Da “Eddie’s” era appena cominciato il primo spettacolo del pomeriggio. La sala era abbastanza affollata, quando il sipario si alzò sulla finta scena dei crateri di Odino e sulle dodici ballerine che presentavano la prima parte dello spettacolo.
Le ragazze avevano quasi finito il loro numero e l’orchestra si preparava a attaccare il motivo introduttivo di Rinni e Gray, i due ballerini Paraseleni, quando i soldati della Confederazione, con l’uniforme verde da guerra, fecero irruzione in sala.
Nessuno se ne accorse, né l’orchestra nascosta al pubblico, né le ragazze sul palcoscenico, e neppure i due ballerini, pronti per entrare in scena. Li notarono solo pochi clienti, i quali, però, essendo ormai abituati a vedere soldati armati in giro per la città, non ci fecero caso e tornarono a occuparsi dello spettacolo.
I soldati si tennero nell’ombra, vicino all’ingresso del locale, come se aspettassero un segnale per entrare in azione. Il tenente che li guidava, molto giovane, con una faccia imberbe da ragazzo, si guardava intorno innervosito, tormentando continuamente la pistola ad ago d’ordinanza che aveva alla cintura. Dopo qualche minuto, tirò fuori una sigaretta dalla tasca della divisa, se l’infilò in bocca e la accese con le dita che gli tremavano. Il soldato semplice che gli era vicino guardò con un certo disprezzo il suo superiore, e subito dopo tornò a occuparsi delle dodici bellezze che si dimenavano sulla scena. Dopo di che, non badò più al tenente.
Anche il tenente tentò di concentrarsi sulle ragazze, ma quei due fogli di carta che aveva in tasca, vicino alla scatola di sigarette, lo preoccupavano troppo, perché potesse pensare ad altro.
I tamburi dell’orchestra rullarono, le trombe squillarono e le ragazze del corso si ritirarono verso il fondo. In un silenzio profondo, una chitarra accennò al motivo principale dei Paraseleni.
Le luci passarono dal bianco all’azzurro. Rinni, correndo e danzando insieme, lasciandosi alle spalle una nuvola di nebbia bianca, arrivò in scena, vestita unicamente di quella nuvola evanescente e della fascia azzurra. Un sospiro involontario si levò dal pubblico, o, per lo meno, dagli uomini presenti in sala.
La inseguiva, un po’ sul serio un po’ per finta, il suo innamorato.
Il tenente dalle guance imberbi e pallide buttò a terra il mozzicone di sigaretta, lo schiacciò e, con gesto tutt’altro che sicuro, estrasse la pistola dalla fondina.
«Andiamo» disse con voce malferma ai suoi uomini, troppo giovani e incerti come lui.
Con passo che voleva essere baldanzoso, il tenente attraversò la sala, senza curarsi delle proteste dei clienti, e si fermò con i suoi uomini a pochi metri dal palcoscenico. A questo punto, tirò fuori dalla tasca della giacca i due mandati, li passò nella sinistra, e posò la destra sul calcio della pistola ad ago.
«Cittadina Rinni Kalendar e cittadino Grayson Manse» disse con voce stridula «per ordine del presidente della Confederazione Terrestre, secondo le norme di legge approvate testé dal Parlamento della Confederazione Terrestre, siete accusati di tradimento e sottoposti a arresto immediato, in attesa del processo che avrà luogo davanti a una Corte Marziale.» Era stato un discorso lungo e il tenente si stupì di essere arrivato con tanta facilità alla fine. Alzò gli occhi al palcoscenico.
I due ballerini si erano fermati di scatto a guardare di dove venisse la voce, e apparivano spaventati e stupiti. Le loro parole furono soffocate dalle grida del pubblico.
«Venite...» Le parole del tenente furono interrotte da Gray, che, con un balzo, si lanciò giù dal palcoscenico, gridando a Rinni:
«Scappa!»
Rinni, per un secondo, lo fissò con gli occhi sbarrati: i suoi lineamenti delicati erano sconvolti dalla angoscia e dalla paura. Poi si voltò.
Gray, però, aveva calcolato male il tuffo dal palcoscenico. Il ballerino mancò per più di un metro il tenente e fini addosso a un grosso spettatore, che protestò con veemenza. Subito si senti il crepitio di un fucile a energia, azionato forse più per caso che intenzionalmente. La mira comunque si dimostrò buona: Gray non ebbe neppure il tempo di gridare e cadde morto, in mezzo a una nuvola di fumo.
La ragazza, intanto, aveva superato il palcoscenico e si era già quasi messa in salvo, quando il tenente ritrovò una sufficiente presenza di spirito per gridare: «Ferma!» E nello stesso istante, come aveva imparato in tre mesi di intenso allenamento, fece fuoco automaticamente con la pistola a raggio.
Il raggio sottile della pistola ad ago colpi Rinni all’anca. La ragazza barcollò in avanti, cercando qualcosa a cui aggrapparsi. Il tenente continuò a far fuoco, e stavolta il raggio arrivò in mezzo alle scapole della ragazza, lasciando un cerchietto di pelle annerita.
Rinni rantolò, crollò in avanti, girò su se stessa. Il sangue le affiorò alle labbra rosse, spiccando come una macchia scura nel pallore improvviso del viso.
«Non importa» ebbe ancora la forza di gridare. «Non importa. Non li fermerete più, ormai.»
E si accasciò sul palcoscenico.
Quando arrivò il medico, Rinni era già morta.
Nel quartiere di San Mateo, nel Comprensorio San Francisco-Oakland, una ragazza dai capelli castani era affacciata alla finestra di un appartamento di un vecchio palazzo che dava sulla baia di San Francisco, e scrutava l’orizzonte al di là della baia, verso est, oltre il gruppo di edifici che costeggiavano il nuovo Monte Eden. Alla fine, buttò a terra il mozzicone che stava fumando, tirò fuori, con gesti estremamente lenti e misurati, una seconda sigaretta e se la infilò in bocca. Ci volle un bel po’ prima che riuscisse a trovare i fiammiferi, e la sigaretta si accese solo al terzo tentativo.
Lanciando in aria una boccata di fumo, Enid Campbell guardò giù, lungo i quindici piani che si allungavano sotto di lei fino a terra. Non riusciva a vedere l’uomo che aspettava immobile, nascosto nell’ombra dell’edificio dall’altra parte della strada, ma sapeva con assoluta certezza che l’individuo era ancora li, come del resto vi era stato per tutta la giornata.
“Chi era?” si chiedeva la ragazza. “Che cosa voleva?” Ma non era ben certa di volere conoscere la risposta.
Finalmente si scostò dalla finestra, abbassò le tende e andò verso l’apparecchio a 3D, posato su un tavolino in un angolo della stanza.
Le ci volle un grande sforzo di volontà per non chiamare una certa camera della Residenza Ufficiali di Central, ma sapeva che, se l’avesse fatto, sarebbe stato pericoloso.
Si sdraiò sul letto e accese un’altra sigaretta, mentre pensava a suo fratello. Quel mattino in cui lei e Bob erano tornati dalla gita, Rod non era rientrato a casa, e, da allora, lei non era più riuscita a mettersi in contatto con lui né con i suoi amici. Purtroppo sapeva dov’era, anche se dentro di sé sperava che non fosse vero che quella testa calda di suo fratello avesse preso lo strato-jet per Ginevra, pistola in pugno, per andare ad ammazzare il presidente. “Rod” diceva tra sé la ragazza, “sei un vero pazzo!”
Enid si alzò, andò alla finestra, guardò la baia e, mentre si augurava che quella giornata interminabile finalmente finisse, provava un senso di paura per la notte imminente.
A circa novemilaseicentottanta chilometri a est dal Comprensorio San Francisco-Oakland, sulle rive del fiume Rodano, c’era l’antica città di Ginevra. Al centro di un parco altrettanto antico, che aveva nome “La Place Neuve”, si levava un insieme di edifici che ricordavano vagamente il vecchio palazzo della Società delle Nazioni, che sorgeva nella stessa località millecinquecento anni prima.
Benché fossero le undici di sera, il traffico continuava a fluire lungo le vie della capitale della Confederazione Terrestre, con la stessa intensità delle ore diurne, e l’ora tarda non impedì al presidente dal convocare in seduta d’emergenza il Parlamento, per ratificare, seduta stante, un altro dei suoi decreti.
All’esterno del palazzo, a mezzo chilometro dall’aula del Parlamento, sei giovanotti percorrevano il viale alberato che conduceva alla sede delle Camere. I sei erano stati avvertiti che tra poco sarebbe arrivato Jonal Constantine Herrera e non volevano mancare al suo passaggio: erano fermamente decisi a ucciderlo.
I sei giovanotti, che facevano parte delle squadre d’azione de “I figli della Libertà” erano armati tutti di pistole a ago, nascoste sotto i consueti e inverosimili abbigliamenti terrestri. Ma, per uno dei sei, la pistola pesava un quintale, perché quel giovane era stato designato a mettere fine alla vita del despota che governava la traballante Confederazione. Si era offerto volontario e ormai non poteva più ritirarsi.
Rod Campbell si passò la lingua arida sulle labbra e osservò le due guardie che erano di servizio ai due lati dell’ingresso in cima alla scalinata di marmo, dove si apriva l’entrata principale della Camera.
«Dove volete andare?» chiese la guardia più vicina, mentre il gruppetto saliva le scale.
«Non lo sappiamo neanche noi» balbettò Campbell. «Vorremmo dare un’occhiata in giro.»
«Qui non si può» disse la guardia. «Stasera no. Andate da un’altra parte.» E li allontanò con un gesto della mano.
Campbell finse di grattarsi la testa e, al segnale, cinque pistole ad ago furono puntate e cinque raggi di energia partirono contro le guardie. I tre agenti federali morirono prima ancora di essere riusciti a estrarre le armi.
Campbell, pistola in pugno, si lanciò verso le porte, le spalancò con un calcio e, tra lo squillo delle suonerie di allarme, piombò nell’immensa aula del Parlamento.
Rod Campbell non ebbe neppure il tempo di vedere il presidente.
Il sistema di allarme a circuito chiuso a 3D entrò in azione nell’istante in cui il giovane spalancava con un calcio la porta. Al segnale, un agente che era di guardia in una stanza sopra le Camere, premette immediatamente il pulsante che azionava due fucili a energia, puntati contro l’ingresso.
Una cortina di fuoco avvolse, per pochi secondi, Campbell, che presto non fu più che un’ombra scura in mezzo a quell’inferno incandescente. Poi quella forma cessò di esistere, divenne vapore e cenere, mentre gli altri cinque attentatori morirono a loro volta, sebbene non così in fretta come Campbell.