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La notizia, come avviene sem­pre per le cattive notizie, tra­pelò nonostante le precauzioni prese. L’Armada si era scontra­ta con le forze dei ribelli e era stata sconfitta, e ora i ribelli puntavano verso la Terra per distruggere la Confederazione.

Era già buio, all’avamposto della Base Lunare della Confe­derazione, nel cratere di Co­pernico. L’ombra proiettata dalla cerchia delle mura si era allungata, era scesa nelle pro­fondità del cratere e, a poco a poco, era risalita lungo la pare­te di fronte. Il cielo, col so­praggiungere della notte, non era cambiato: era nero come sempre, e la fetta di Terra appariva sempre più piccola, via via che la Luna ruotava verso di lei la faccia illuminata. La luce riflessa della Terra, pallida e azzurrognola, dava a quel paesaggio desolato un aspetto surreale, tutt’altro che brutto.

Questi sarebbero stati i pen­sieri del caporale Kaire Lee Chan, se lui li avesse tradotti per scritto. Il caporale Chan, però, era convinto di fare sem­plicemente il giro di ronda intorno alla postazione di Co­pernico, secondo un’antica tra­dizione delle forze annate ter­restri, che risaliva all’alba della storia.

E mentre faceva il suo giro, il caporale Chan provava un altro sentimento, che se fosse stato anche questo tradotto per scritto, si sarebbe detto di paura. Il caporale si sentiva un macigno sullo stomaco, un ma­cigno che lui non riusciva né a eliminare né a buttar giù, tan­to che aveva finito per abituar­si a averlo li.

Chan, in realtà, per quanto avesse portato per un certo periodo, e cioè fino a quando gli avevano dato i gradi da caporale, l’uniforme della Con­federazione, non si sentiva un soldato, né, d’altra parte, lo era. Lui era sempre stato un bravo meccanico e, nonostante l’uniforme, lo sarebbe sempre stato: niente di più e niente di meno.

Il caporale Chan si voltò a guardare la cupola di paraglas, che si trovava a un chilometro e mezzo dalla postazione, ed era tutta illuminata, piena di aria, di calore e di birra e di cinque o sei ragazze che la Confederazione concedeva ai soldati in servizio nell’antico avamposto di Copernico; e gli venne voglia di fregarsi il naso e di accendersi una sigaretta, tutte cose che, essendo chiuso nella tuta spaziale, non poteva fare. Allora scacciò con fer­mezza il pensiero delle ragaz­ze: in fondo, era di guardia, e aveva ben altro a cui pensare.

Tornò a alzare gli occhi al cielo, alla fetta di Terra che si stagliava lassù, e pensò alle voci che correvano, secondo le quali il vecchio Juliene le ave­va prese secche dai ribelli, che ora si precipitavano come furie verso la Terra. Chan non pote­va crederci. Juliene era un soldato maledettamente in gamba, era impossibile che non li avesse battuti. Però... però qualcosa gli diceva che forse era vero. A quanto si diceva Kantralas era una vec­chia volpe, molto più astuta di Juliene. E forse...

Un brivido freddo gli corse per la schiena, e a un tratto Chan ebbe la visione di un cielo formicolante di navi, di bombe, di missili, di radiazioni mortali che piovevano sulla Luna, spazzando via cupole, gallerie, campi e... e il caporale Kaire Lee Chan.

Chan impugnò con gesto energico il fucile a radiazioni e prosegui, un passo dopo l’al­tro, il giro di ronda.


Nella città di Grande Rio de Janeiro, nei quartieri poveri, dove un tempo c’era la spiag­gia di Capocabana, un uomo, sospettato di simpatizzare con i ribelli, fu strappato alla pro­pria casa dalla folla inferocita, che chiedeva vendetta su chi aveva messo in pericolo le case e la sicurezza, e minacciato di sconvolgere lo “status quo” in cui finora erano sempre vissu­ti, bene o male.

La folla cresceva, via via che scendeva lungo l’Avenida Rio Brancho, in direzione dell’im­menso monolito, che in tempi più sereni, era stato battezzato il Pan di Zucchero. Nell’aria c’era odore di sangue, mentre la folla spingeva davanti a sé il povero pescatore, scandendo ritmicamente “Confederazio­ne! Confederazione!”

Lo sventurato tentò di unir­si al coro per dimostrare che la pensava anche lui così, ma, appena aprì la bocca per grida­re, un omaccione lo colpì bru­talmente sulla bocca.

Il tribunale era stato im­provvisato a metà della grande arteria e, arrivata a quel punto, la folla si fermò per assistere al processo e alla condanna del traditore, il cittadino Fontes Silva.

Il processo, per chiamarlo così, fu brevissimo. Nel giro di un quarto d’ora si riunì la giuria, composta di vicini di casa e di parenti, per ascoltare i capi d’accusa. Lo sventurato non aveva nessuno che lo di­fendesse: la moglie cercò inva­no di intervenire a suo favore, ma fu immediatamente trasci­nata via fra le urla bestiali della folla. Infine fu pronun­ciata la sentenza: morte per lapidazione. Immediata!

Il povero pescatore, intonti­to e confuso, che non aveva altra colpa se non di aver messo in dubbio la divinità di Jonal Herrera, ricevette il primo col­po nella schiena, proprio sotto la scapola, e la pietra gli lacerò l’abito e gli scorticò la pelle. Lo sventurato barcollò in avanti e immediatamente un’al­tra pietra lo raggiunse, sotto l’occhio sinistro. Fontes Silva, accecato e ferito, cadde in ginocchio. Da quel momento i colpi non si contarono più e il poveretto non poté far altro che urlare e morire.


Petrinja era una delle tante città di quel nome che si trova­vano nei Balcani. Questa, pro­babilmente, era la più piccola di tutte, poco più di un paese; praticamente faceva parte del comprensorio di Skopje, ben­ché fosse una cittadina indi­pendente. A Petrinja c’era un magistrato che si faceva vanto sia della propria conoscenza degli affari spaziali, quanto della fedeltà al grande presi­dente, Jonal Herrera. Questo magistrato aveva una figlia che, dando prova di scarsa fan­tasia, aveva chiamato Katrina: e la ragazza, priva di immagi­nazione come il padre, aveva sposato un giovanotto di nome Peter. Peter, da parte sua, era un ammiratore sfegatato del generale ribelle Henri Kantralas, ciò che non rendeva certo facile la vita in casa del magi­strato.

Il giorno in cui si diffuse la notizia della disfatta, il magi­strato indisse una riunione straordinaria nel municipio di Petrinja, e Peter vi partecipò, portando un grosso coltello infilato sotto la giacca. Quan­do il vecchio magistrato male­disse i nomi di Kantralas e della Lega dei Mondi Indipen­denti, il giovane Peter balzò dal suo posto e cacciò il coltello nel cuore di suo suocero.

Claude Smith-Henderson, capo della setta dei Fratelli della Liberazione, quando ap­prese che la battaglia di Armageddon era stata combat­tuta, si rallegrò per l’imminen­te venuta sulla Terra del Salva­tore. Smith-Henderson, con la lunga barba grigia svolazzante, corse a dire ai fratelli ciò che aveva appreso.

Dopo aver ascoltato il breve sermone ed essersi uniti alla preghiera di invocazione, i Fra­telli e le loro mogli abbando­narono le proprie case, nella città di Big Bell, nel Compren­sorio di Perth, in Australia, e mossero verso gli altopiani che si trovano a occidente di Meekatharra.

Mentre Smith-Henderson li guidava, prima a nord, poi a ovest, in cerca di un luogo dove il Liberatore potesse più facilmente scoprirli e distin­guerli dalla innumerevole mol­titudine di peccatori che popo­lavano la Terra, dalle loro case in fiamme si levava di giorno una nube di fumo e di notte una colonna di fuoco.

Quando finalmente la molti­tudine raggiunse il luogo san­to, e cioè un monte di terra coperto di erba giallastra, Smith-Henderson costruì un altare e s’inginocchiò per pre­gare. Poi lui e il suo gregge si prepararono ad attendere la fine del mondo.


Il fumo riempiva il cielo del Complesso di Tientsin, nell’A­sia Orientale, quando la folla assalì la casa del Governatore, fracassando finestre, urlando insulti al presidente, violentan­do le figlie del Governatore, dando alle fiamme l’edificio e chiedendo la resa della Confe­derazione, prima che le navi ribelli bombardassero la Terra. Il Governatore s’era salvato fuggendo a bordo di un over-car militare, abbandonando le due figlie alla mercé della folla inferocita. Una delle ragazze, che aveva allora quindici anni, scampò al massacro e poté più tardi riferire che cosa era avve­nuto.


La cittadina Vivian Franz, una modella di ventitré anni, attrice della 3D, si fermò al­l’antico quartiere di “Times Square” di Manhattan, nel Comprensorio del Nord Atlan­tico. Le notizie terribili che aveva sentito pochi minuti pri­ma le turbinavano in capo: la flotta della Confederazione era stata annientata e il generale dei ribelli, Henri Kantralas, aveva giurato di bombardare la Terra, per vendicare le atrocità compiute dalla Confederazio­ne su Antigone.

Lei vedeva già tutto nella sua immaginazione: le navi che scendevano in picchiata nel cielo di Manhattan, la vampa tremenda che avrebbe spazza­to via l’antica città, mentre le acque dell’Hudson bollivano e ogni cosa che le era cara veniva distrutta. E lei, che cosa pote­va fare in quella immane scia­gura?

Vivian si fermò vicino a una statua, coperta dalla patina del tempo, di un antico presidente della Confederazione, di cui ignorava il nome, e posò la borsetta sull’aiuola verde che circondava il monumento.

“Non c’era proprio niente da fare” pensò. Tra pochi gior­ni, forse tra poche ore, i ribelli sarebbero arrivati fin li, allora Vivian Franz non sarebbe stata più viva!

Scosse la testa, sforzandosi di scacciare quell’idea tormen­tosa. Poi, a un tratto, si decise. Se davvero era destinata a mo­rire fra brevissimo tempo, lei voleva almeno, prima della morte, compiere una follia, una vera follia, qualcosa che desse un significato, anche pazzesco, agli ultimi istanti della sua vita.

I passanti si fermarono per osservare lo spettacolo, ma nessuno, neanche gli agenti, tentò di fermarla.

Vivian, prima di tutto, si sfilò le scarpe e le posò vicino al muretto che circondava l’aiuola, ai piedi della statua; poi si tolse la camicetta, la piegò e la posò sul marciapie­de, accanto alle scarpe. Succes­sivamente fu la volta della gonna e delle calze, che posò sopra alla camicetta.

Ritta in piedi, completa­mente nuda, sotto lo sguardo imponente della vecchia sta­tua, Vivian Franz si sciolse i capelli: i riccioli bruni le ricad­dero sulle spalle. Dopo avere scavalcato il muretto che chiu­deva il monumento, si sedette nell’aiuola, ai piedi della sta­tua, e si voltò verso la gente che stava a guardare.

«Dobbiamo morire» dis­se, con una voce che la stupiva tanto era calma. «Non ci resta più molto tempo.» Tac­que e fissò negli occhi un uomo che era in piedi, vicino a lei. «Se qualcuno mi vuole, venga qui.»

Pochi avevano risposto al­l’invito quando Vivian crollò: le forze le erano venute meno improvvisamente.


Walter Duncan chiuse la porta con cura estrema, e vi ammucchiò contro tutti i mo­bili che riuscì a spostare. Quando ebbe concluso la sua fatica, fece un passo indietro per contemplare l’opera, mor­morando fra sé: “Andava asso­lutamente fatto!”

«Walt?» Ledith lo chia­mava da in cima alle scale. «Per l’amor del cielo, che cosa stai facendo?»

Duncan scostò una ciocca di capelli bianchi dalla fronte e si voltò per guardare quella vec­chietta, che era sua moglie.

«Prendo qualche precau­zione.»

«Ma non fare lo sciocco» ripeté Ledith. «Sali e vieni immediatamente a letto.»

«Vengo subito» disse Duncan, dando un’occhiata al­l’antico fucile che era appeso sul falso caminetto. Staccò la vecchia arma da fuoco, e ne controllò il funzionamento. «Saranno cinquant’anni che non è più stata usata» bron­tolò tra sé.

Dopo essersi messo il fucile sotto il braccio, s’incamminò su per le scale.

«Ma, Walt, cosa credi di poter fare con quell’arnese?» gli chiese Ledith, indignata.

«Tu non pensarci» disse Duncan con aria misteriosa, entrando nella stanza da letto.

Duncan si diresse verso la finestra, scostò la tendina e scrutò in direzione di Alford, che si trovava a due chilometri di distanza. Fuori c’era chiaro sufficiente da permettergli di distinguere le sagome degli edi­fici punteggiati di luci. Aber­deen era troppo lontana per riuscire a vederla, ma lui sape­va che Aberdeen sarebbe stata sicuramente uno dei bersagli di quei dannati ribelli. “Be’” con­cluse Ducan “se quei maledetti decidono di attaccare Aber­deen e di muovere verso Al­ford, troveranno me ad affron­tarli!”

Duncan sorrise a sua moglie, posò l’antico fucile accanto al letto e cominciò lentamente a svestirsi, con la flemma tipica dell’età avanzata.

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