessuno l’avrebbe visto, finché non avesse consegnato a Morgase la maledetta lettera.

Attraversò come un’ombra il giardino, quasi desse la caccia ai conigli selvatici, rimanendo immobile dietro un cespuglio o contro un tronco, appena udiva rumore di passi. Altre due coppie di soldati passarono nei vialetti, l’ultima a meno di quattro spanne da lui. Mentre scomparivano fra le piante in fiore e gli alberi, Mat raccolse una stellardente rosso vivo e con un sorriso se la infilò fra i capelli. Percorrere di nascosto il giardino era più divertente che rubare crostate di mele in un giorno di festa e anche più facile. Le donne tenevano sempre d’occhio ciò che avevano tolto dal forno; quegli stupidi soldati non alzavano mai gli occhi dalle pietre del lastrico.

In breve si ritrovò contro il muro del palazzo stesso e si mise a cercare una porta, passando dietro una fila di graticci che sostenevano un roseto dai fiori bianchi. All’altezza della sua testa c’erano ampie finestre ad arco; ma, se l’avessero sorpreso, avrebbe avuto una certa difficoltà a spiegare il motivo per cui si arrampicava da una finestra, anziché entrare da una porta. Comparvero altri due soldati e Mat rimase immobile: sarebbero passati a sei spanne da lui. Dalla finestra sopra la sua testa provenivano delle voci: due uomini, di cui riusciva a distinguere le parole.

«...In viaggio verso Tear, Padrone.» Il tono pareva spaventato e ossequioso.

«Lasciamo che rovinino i suoi piani, se possono.» La seconda voce era più profonda e più forte, tipica di chi è abituato a dare ordini. «Se tre ragazze prive d’addestramento frustrano i suoi piani, ben gli sta. Era uno sciocco e non è cambiato. Notizie del ragazzo? Lui può distruggerci tutti.»

«No, Padrone. È scomparso. Però, Padrone, una delle tre ragazze è la figlia di Morgase.»

Mat si girò a mezzo, si dominò. I soldati si avvicinavano e non avevano notato il movimento improvviso dietro il fitto roseto. “Forza, idioti, passate!" pensò Mat. “Così vedo chi è quel maledetto!" Aveva perso alcune battute della conversazione.

«...È stato troppo impaziente, da quando ha riottenuto la libertà» diceva in quel momento la voce più profonda. «Non ha mai capito che i piani migliori hanno bisogno di tempo per maturare. Vuole il mondo in un giorno e Callandor per soprammercato. Il Sommo Signore se lo porti! Può catturare la ragazza e provare a servirsene. Questo intralcerebbe i miei piani.»

«Sì, Padrone. Devo ordinare che la portino fuori di Tear?»

«No. Se venisse a saperlo, quello sciocco la riterrebbe una mossa contro di lui. E poi, nessuno può dire cosa tiene d’occhio, oltre la spada. Fai in modo che la ragazza muoia senza tanto chiasso, Comar. Che la sua morte passi del tutto inosservata.» La sua risata fu un brontolio corposo. «Stavolta, quelle ignoranti megere della Torre troveranno duro farla ricomparire. Provvedi rapidamente. Prima che lui abbia il tempo di catturarla.»

I due soldati erano quasi di fronte a lui: con la forza del pensiero Mat cercò di farli muovere.

«Padrone, l’impresa potrebbe rivelarsi difficile» disse l’altra voce, in tono insicuro. «Sappiamo che lei è in viaggio per Tear, ma la nave su cui era imbarcata è stata trovata a Aringill e tutt’e tre erano già scese a terra. Non sappiamo se abbia preso un’altra nave o proseguito a cavallo. Se arriva a Tear, potrebbe essere difficile ritrovarla, Padrone. Forse, se tu...»

«C’è soltanto gente stupida al mondo, ora?» replicò la voce profonda. «Cosa credi, che a Tear io possa muovermi senza che lui lo sappia? Non intendo combatterlo, non ancora e non adesso. Portami la testa della ragazza, Comar. Portami la testa di tutt’e tre, altrimenti mi supplicherai di tagliarti la tua!»

«Sì, Padrone. Sarà come tu vuoi. Sì. Sì.»

I soldati passarono, con scricchiolio di cuoio sul selciato, senza guardare né a destra né a sinistra. Mat aspettò solo di vedere la loro schiena, prima di spiccare un balzo, aggrapparsi al largo davanzale di pietra e sollevarsi quanto bastava a guardare dalla finestra.

Notò appena il tappeto frangiato del Tarabon, che da solo valeva una grossa borsa d’argento. In quel momento la porta dai larghi battenti intagliati si chiudeva. Un uomo alto, con spalle ampie e torace profondo che tendeva la seta verde della giubba ricamata in argento, teneva puntati sulla porta gli occhi azzurro scuro. Aveva una corta barba nera, con una striatura bianca sul mento. Tutto sommato, aveva l’aria da duro, da uomo avvezzo a dare ordini.

«Sì, Padrone» disse a un tratto. Mat, per la sorpresa, quasi cadde dal davanzale: aveva pensato che fosse lui, l’uomo dalla voce profonda; invece aveva udito la voce timorosa. Non timorosa, adesso, ma sempre la stessa. «Sarà come tu vuoi, Padrone» continuò, amaro, l’uomo. «Taglierò io stesso la testa alle tre ragazze. Appena riuscirò a trovarle!» A passo deciso varcò la porta e Mat si lasciò cadere a terra.

Per un momento rimase accucciato dietro il roseto. Qualcuno, nel palazzo, voleva la morte di Elayne e, in second’ordine, anche di Egwene e di Nynaeve. Senza dubbio si trattava di loro. Ma cosa ci facevano, a Tear?

Prese la lettera dell’Erede e la guardò, accigliato. Forse, con quella lettera, Morgase gli avrebbe creduto. Poteva descrivere uno dei due uomini. Ma doveva sbrigarsi: quel tipo poteva partire per Tear, prima che lui trovasse Morgase; e qualsiasi cosa la regina avesse fatto dopo, non era detto che potesse fermarlo.

Inspirò a fondo, passò fra due tralicci di rose, rimediando solo qualche graffio, e si avviò per il vialetto, dietro i soldati. Tenne davanti a sé la lettera di Elayne, in modo che fosse ben visibile il sigillo a forma di giglio dorato, e ripeté a mente le parole che intendeva dire. Quando si era aggirato di nascosto nel giardino, le guardie comparivano come funghi dopo la pioggia; ma ora attraversò quasi tutto il giardino senza vederne nessuna. Passò davanti a diverse porte. Non era una buona idea entrare senza permesso nel palazzo reale — le guardie potevano fare prima cose spiacevoli e poi ascoltare — ma cominciava proprio a pensare di varcare una porta, quando questa si aprì e ne uscì un giovane ufficiale a testa scoperta, con un solo nodo d’oro sulla spallina.

L’ufficiale portò subito la mano alla spada e ne sguainò una spanna, prima che Mat potesse spingergli sotto il naso la lettera. «Elayne, Erede dell’Andor, manda a sua madre, la regina Morgase, questa lettera, capitano» disse. Tenne la lettera in modo che il sigillo risaltasse.

L’ufficiale guardò rapidamente a destra e a sinistra, come se cercasse altri, ma non perdette mai d’occhio Mat. «Come sei entrato in questo giardino?» domandò. Non sguainò del tutto la spada, ma neppure la rimise nel fodero. «Elber è alla porta principale. È un idiota, ma non permetterebbe a nessuno di gironzolare nel palazzo.»

«Un grassone con occhi da topo?» disse Mat. Subito maledisse la propria linguaccia, ma l’ufficiale annuì seccamente e quasi sorrise, senza però allentare la vigilanza. «Quando ha saputo che venivo da Tar Valon, si è arrabbiato; non mi ha dato l’opportunità di mostrare la lettera né di fare il nome dell’Erede. Ha detto che m’avrebbe fatto arrestare, se non andavo via subito. Così ho scalato il muro. Ho promesso di consegnare la lettera alla regina Morgase in persona, capisci, capitano? Mantengo sempre le promesse. Vedi il sigillo?»

«Di nuovo quel maledetto muro» brontolò l’ufficiale. «Dovrebbero farlo tre volte più alto.» Squadrò Mat. «Tenente delle Guardie, non capitano. Sono il tenente Tallanvor. Riconosco il sigillo dell’Erede.» Finalmente spinse nel fodero la spada. Tese la mano, la sinistra. «Dammi la lettera, la porterò io alla regina. Dopo averti accompagnato all’uscita. Alcuni non sarebbero gentili come me, se ti trovassero a gironzolare da solo.»

«Devo consegnarla di persona» ribadì Mat. Non aveva pensato che avrebbero potuto negargli il permesso. «L’ho promesso all’Erede.»

Quasi non s’accorse del movimento di Tallanvor e si trovò contro il collo la punta della spada. «Ti condurrò dalla regina, contadino» disse piano il tenente. «Ma sappi che posso staccarti la testa prima che tu batta ciglio, se solo ti viene l’idea di nuocerle.»

Mat sfoggiò il suo miglior sorriso: la lama leggermente ricurva pareva assai affilata. «Sono un leale andorano» disse «e un fedele suddito della regina, la Luce la illumini. Fossi stato qui durante l’inverno, avrei seguito di sicuro lord Gaebril.»

Tallanvor lo fissò, a labbra serrate; poi scostò la spada. Mat deglutì e si sforzò di non toccarsi il collo per scoprire se sanguinava.

«Togliti quel fiore dai capelli» disse Tallanvor, rimettendo nel fodero la spada. «Credi d’essere venuto qui a corteggiare ragazze?»

Mat si tolse la stellardente e seguì l’ufficiale. Che idiota era stato, a mettersi un fiore nei capelli! Doveva smetterla di fare lo scemo.

A dire il vero, non seguiva il tenente, perché Tallanvor lo teneva sempre d’occhio, anche facendo strada. Ne risultò un bizzarro corteo, con il tenente che procedeva di sghembo per prevenire un’eventuale mossa di Mat. Da parte sua, Mat cercò d’assumere l’aria innocente d’un bambino che sciaguatti nel bagnetto.

I colorati arazzi alle pareti meritavano l’argento pagato ai tessitori, come i tappeti sui pavimenti a piastrelle bianche anche nei corridoi. Oro e argento si sprecavano: piatti e vassoi, ciotole e coppe, su cassapanche e bassi armadi di legno tirato a cera, tutti di squisita fattura. Da ogni parte correvano servitori in livrea rossa, colletto e polsini bianchi, Leone dell’Andor sul petto. Mat si scoprì a domandarsi se Morgase giocava a dadi. Che idea idiota! Le regine non giocano a dadi. Ma appena le avesse consegnato la lettera e riferito che qualcuno nel palazzo reale intendeva uccidere Elayne, Morgase l’avrebbe ricompensato di sicuro con una borsa gonfia di monete. Si lasciò andare a una breve fantasticheria in cui la regina lo nominava lord: chi aveva scoperto il complotto per uccidere l’Erede poteva ben aspettarsi una ricompensa del genere!

Tallanvor lo guidò per tanti di quei corridoi e tante di quelle corti che Mat cominciava a domandarsi se avrebbe mai ritrovato da solo la via d’uscita, quando a un tratto entrò in una corte affollata di servitori più delle altre. Un colonnato la circondava; al centro c’era un laghetto rotondo dove nuotavano pesci dorati, tra piante fiorite di giglio d’acqua. Uomini con giubbe dai colori vivaci, a ricami d’oro o d’argento, e donne con vesti ancor più riccamente ornate, tenevano compagnia a una donna dai capelli rossodorati, seduta sul bordo rialzato del laghetto, le dita in acqua e lo sguardo triste sui pesci che venivano in superficie con la speranza di qualche briciola di cibo. Al medio della destra portava l’anello col Gran Serpente. Al suo fianco c’era un uomo alto e scuro, con una giubba di seta il cui colore rosso era quasi nascosto dai ricami d’oro. Ma fu la donna, a catturare lo sguardo di Mat.

Anche senza il serto di rose d’oro e la stola rossa ricamata con Leoni dell’Andor sulla veste bianca a bande rosse, Mat avrebbe subito capito di trovarsi in presenza di Morgase di Casa Trakand, per grazia della Luce Regina dell’Andor, Difesa del Regno, Protezione del Popolo. Aveva il viso e la bellezza di Elayne, ma di una Elayne più matura. In sua presenza, ogni altra donna della corte sbiadiva nello sfondo.

"La inviterei a ballare una giga” pensò Mat “e le ruberei un bacio sotto il chiaro di luna, anche se potrei essere suo figlio." Scosse la testa: quella era la regina!

Tallanvor piegò il ginocchio e premette il pugno sulla pietra bianca della corte. «Mia regina» disse «ti conduco un messaggero con una lettera di lady Elayne.»

Mat guardò il gesto del tenente, ma si limitò a fare un profondo inchino. «Una lettera dell’Erede... ah... mia regina» disse. Tese la lettera in modo da mostrare il sigillo dorato. “Appena l’avrà letta e avrà saputo che Elayne sta bene” pensò “le riferirò il resto." Notò lo sguardo di quegli occhi azzurro cupo. “Luce Santa! E appena sarà d’umore meno nero!"

«Porti una lettera di quella scavezzacollo di mia figlia?» disse Morgase, con voce gelida che però dava l’impressione d’essere pronta a scaldarsi. «Allora significa che è viva, se non altro! Dove si trova?»

«A Tar Valon, mia regina» riuscì a rispondere Mat. Gli sarebbe piaciuto assistere a uno scontro d’occhiate fra lei e l’Amyrlin. Ripensandoci,, si disse che era meglio di no. «Almeno, quando sono partito, era a Tar Valon.»

Morgase fece un gesto d’impazienza; Tallanvor si alzò, prese dalle mani di Mat la lettera e la porse alla regina. Per un momento Morgase fissò con cipiglio il sigillo a forma di giglio, poi lo spezzò con una secca torsione del polso. Lesse il messaggio, mormorando tra sé e scuotendo la testa ogni due righe. «Non può dare altre spiegazioni, eh?» brontolò. «Vedremo se non cambierà idea, quando...» A un tratto s’illuminò. «Gaebril, è diventata Ammessa. Dopo neppure un anno nella Torre.» Tornò seria, con la stessa repentinità, e serrò le labbra. «Appena le metto le mani addosso, la sciagurata rimpiangerà di non essere ancora novizia.»

Non c’era niente, pensò Mat, che la mettesse di buon umore? Decise di riferirle il resto, ma avrebbe preferito che non avesse l’aria di chi è pronta a far mozzare la testa al primo che capita. «Mia regina» cominciò «per caso ho udito senza volerlo...»

«Fai silenzio, ragazzo» disse con calma l’uomo con la giubba a ricami d’oro. Era un bell’uomo, bello quasi quanto Galad e d’aspetto altrettanto giovanile, malgrado le tempie brizzolate, ma di corporatura molto più robusta, più alto di Rand, con spalle grosse quasi quanto quelle di Perrin. «Fra qualche istante ascolteremo ciò che hai da dire.» Allungò la mano sopra la spalla di Morgase e le prese la lettera. Morgase lo fissò con occhi di fuoco, ma l’uomo le posò la mano sulla spalla, senza staccare gli occhi dalla lettera, e la collera della regina si calmò. «Pare che abbia lasciato di nuovo la Torre» disse l’uomo. «Al servizio dell’Amyrlin Seat. Quella donna passa di nuovo i limiti, Morgase.»

Mat non ebbe difficoltà a tenere a fieno la lingua, gli si era incollata al palato. Fortuna, pensò ma a volte non sapeva se favorevole o contraria. Quello era l’uomo dalla voce profonda, il “Padrone” che voleva la testa di Elayne. Morgase l’aveva chiamato Gaebril. Il consigliere della regina voleva assassinare Elayne? Luce santa! E Morgase lo fissava come un cane in brodo di giuggiole per la carezza del padrone.

Gaebril si rivolse a Mat Aveva occhi quasi neri, sguardo imperioso e l’aria di chi la sa lunga. «Quali altre informazioni puoi darci, ragazzo?»

«Non so altro… ah .. milord» rispose Mat. Si schiarì la voce lo sguardo di Gaebril era peggiore di quello dell’Amyrlin «Sono andato a Tar Valon a fare visita a mia sorella. È una novizia, Else Grinwell. Mi chiamo Thom, Thom Grinwell, milord. Lady Elayne ha saputo che volevo vedere Caemlyn, tornando a casa .. sono di Comfrey, milord, un piccolo villaggio a settentrione di Baerlon. Non ho mai visto città più grandi di Baerlon, prima di Tar Valon. E lei, lady Elayne, voglio dire, mi ha affidato la lettera» Pensò che Morgase l’avesse guardato di stolto, quando lui aveva accennato a Baerlon; ma sapeva che da quelle parti esisteva un villaggio chiamato Comfrey, ricordava benissimo d’averlo sentito citare.

Gaebril annuì «Sai dove andava Elayne, ragazzo?» domandò. «O che cosa intendesse fare? Se dici la verità, non hai niente da temere. Se menti, sarai sottoposto a interrogatorio.»

Mat non ebbe bisogno di fingere una ruga di preoccupazione. «Milord, ho visto solo quella volta l’Erede. Mi ha dato la lettera... e un marco d’oro!... e mi ha detto di consegnarla alla regina. Del contenuto so solo ciò che ho udito qui.»

Gaebril parve riflettere, ma senza lasciar capire se credeva alle parole di Mat.

«No, Gaebril» disse all’improvviso Morgase. «Già troppi sono stati sottoposti a interrogatorio. Ne capisco la necessità, come mi hai spiegato, ma non in questo caso. Si tratta solo di un ragazzo che ha portato una lettera di cui ignora il contenuto.»

«Come ordina la mia regina, così sarà» disse Gaebril. Usò un tono pieno di rispetto, ma le accarezzò la guancia in un modo che le diede colore al viso e la indusse a dischiudere le labbra come se aspettasse un bacio Morgase trasse un respiro incerto «Dimmi, Thom Grinwell, mia figlia stava bene, quando l’hai vista?»

«Sì, mia regina. Sorrideva, rideva, parlava con lingua pepata... voglio due..»

Al suo imbarazzo, Morgase ridacchiò. «Non avere paura, giovanotto. Elayne ha davvero una lingua pepata, fin troppo spesso. Sono lieta che stia bene.» Lo scrutò a fondo. «Un giovanotto che ha lasciato il suo piccolo villaggio spesso trova difficile tornarvi. Penso che viaggerai molto, prima di rivedere Comfrey. Forse tornerai persino a Tar Valon Se per caso vai laggiù e rivedi mia figlia, dille che spesso ci si pente di ciò che si dice in un momento di collera. Non la toglierò dalla Torre Bianca prima del tempo. Dille che ricordo spesso quando anch’io ero nella Torre e sento la mancanza delle tranquille conversazioni nello studio di Sheriam. Riferiscile che l’ho detto io, Thom Grinwell.»

Mat scrollò le spalle, a disagio. «Sì, mia regina. Ma... ah... non ho intenzione di tornare a Tar Valon. Una volta nella vita basta e avanza. Mio padre ha bisogno che l’aiuti a mandare avanti la fattoria. Senza di me, le mie sorelle saranno incollate alla mungitura.»

Gaebril rise, divertito. «Allora sei ansioso di mungere vacche, ragazzo? Forse dovresti vedere un poco il mondo, prima che cambi. Prendi!» Tolse di tasca un sacchetto e lo tirò a Mat; questi lo prese al volo e sentì, sotto la pelle di daino, delle monete. «Se Elayne ti ha dato un marco d’oro per consegnare la lettera, te ne darò dieci per compensarti d’averla consegnata. Gira un poco il mondo, prima di tornare alle tue vacche.»

«Sì, milord» disse Mat. Soppesò la borsa e riuscì a sorridere. «Grazie, milord.»

Ma Gaebril, pugni sui fianchi, si era già girato verso Morgase. «Credo che sia tempo, Morgase, d’incidere quella piaga purulenta sulla frontiera dell’Andor. Per il tuo matrimonio con Taringail Damodred, puoi rivendicare il Trono del Sole. Le Guardie della Regina possono sostenere le tue pretese. Forse le aiuterò perfino, in qualche modo. Dammi retta.»

Tallanvor toccò il braccio di Mat e tutt’e due s’inchinarono e si ritirarono. Secondo Mat, nessuno lo notò. Gaebril parlava ancora; ogni lord e ogni dama parevano pendere dalle sue labbra. Morgase ascoltava, perplessa, ma annuiva come tutti gli altri.

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