Per la traversata dalla Luna alla Terra ci volevano, a seconda dei casi, dalle cinque alle quindici ore. Janas e alcuni altri viaggiatori decisero di prendere il traghetto espresso che partiva un’ora dopo l’astronave di lusso, ma che arrivava in vista degli abitanti terrestri sei ore prima di quella.
Quando il traghetto Luna-Terra penetrò nell’atmosfera e puntò verso le immense installazioni portuali del Nord America sud occidentale, la Terra era immersa nelle tenebre. Attraverso la nuvolaglia sparsa, Janas intravvedeva le luci che costellavano il lungo nastro della città di Phoenix-Tucson: una striscia di gemme lucenti posata sull’aspro paesaggio. A nord-est del grappolo di luci che costituiva il centro di Phoenix, si notavano altre luci, molto più deboli. Erano, anche queste, le luci di una metropoli, e cioè del centro cresciuto attorno allo spazioporto di Flagstaff, posato sull’altopiano del Colorado.
Il traghetto rallentò la corsa e frenò, mentre attraversava un banco sottile di nuvole a grande altezza, e infine, quando le luci dello spazioporto si distinsero ben nitide calò lentamente verso il suolo. Pochi secondi dopo, lo scafo si posava, leggero come una piuma, sulla pista di acciaio e cemento.
Appena le luci brillarono all’interno della cabina, Robert Janas si liberò dalla cinghia, si alzò, raccolse la borsa e seguì gli altri viaggiatori fino all’overbus che li aspettava per portarli al terminal, a sette chilometri dalla pista.
Cinque minuti dopo Janas scese dall’overbus sul piazzale del terminal e si guardò attorno, cercando ansiosamente la faccia familiare di Jarl Emmett. L’amico però non c’era, o, per lo meno, non era ad aspettarlo a quell’uscita.
Janas aveva appena fatto pochi metri nel piazzale affollato, quando un ragazzo, in divisa da fattorino, lo raggiunse.
«Il comandante Robert Janas?» chiese il ragazzo.
«Sì» disse Janas.
«Un messaggio per voi, signore.» disse l’altro. «Per favore, firmate qui.»
Janas scarabocchiò la sua firma, ci stampò sopra l’impronta del pollice, ritirò la busta e mise nella mano del ragazzo una monetina d’oro.
«Grazie, signore.»
Appena il ragazzo scomparve nella folla, Janas apri la busta. Dentro c’era un foglio di carta, con tre parole appena: “Da Eddie’s-Jarl”. “Che strano!” pensò Janas. “Comunque Jarl avrà i suoi buoni motivi.”
Prendendo la strada mobile che attraversava il piazzale, Janas chiamò un tassi, senza far caso all’uomo che, in silenzio e facendo finta di nulla, lo aveva seguito.
Janas prese l’overcab per andare a Flagstaff, poi decise di scendere prima di essere arrivato a destinazione. Aveva voglia di fare un po’ di strada a piedi nella notte; di guardarsi attorno, di riascoltare i rumori della Terra, perché mancava dal pianeta da molto tempo e aveva bisogno di restarsene un poco da solo, prima di immergersi nei problemi che lo aspettavano.
Era autunno, ormai, e l’aria era fresca, nonostante il caldo che saliva dalle strade della città. Janas indossava un’uniforme che era stata studiata per un mondo più caldo della Terra, ma il fresco della notte gli faceva piacere, dopo l’atmosfera artificiale in cui era costantemente vissuto da quando aveva lasciato Odino. In quella città di montagna, l’aria era pura e limpida, perché le autorità di Flagstaff erano molto severe in fatto di inquinamento atmosferico. Le luci della città velavano lo splendore delle stelle, e il cielo appariva di un color grigio piombo, ma Janas non se ne dava pensiero. Per chi arrivava da Odino, il cielo notturno della Terra non era uno spettacolo eccezionale.
Benché fosse già molto tardi, le vie di Flagstaff erano affollate, perché sulla Terra gli abitanti avevano quasi dimenticato che esisteva un periodo di rotazione diurna del loro pianeta.
L’uniforme di Janas passava pressoché inosservata in quello spazioporto dell’emisfero occidentale, dove non era raro vedere l’azzurro e l’oro della CNS. Janas, invece, era sbalordito dalla foggia dei vestiti dei suoi concittadini.
L’ultima volta che era stato sulla Terra, una decina d’anni prima, le donne erano coperte da capo a piedi: maniche lunghe, gonne lunghe, colori sobri. Adesso tutto era cambiato. Per le vie di Flagstaff si vedevano ragazzine con le gonne lunghe un palmo, nonostante l’aria frizzante. C’erano camicette sgargianti, sottane inverosimilmente corte, catene e collane composte di lucidi dischi metallici, braccialetti di plastica luccicante, che lanciavano sprazzi di luce. In testa, le donne inalberavano pettinature alte e elaboratissime, dai colori più incredibili.
La stessa rivoluzione era avvenuta negli abiti degli uomini. Non usavano più le giacche e i pantaloni comodi e scuri. Adesso tutti portavano camicie di seta rigonfie e pantaloni attillatissimi, ornati di nastri sgargianti e di frange che li facevano sembrare tanti buffoni medioevali o personaggi usciti da un quadro del rinascimento.
A Janas la nuova moda non andava a genio. Aveva visto, è vero, abiti ben più audaci, su altri mondi, ma questa era la Terra. Questa era la gente che fissava la moda e il gusto per tutti. “Ad ogni modo” pensò tra sé, “non è affare mio.”
Oltre la moda troppo spinta, molte altre cose erano cambiate a Flagstaff. La città sfavillava di luci, e aveva più l’aria di uno spazioporto di Orpheus o Loki, che non del centro spaziale più importante della capitale della Confederazione. Dappertutto spuntavano bar e locali di infimo ordine; e, dove dieci anni prima si allineavano i negozi eleganti che vivevano sul turismo, adesso si aprivano case malfamate. Le strade brulicavano di soldati e di mercenari, con le loro ragazze troppo dipinte; gente di tutte le razze, proveniente da migliaia di mondi diversi e sbarcata quaggiù per difendere la Confederazione. C’era in giro troppa allegria, che nascondeva un senso di disperazione, di decadenza, di paura.
Flagstaff era cambiata; o meglio, era cambiata la Terra. Robert Janas, nato a un migliaio di chilometri da quella città, si sentiva un estraneo sul suo mondo.
In quel momento avvertì sul collo una sensazione insolita. Si fermò di botto, nel bel mezzo della strada affollata, per guardare indietro. Gli parve di vedere un uomo voltarsi in fretta, e far finta di guardare in una vetrina; però non era sicuro che quell’individuo lo stesse realmente seguendo.
“Ma chissà perché devono pedinarmi” pensò tra sé. Ma non aveva neppure finito di formulare la domanda, che già sapeva la risposta. “Sì” concluse Janas “c’è una ragione per starmi alle calcagna.”
Prosegui per la sua strada e, poco dopo, gli apparvero davanti le luci del locale a cui era diretto.
Appena entrato da “Eddie’s” che era il bar più antico di Flagstaff, Janas si diresse immediatamente verso la toeletta, entrò, chiuse la porta e, senza perdere un secondo, si svestì. Quell’individuo che lo aveva seguito, gli aveva dato un senso di disagio, che sarebbe passato solo quando avesse chiarito alcune cose.
Seminudo al centro dello stanzino, Janas aprì la borsa, ne estrasse un oggetto simile a una penna, e si mise a esplorare accuratamente gli abiti, passando l’oggetto a pochi centimetri dalla stoffa. Quando arrivò sotto il colletto, dalla parte della schiena, si senti un leggerissimo “bip”, e una gemma di luce rossa si accese sulla punta dell’apparecchio. Esaminando la stoffa con estrema attenzione, Janas scoprì l’oggetto che cercava. Là dietro, fissata al tessuto da due graffette, c’era una minuscola radio trasmittente, larga appena un centimetro. Janas la strappò dal cappotto, la buttò in terra e col tacco della scarpa si affrettò a ridurla in briciole.
Dopo di che ricominciò l’indagine, passando, centimetro per centimetro, tutti gli indumenti che aveva indossato, compresa la borsa, e solo alla fine ebbe la certezza che non gli avevano appiccicato addosso nessun altro “aggeggio” elettronico.
Non aveva la più pallida idea di chi gli avesse fatto quel regalo, né di quando il fatto fosse potuto accadere. Da quando era sbarcato, prima sulla Luna e poi sulla Terra, le occasioni non erano certo mancate. Comunque, avrebbe fatto bene ad essere più cauto in futuro.
Sentendosi più sollevato all’idea di non essersi sognate le cose, Janas si vesti e usci.