45 Caemlyn

Mat aveva un vago ricordo di Caemlyn, ma quando, nelle prime ore del mattino, s’avvicinarono alla città, provò l’impressione di non essere mai stato da quelle parti. Fin dall’alba non erano più stati soli sulla strada e adesso erano circondati da altri cavalieri, da carovane di mercanti, da gente a piedi, tutti diretti alla grande città.

Costruita su colline, Caemlyn era sicuramente grande come Tar Valon; fuori delle immense mura (alte cinquanta piedi, di pietra grigio chiaro con striature bianche e argento che scintillavano al sole, intervallate di torri rotonde con in cima lo stendardo del Leone dell’Andor, bianco in campo rosso) pareva fosse sistemata un’altra grande città intorno a quella interna, tutta mattoni rossi e pietra grigia e muri intonacati, locande addossate a case di tre e quattro piani, così belle da appartenere di sicuro a ricchi mercanti, e botteghe con le merci esposte su banchi sotto tendoni, ammassate contro ampi magazzini privi di finestre. Mercati aperti, sotto tettoie di tegole rosse e viola, costeggiavano la strada; uomini e donne già offrivano a gran voce le proprie merci e contrattavano a squarciagola, mentre animali chiusi in recinti — vitelli, pecore, capre, maiali, polli, anatre, oche — aumentavano il frastuono. A Mat parve di ricordare che Caemlyn gli era sembrata troppo rumorosa, quando c’era stato la prima volta; ora gli pareva un cuore che pompasse ricchezza.

La strada portava a una porta ad arco, alta venti piedi, spalancata e sorvegliata da Guardie della Regina, in giubba rossa e pettorale scintillante; le guardie diedero a Thom e a Mat la stessa occhiata che davano agli altri e non badarono neppure al bastone ferrato posto di traverso sulla sella di Mat: parevano preoccuparsi soltanto che il traffico scorresse senza intoppi. Mat e Thom varcarono la porta. Snelle torri si alzavano anche più in alto di quelle di guardia e le cupole mandavano riflessi bianchi e dorati sopra le vie formicolanti di gente. Appena all’interno delle mura, la strada si divideva in due vie parallele separate da un’ampia striscia erbosa e alberata. Le colline formavano una sorta di scalinata verso il cocuzzolo circondato da mura d’un bianco scintillante come quelle di Tar Valon, che racchiudevano altre cupole e torri. Si trattava della Città Interna, ricordò Mat: in cima al cocuzzolo sorgeva il Palazzo Reale.

«Inutile aspettare» disse a Thom. «Consegno subito la lettera.» Guardò le portantine e le carrozze che fendevano la folla, le botteghe che esponevano mercanzie. «Si può guadagnare dell’oro, Thom, in questa città; basta trovare dove si gioca a dadi o a carte.» Con queste ultime aveva meno fortuna che con i dadi, però pochi, a parte i nobili e i ricchi, vi giocavano.

Thom sbadigliò e si strinse nel manto da menestrello come se fosse una coperta. «Abbiamo cavalcato tutta la notte, ragazzo» rispose. «Prima, almeno, troviamo qualcosa da mangiare. Alla Benedizione della Regina si mangia bene.» Sbadigliò di nuovo. «E si dorme bene.»

«Mi ricordo» disse lentamente Mat. In un certo modo, era vero. Ricordava il nome del grasso e brizzolato locandiere, mastro Gill. Proprio in quella locanda Moiraine aveva raggiunto Rand e Mat stesso, quando Mat pensava che finalmente si erano liberati di lei. Ma ora Moiraine era lontano a giocare il suo gioco con Rand, non aveva niente a che fare con lui. Non più. «Passerò da lì, Thom» soggiunse. «Ho detto che mi sarei liberato della lettera entro un’ora dall’arrivo in città e sono deciso a farlo. Tu vai avanti.»

Thom annuì e cambiò direzione; sbadigliando ancora, girò la testa. «Non perderti, ragazzo» disse a mo’ di saluto. «Caemlyn è una città grande.»

"È ricca” pensò Mat, spingendo il cavallo nella via affollata. “Figuriamoci se mi perdo! So trovare benissimo la maledetta strada!" A quanto pareva, la malattia gli aveva cancellato una parte di ricordi. A volte vedeva una locanda, con i piani superiori che sporgevano rispetto a quello inferiore e l’insegna che cigolava alla brezza, e la ricordava, ma non ricordava altre cose visibili da quel punto. Cento passi di strada gli tornavano all’improvviso alla memoria, mentre i tratti precedente e seguente restavano per lui misteriosi come dadi ancora nel bussolotto.

Anche con quei buchi nella memoria, era sicuro di non essere mai stato nella Città Interna e neppure nel Palazzo Reale (quello non l’avrebbe proprio dimenticato!) però non aveva bisogno di ricordare la strada. Le vie della Città Nuova (ricordò a un tratto questo nome: si riferiva alla parte di Caemlyn che aveva meno di duemila anni) andavano in tutte le direzioni, ma i viali principali conducevano tutti alla Città Interna. Le guardie alla porta non fermavano nessuno.

All’interno delle mura c’erano edifici che non avrebbero sfigurato a Tar Valon. Le vie curve risalivano alture e rivelavano snelle torri i cui muri a piastrelle scintillavano di cento colori o giardini disposti secondo disegni visibili dall’alto o vedute di pianure ondulate e foreste al di là della città. In pratica non importava quale via avrebbe preso: tutte portavano a spirale verso la sua meta, il Palazzo Reale dell’Andor.

In breve Mat si ritrovò ad attraversare la smisurata piazza ovale antistante il Palazzo, diretto alle alte porte dorate. Il candido Palazzo dell’Andor, con le snelle torri e le scintillanti cupole dorate, le alte logge e gli intricati bassorilievi, non sarebbe stato di certo fuori posto fra le meraviglie di Tar Valon. Il foglio d’oro che rivestiva una sola cupola, si disse Mat, gli avrebbe consentito di vivere nel lusso per un anno intero.

Nella piazza la folla era meno numerosa, come se quella zona fosse riservata alle grandi occasioni. Una decina di Guardie stava di sentinella alle porte: i soldati tenevano l’arco inclinato contro la piastra pettorale e avevano il viso nascosto dalle sbarre d’acciaio della visiera dell’elmo brunito. Un ufficiale tracagnotto, con il mantello rosso scostato per mettere in mostra il nodo di treccia d’oro sulla spalla, andava su e giù lungo la fila e scrutava ogni soldato come se pensasse di scoprire ruggine o polvere.

Mat fermò il cavallo e sfoggiò un sorriso. «Buon giorno a te, capitano» disse.

L’ufficiale si girò, lo fissò da sotto la visiera, con occhi infossati, piccoli e lucenti: pareva un grasso topo in gabbia. Era più anziano di quanto Mat non s’aspettasse (di sicuro tanto anziano da meritare qualche nodo in più sulla spallina) e grasso, più che robusto. «Cosa vuoi, contadino?» domandò l’ufficiale, con voce aspra.

Mat inspirò a fondo. “Far colpo” si disse. “Impressiona questo stupido, così non mi farà aspettare tutto il giorno. Non voglio ricorrere al documento dell’Amyrlin per evitare che mi prendano a calci." «Vengo da Tar Valon» rispose. «Dalla Torre Bianca. Porto una lettera...»

«Tu vieni da Tar Valon, contadino?» L’ufficiale scoppiò a ridere, con la pancia scossa dalle convulsioni; ma poi smise di colpo, come se un coltello avesse tagliato di netto la risata, e lo guardò di traverso. «Non vogliamo lettere da Tar Valon, vagabondo, ammesso che tu ne abbia una! La nostra buona regina, la Luce la illumini, non accetterà parola dalla Torre Bianca, finché non le sarà restituita l’Erede. Non ho mai sentito che un messaggero della Torre portasse giubba e brache da campagnolo. Mi sembra chiaro che hai in mente qualche trucco e forse pensi di rimediare qualche moneta, con la storia della lettera; ma sarai fortunato se non finirai in cella! Se vieni da Tar Valon, torna laggiù a dire che la Torre restituisca l’Erede, prima che veniamo a prenderla! Se cerchi monete, sparisci, prima che ti faccia picchiare fino a sputare l’anima! In ogni caso, stupido d’un babbeo, fila via!»

Finalmente Mat riuscì a intervenire. «La lettera è di pugno dell’Erede, capitano» disse in fretta. «Viene da...»

«Non t’ho detto di sparire, furfante?» gridò il grassone. Era rosso quasi come la giubba. «Sparisci, avanzo di fogna! Conto fino a dieci; se non te ne sei andato, ti arresto perché con la tua presenza insudici la piazza! Uno! Due!»

«Sai contare addirittura fino a dieci, stupido trippone?» sbottò Mat. «Ti ho detto che Elayne ha mandato...»

«Guardie!» gridò l’ufficiale, ora paonazzo. «Arrestate questo Amico delle Tenebre!»

Mat esitò un istante, convinto che nessuno prendesse sul serio una simile accusa; ma la Guardie si lanciarono su di lui, tutt’e dodici. Allora Mat girò il cavallo e galoppò davanti a loro, inseguito dalle grida del grassone. Il cavallo non era da corsa, ma distanziò facilmente i soldati a piedi. Lungo le vie, la gente si scansava e agitava il pugno alle sue spalle e imprecava come l’ufficiale.

"Stupido” pensò Mat, riferendosi a quest’ultimo; poi aggiunse un altro “stupido” per sé. “Dovevo solo dire il suo maledetto nome come prima cosa! ‘Elayne, Erede dell’Andor, manda questa lettera a sua madre, la regina Morgase.’ Luce santa, chi avrebbe immaginato che la pensano a questo modo, su Tar Valon?" Dai ricordi dell’ultima visita, le Aes Sedai e la Torre Bianca venivano subito dopo la regina Morgase, nella simpatia delle Guardie. “Maledizione, Elayne poteva avvisarmi!" pensò ancora; poi, con riluttanza, ammise: “Anch’io potevo farle qualche domanda, però".

Prima di raggiungere le porte ad arco che immettevano nella Città Nuova, mise al passo il cavallo. Non credeva che le guardie del palazzo lo inseguissero ancora ed era sciocco attirare l’attenzione di quelle alla porta, varcandola al galoppo; ma queste guardie non lo guardarono nemmeno, come quando era entrato.

Mentre passava sotto l’ampio arco, sorrise e quasi tornò indietro. All’improvviso aveva ricordato un particolare e aveva avuto un’idea che lo attirava molto di più del pensiero di varcare le porte del palazzo. Anche se il grassone non fosse stato di servizio.

Cercò la Benedizione della Regina e si perdette due volte; alla fine trovò l’insegna raffigurante un uomo in ginocchio davanti a una donna dai capelli rossodorati, con una corona di rose d’oro, che gli teneva sulla testa la mano. La locanda era un largo edificio di pietra, a tre piani, con alte finestre fin sotto il tetto di tegole rosse. Mat vi girò intorno e andò al cortile della stalla, dove un tizio dal viso da cavallo, in veste di cuoio che difficilmente poteva essere più duro della sua stessa pelle, prese le redini del castrone. Mat credette di ricordare il nome dello stalliere: sì, Ramey.

«È passato un mucchio di tempo, Ramey» disse, gettandogli un marco d’argento. «Ti ricordi di me, vero?»

«Non...» cominciò Ramey; poi colse il brillio d’argento dove s’era aspettato rame, tossì e cambiò il cenno in una via di mezzo tra saluto militare e inchino. «Be’, sì, certo, padrone» proseguì. «Scusami. Mi era uscito di mente. Non ho buona memoria, per le persone. Per i cavalli, sì. Li conosco bene, i cavalli. Hai un bell’animale, padrone. Lo tratterò bene, stai tranquillo.» Parlò tutto d’un fiato, senza permettere a Mat di dire una parola; poi portò in fretta il castrone nella stalla, prima d’essere costretto a ricordare il nome di Mat.

Con una smorfia agra Mat prese sottobraccio il grosso rotolo di fuochi d’artificio e si mise in spalla il resto del bagaglio. “Quello lì non mi distinguerebbe dalle unghie dei piedi di Artur Hawkwing” pensò. Un uomo tozzo e muscoloso sedeva sopra un barile capovolto accanto alla porta della cucina e grattava con gentilezza l’orecchio a un gatto bianco e nero accovacciato sul suo ginocchio. L’uomo esaminò Mat, con occhi dalle palpebre pesanti, notando soprattutto il bastone dalla punta ferrata, ma non smise di grattare il gatto. Mat ebbe l’impressione di conoscerlo, ma non riuscì a ricordare il nome. Senza dire niente, varcò la porta; nemmeno l’uomo disse niente. “Non c’è motivo che si ricordino di me” pensò Mat. “Probabilmente ogni giorno qualche maledetta Aes Sedai viene a cercare qualcuno."

In cucina, due cuoche e tre sguattere si muovevano velocemente fra spiedi e fornelli, agli ordini di una donna tonda con i capelli a crocchia e un lungo mestolo che usava per indicare i vari lavori. Mat era sicuro di ricordarla: si chiamava Coline. Che nome, per una donna così grossa! Ma tutti la chiamavano Cuoca.

«Bene, Cuoca» esordì «sono tornato e non è trascorso nemmeno un anno.»

La donna lo scrutò un momento e annuì. «Mi ricordo di te» disse. Mat cominciò a sorridere. «Eri insieme con quel giovane principe, vero?» proseguì la donna. «Quello che assomigliava tutto a Tigraine, la Luce ne illumini la memoria. Sei il suo domestico, vero? Allora torna qui, il giovane principe?»

«No» rispose Mat, brusco. Luce santa, un principe! «Non credo che verrà, in questo periodo; e non credo che ti piacerebbe, se venisse.» La donna protestò, dicendo quant’era bello ed elegante il giovane principe...

"Maledizione” pensò Mat “ci sarà una donna che non vada in brodo di giuggiole per Rand e non faccia gli occhi dolci appena lo si nomina? Sai come strillerebbe, se sapesse cosa fa Rand adesso!" Si rifiutò di lasciarla continuare. «C’è mastro Gill?» domandò. «E Thom Merrilin?»

«In biblioteca» rispose la donna, sbuffando. «Di’ a Basel Gill, quando lo vedi, che bisogna ripulire quei tubi di scarico. Oggi stesso, bada bene.» Notò qualcosa che una cuoca faceva all’arrosto di manzo e ancheggiò da quella parte. «Piano, piano, bambina» disse. «Renderai la carne troppo dolce, se ci metti tutto quell’arrath.» Parve essersi già dimenticata di Mat.

Mat scosse la testa e andò in cerca della biblioteca, di cui non si ricordava. Non ricordava neppure che Coline fosse la moglie di mastro Gill; ma se mai aveva sentito una donna mandare ordini al marito, il tono era proprio quello. Una graziosa cameriera dai grandi occhi scuri ridacchiò come una sciocca e lo indirizzò in fondo al corridoio accanto alla sala comune.

Entrato nella biblioteca, Mat si bloccò, sorpreso. Negli scaffali contro le pareti c’erano più di trecento libri, e altri sui tavolini: in vita sua non aveva mai visto tanti libri in un unico posto. Notò, sopra un tavolino accanto alla porta, una copia rilegata in pelle dei Viaggi di Jaim Farstrider. Aveva sempre avuto l’intenzione di leggerlo (Rand e Perrin gli raccontavano sempre episodi tratti da quel libro); ma, a quanto pareva, non riusciva mai a leggere i libri che gli interessavano.

Basel Gill, dal viso rubicondo, e Thom Merrilin fumavano la pipa, seduti a un tavolino, davanti a un gioco di sassolini. Un gatto calicò, acciambellato sopra un altro tavolo, accanto a un bussolotto di legno per dadi, li guardava giocare. Mat non vide da nessuna parte il manto da menestrello, perciò immaginò che Thom avesse già preso una stanza.

«Ti sei sbrigato prima di quanto credessi, ragazzo» disse Thom, senza togliersi di bocca la pipa. Si tirò un baffo, studiando dove deporre il sassolino sul tavoliere quadrettato. «Basel, ti ricorderai di Mat Cauthon.»

«Me ne ricordo» disse il grasso locandiere, scrutando il gioco. «Era ammalato, se non sbaglio, l’ultima volta che ci siamo visti. Spero che ora tu stia meglio, ragazzo.»

«Sto meglio» rispose Mat. «Non ricordi altro? Solo che ero ammalato?»

Mastro Gill fece una smorfia nel vedere la mossa di Thom e si tolse di bocca la pipa. «Considerando con chi te ne sei andato, ragazzo, e considerando la situazione attuale, forse è meglio non ricordare altro.»

«Le Aes Sedai non vanno tanto per la maggiore, vero?» replicò Mat, posando i bagagli sopra un’ampia poltrona e appoggiando allo schienale il bastone; ne occupò un’altra, lasciando penzolare dal bracciolo la gamba. «A quanto pare, le Guardie del Palazzo pensano che la Torre Bianca abbia rapito Elayne.» Thom guardò a disagio il rotolo di fuochi d’artificio, poi la pipa accesa; borbottò qualcosa e riprese lo studio della partita.

«Non esattamente» disse Gill. «Ma l’intera città sa che l’Erede è scomparsa dalla Torre. Thom dice che è tornata, ma qui ancora nessuno sa niente. Forse Morgase è stata informata, ma tutti, fino all’ultimo mozzo di stalla, camminano in punta di piedi, per non rischiare la testa. Lord Gaebril l’ha trattenuta dal mandare davvero qualcuno dal carnefice, ma non giurerei che prima o poi Morgase non lo faccia. Di sicuro lui non ha calmato la collera di Morgase verso Tar Valon. Anzi, penso che l’abbia peggiorata.»

«Morgase ha un nuovo consigliere» spiegò Thom, con voce asciutta. «A Gareth Bryne non piaceva, perciò Gareth è stato confinato nelle sue proprietà a guardare le pecore far lana. Basel, metti un sassolino o no?»

«Un momento, Thom. Un momento. Voglio metterlo bene.» Strinse fra i denti il cannello della pipa e guardò, pensieroso, il tavoliere, mandando sbuffi di fumo.

«Così la regina ha un consigliere che non ama Tar Valon» disse Mat.

«Be’, questo spiega il comportamento delle guardie, quando ho detto da dove venivo.»

«In questo caso» disse Gill «puoi considerarti fortunato d’essertela cavata senza qualche osso rotto. Cioè, se si trattava delle nuove guardie. Gaebril ha sostituito con uomini di sua scelta metà delle Guardie di Caemlyn e non è impresa da poco, considerando che è qui da pochissimo tempo. Corre voce che Morgase possa maritarlo.» Allungò la mano per posare un sassolino, la ritrasse, scosse la testa. «I tempi cambiano. La gente cambia. Troppi cambiamenti, per me. Divento vecchio, immagino.»

«Si direbbe che vuoi farci diventare vecchi tutt’e due, prima di fare la mossa» brontolò Thom. Il gatto si stiracchiò e gli si accostò per farsi grattare la schiena. «Parlare tutto il giorno non ti farà trovare quella buona. Perché non ammetti d’avere perso, Basel?»

«Non ammetto mai la sconfitta» ribatté Gill, duro. «Posso ancora batterti, Thom.» Posò nell’intersezione di due linee un sassolino bianco. «Stai a vedere.» Thom sbuffò.

Da quel che vedeva, Mat pensò che Gill non avesse molte probabilità di vittoria. «Mi basterà evitare le guardie e mettere in mano a Morgase la lettera di Elayne» disse. “Soprattutto se assomigliano a quello stupido ciccione” pensò. “Chissà se ha detto a tutti che sono un Amico delle Tenebre!"

«Non l’hai consegnata?» tossì Thom. «Credevo che fossi ansioso di liberartene.»

«Hai una lettera dell’Erede?» esclamò Gill. «Thom, perché non me l’hai detto?»

«Scusami, Basel» borbottò Thom. Lanciò a Mat un’occhiataccia. «Il ragazzo è convinto che qualcuno cerchi d’ucciderlo a causa della lettera, allora ho pensato di lasciar parlare lui. A quanto pare, la cosa non lo preoccupa più.»

«Che tipo di lettera?» domandò Gill. «L’Erede torna a casa? E lord Gawyn? Spero che tornino. Si parla davvero di guerra contro Tar Valon. Come se qualcuno potesse essere tanto stupido da fare guerra alle Aes Sedai. Se vuoi il mio parere, tutto è collegato a quelle voci pazzesche di Aes Sedai che aiutavano un falso Drago da qualche parte a occidente di qui e usavano come arma il Potere. Anche così, non vedo come questo fatto possa spingere qualcuno a fare guerra alle Aes Sedai; anzi, al contrario.»

«Sei sposato con Coline?» domandò Mat.

Mastro Gill trasalì. «La Luce me ne guardi!» esclamò. «La locanda sarebbe sua, quest’ora. Se fosse mia moglie...! Cosa c’entra, con la lettera dell’Erede?»

«Niente» rispose Mat. «Ma hai continuato così a lungo che pensavo avessi dimenticato le tue stesse domande.» Gill emise un verso strozzato e Thom scoppiò a ridere. Mat non diede al locandiere il tempo di replicare. «La lettera è sigillata» disse. «Elayne non mi ha detto cosa c’è scritto.» Thom lo guardava in tralice e si lisciava i baffi: cosa credeva, che avrebbe confessato d’averla aperta? «Ma non penso che torni a casa. Vuole davvero diventare Aes Sedai, secondo me.» Raccontò il tentativo di consegnare la lettera, smussando alcuni spigoli che non occorreva si risapessero.

«I nuovi» disse Gill. «L’ufficiale, almeno, pare uno di loro. Ci scommetterei. Non sono meglio dei banditi, per la maggior parte. Aspetta il pomeriggio, ragazzo, quando cambieranno le guardie alla porta. Fai subito il nome dell’Erede e abbassa un poco la cresta, nel caso il tuo interlocutore sia uno degli uomini di Gaebril. Nocche sulla fronte, non avrai difficoltà.»

«Non ci penso nemmeno, maledizione. Non lecco i piedi a nessuno. Neanche a Morgase. Stavolta non mi avvicinerò neppure alle guardie.» Ma gli sarebbe piaciuto sapere quali voci avesse diffuso il ciccione. Gli altri due lo fissarono come se fosse impazzito.

«E come conti d’entrare nel Palazzo Reale senza passare davanti alle Guardie?» domandò Gill. Sgranò gli occhi, come per un ricordo improvviso. «Luce santa, non vorrai... Ragazzo, avrai bisogno della fortuna del Tenebroso, per non lasciarci la pelle!»

«Cosa t’è venuto in mente, Basel?» disse Thom. «Mat, quale sciocca bravata hai escogitato?»

«La fortuna è dalla mia, mastro Gill» disse Mat. «Tu pensa a farmi trovare un buon pasto, quando torno.» Nell’alzarsi, prese il bussolotto e lanciò i dadi accanto al tavoliere. Il gatto balzò giù dal tavolo, inarcò la schiena e soffiò contro di lui. I cinque dadi si fermarono: tutti segnavano “uno". Gli Occhi del Tenebroso.

«Questo punteggio può essere il migliore o il peggiore» disse Gill. «Dipende dal gioco, no? Ragazzo, secondo me hai intenzione di giocare un gioco pericoloso. Perché non prendi i dadi e vai nella sala comune a perdere qualche monetina? Hai l’aria del tipo a cui piace giocare. Provvederò io a far giungere la lettera a chi di dovere.»

«Coline vuole che tu pulisca gli scarichi» disse Mat; mentre il locandiere batteva le palpebre e borbottava tra sé, si rivolse a Thom: «Non c’è molta diversità, se mi becco una freccia nel tentativo di consegnare la lettera o un coltello nella schiena durante l’attesa. Le probabilità sono le stesse: sei a favore e mezza dozzina contro. Thom, pensa solo a farmi preparare quel pasto.» Gettò sul tavolo davanti a Gill un marco d’oro. «Fai mettere in una stanza il mio bagaglio, locandiere. Se la moneta non basta, te ne darò altre. Maneggia con prudenza il rotolo di tela cerata: a Thom fa venire la tremarella.»

Nell’uscire, udì Gill dire a Thom: «Ho sempre pensato che quel ragazzo fosse un furfante. Come si è procurato quelle monete d’oro?»

"Vinco sempre, ecco come” pensò Mat, torvo. “Mi basta vincere ancora una volta, poi ho chiuso con Elayne e con la Torre Bianca. Devo vincere ancora una volta."

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