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Sugli schermi dell’Armada del­la Confederazione cominciava a delinearsi, in tutta la sua imponenza, lo schieramento nemico. Qualcuno disse:

«Non sapevamo che nella Galassia ci fossero tante navi.»

Era una strana flotta, quella dei ribelli, messa assieme con le navi catturate alla Confede­razione, con i mercantili tra­sformati in navi da guerra, con gli scafi costruiti dai ribelli, prima che la Confederazione scoprisse e distruggesse i can­tieri. Era una flotta etero­genea, ma poderosa e agguer­rita. Per decenni, via via che le loro forze si consolidavano, i ribelli avevano evitato un confronto diretto con la Con­federazione, ma ora erano ri­tornati, decisi a portare la guerra in casa del nemico e ad arrischiare tutte le forze nello scontro decisivo, che avrebbe segnato le sorti dell’umanità.

La “Salamina” avanzava, se­guita dal resto dell’Armada. Le navi della Confederazione non avevano che un obiettivo: farla finita, una volta per tutte.

Quasi al centro della forma­zione da combattimento del l’Armada avanzava la nave am­miraglia, il centro nevralgico della flotta, la CT “Shilo”. In plancia, seduto al posto di comando, circondato dagli uf­ficiali e dagli apparati elettro­nici ausiliari, c’era il coman­dante della flotta, il Grande Ammiraglio del Corpo di Spe­dizione della Confederazione, Abli Juliene.

L’attesa era intollerabile. L’ammiraglio Juliene si sentiva isolato e solo, in mezzo al turbinare degli avvenimenti, e nel profondo di se stesso era convinto che il destino della battaglia non stesse nelle sue mani, ma nelle mani di un altro, dell’uomo che un tempo era stato suo superiore e suo amico: il comandante in capo delle Forze Militari della Lega dei Mondi Indipendenti, il ge­nerale Henri Kantralas.

Juliene cercava d’immagina­re come gli sarebbe apparso oggi Kantralas: forse era diven­tato un po’ più vecchio e pacato, ma restava sempre un personaggio imponente, mono­litico, con una lunga barba: una specie di Jehovah nell’An­tico Testamento. Era questo l’uomo che Juliene era venuto a affrontare e, se possibile, a sconfiggere, l’uomo che gli aveva insegnato tutto quel che lui sapeva sull’arte della guer­ra, l’uomo che non aveva mai una flessione, che era sempre nel giusto, sempre sicuro di sé. Juliene, in quegli istanti, si sentiva a disagio sul suo seggio di comando; gli pareva di esse­re stanco e insignificante e si chiedeva come sarebbe riuscito ad affrontare un uomo come Henri Kantralas.

Ma lo affrontò.

Il primo urto della battaglia, che sarà ricordata fino alla fine dell’umanità, fu sostenuto dalla “Salamina”. I grandi tubi di lancio si spalancarono, vomi­tando nel grigio Anti-spazio centocinquanta missili a testa­ta nucleare. Immediatamente gli schermi protettivi entraro­no in azione avvolgendo le unità di entrambe le flotte in uno scudo di difesa vibrante di energia.

Nel grigiore informe, dove, a differenza del continuum delle dimensioni umane, nessu­na stella brillava, i due colossi si affrontarono, scatenando forze capaci di ridurre in cene­re una dozzina di Terre.

Più di una nave ribelle era già stata annientata dal fuoco della “Salamina”, quando un fuoco di sbarramento dei can­noni a energia del nemico riu­scì a penetrare il campo di forza dell’unità terrestre. I missili nucleari puntarono drit­to contro il poderoso incrocia­tore da battaglia, ma, pronta­mente bloccati dai cannoni a energia, esplosero a dieci chilo­metri dal bersaglio. La “Salamina” rispose al fuoco nemico con i proprio pezzi e missili. Un’altra unità ribelle fu in­ghiottita nella vampata atomi­ca, ma un istante dopo una salva di cannoni a energia cen­trò lo scafo della “Salamina” che, in quel momento, era privo di difese.

Un raggio a energia colpì la nave a prua e, attraverso lo squarcio, si insinuò nell’inter­no, mentre grosse nuvole bian­castre di aria si allargavano nello spazio, simili a vapore che sfugge da una conduttura rotta. Sprazzi accecanti di energia avvolsero lo scafo della nave e raggiunsero la plancia. I ponti sparirono in una nuvola di vapore, gli strumenti, uno dopo l’altro, cessarono di esi­stere. Il comandante e gli altri ufficiali in plancia persero tut­ti la vita.

La “Salamina”, al comando dei secondi ufficiali, continuò la lotta combattendo furiosa­mente, come un animale feri­to. Appena lo schermo di pro­tezione si ricostituì, essa si lanciò in mezzo alla flotta nemica, scatenando attorno a sé un inferno di missili e di salve di energia, mirando a coloro che erano venuti a minacciare la Terra. Le altre navi della Confederazione la seguirono.

Un missile nemico esplose nell’attimo preciso in cui gli schermi di protezione della “Salamina” erano abbassati per consentire ai pezzi di bordo di fare fuoco. L’esplosione nucleare si verificò a una certa distanza dalla “Salamina”, ma abbastanza vicino per aprire un altro squarcio nello scafo, che determinò nuove perdite di aria e seminò la morte tra il resto dell’equipaggio. I pochi ufficiali superstiti del ponte ausiliario morirono al loro po­sto, avvolti dal fuoco atomico, tenendo testa, fino all’ultimo, alla furia del nemico.

Per un istante, la “Salami­na” fu una cosa morta, un relitto vuoto e fluttuante nello spazio, destinato a cadere in mano al nemico. Ma non rima­se a lungo in quello stato. I progettisti della “Salamina” avevano fatto le cose a dovere, e la nave era dura a morire.

Nella parte più protetta del­lo scafo, il computer principa­le della nave era ancora in attività. Il calcolatore conti­nuava a chiamare, imperturba­bile, le varie stazioni di coman­do, senza più ottenere rispo­sta. Per qualche secondo il cervello elettronico indugiò a leggere gli ordini, poi scattò sull’autoprogrammazione. Ora la “Salamina” era viva, forse più viva che mai, ed era come un animale ferito, un animale meccanico, ma fornito di intelligenza. Con rinnovato ardore, la “Salamina” si lanciò nella mischia.

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